Il coraggio oltre l’eroismo: viaggio tra i vigneti estremi della Val di Cembra


di Stefano Tesi

Sarò impopolare, ma oggi si abusa un po’ troppo del concetto di eroe e dell’aggettivo “eroico”. Per chi è cresciuto tra le suggestioni omeriche, gli eroi sono altri da quelli che popolano i social e i giornali: semidei con la testa nel mondo e i piedi nel mito. Per parlare di vino mi piacciono di più il concetto di coraggio e l’immagine dei coraggiosi. Che, sì, forse sono un po’ sotto il livello degli eroi, ma sono anche molto più umani e, in fin dei conti, tangibili. E perciò si misurano con imprese più a portata d’uomo come, appunto, fare il vino.


Ci ripensavo quest’estate, discendendo da Giovo, lungo scale vertiginose, i perigliosi terrazzamenti della Val di Cembra all’inseguimento di Paolo Piffer – vignaiolo radicale, ma per l’occasione metà vignaiolo e metà chaperon – che mi guidava tra i filari spiegandomi i segreti del “mosaico vitato” cembrano, di cui la Cantina sociale di Cembra (non a caso autobattezzatasi “Cantina di montagna”) rappresenta parte cospicua. Due numeri in croce posso aiutare a mettere a fuoco il concetto: trecento soci per trecento ettari, tutti tra i 500 e i 900 metri di quota, spezzettati in prese di mediamente mezzo ettaro, con un fabbisogno annuo di lavoro di 900 ore, in pratica il triplo che in pianura, e con pendenze anche del 40%, dove l’uva viene trasportata a spalla nei “congiàl” (cioè le bigonce). Una faticaccia, nonostante le rese varino dai 40 q.li del Pinot nero ai 65 q.li del resto (Müller Thurgau, Chardonnay, Riesling). Il tutto letteralmente “retto” da almeno 700 chilometri di muretti a secco, fatti a mano, si capisce. Roba per gente coraggiosa, appunto.


In un contesto del genere e in un mondo del vino globalizzato, anni fa da queste parti si era arrivati a un punto in cui l’unica strada per sopravvivere era scegliere la qualità, racconta l‘enologo Stefano Rossi, cembrano di nascita e in azienda dal 2011. “Ci ha aiutato l’esperienza: nel tempo sono emerse infatti alcune particelle particolarmente “fortunate”, individuate dalla cantina attraverso l’osservazione quotidiana”, racconta. “Sono questi vigneti che vanno ad arricchire la complessità del Müller Thurgau, del Riesling, dello Chardonnay e del Pinot Nero della collezione aziendale. Stagione dopo stagione, il carattere di questi appezzamenti è stato sempre più evidente”, continua. “Abbiamo preso confidenza con loro e ci siamo convinti che siano i valori aggiunti per l’identità dell’intera valle”. Da qui l’idea di considerarli come un unico “cru di eccellenza” e farne una linea ad hoc, con cinque vini monovitigno e una cuvèè (“Zymbra”, dall’antico nome della valle).


Vi assicuro, però, che una cosa è parlarne davanti a un bicchiere di Oro Rosso, il Trento doc riserva pas dosè millesimato della Cantina, o seduti a una scrivania col block notes di fronte, un’altra è farlo sotto il sole a picco, con le gambe indolenzite, i polmoni che pompano aria pulita, gli occhi persi nel panorama montano e le pergole trentine che stormiscono intorno, accarezzate, o almeno ti piace illuderti che proprio in quel momento siano accarezzate, dall’Ora del Garda, il vento del sud indispensabile a Cembra per asciugare il clima valligiano. E mentre tu, impossibilitato a scrivere per via del cammino, tenti di mandare a memoria informazioni e suggestioni, croce e delizia di ogni giornalista in movimento, l’implacabile Paolo Piffer prosegue la discesa lungo l’erta che conduce proprio alla sua vigna, raccontando della tradizione familiare portata avanti, da lui e dalla fidanzata come da tantissimi altri in valle. Poi, a un certo punto, devia dalla massima pendenza s’addentra in una specie di vialetto nascosto dalla vegetazione. In fondo al quale si apre qualcosa che somiglia a una grotta, chiusa da un portone rabberciato. 

Lo apre. 

Sembra l’antro di Polifemo. E noi – non certo come eroi omerici e nemmeno come uomini coraggiosi, ma spinti dalla curiosità – entriamo. Dentro di ciclopico non c’è nulla, salvo un paio di botti che, per essere trasportate lì, devono aver richiesto uno sforzo davvero ciclopico. Ci sono invece un focolare, una branda, una lanterna, un po’ di attrezzi, aria umida e tante ragnatele. “E’ la mia cantina di riserva”, spiega Piffer, “quando non ce la facciamo a portare tutta l’uva nella cantina vera, ci arrangiamo qui”.


Della questione, del coraggio e naturalmente dei vini discetteremo qualche ora dopo, placidamente assisi sulla riva del Lago Santo (una delle patrie del curling italiano, correva l’anno 1972), con un bicchiere di Riesling 2018 versato da una magnum, un calice di Pinot nero, un altro di Muller Thurgau e un pezzo di treccia mochena (crema pasticcera e marmellata di mirtilli) pronta da addentare.

We can be heroes (just for one day).

InvecchiatIGP: Silvia Imparato, la signora in rosso, e i suoi gioielli: Montevetrano 1993 e 1999


di Luciano Pignataro

Col passare delle stagioni, il vino diventa racconto autentico, liberandosi come una farfalla dal bozzolo delle narrazioni costruite dagli uffici stampa e dalle ossessive note tecniche che ne accompagnano la nascita. Se è vero che le abitudini stanno cambiando, uno dei grandi meriti della rivoluzione enologica italiana post-metanolo è proprio la capacità di sfidare il tempo, attraversare i decenni e riempire il calice di sensazioni e ricordi. Soprattutto quando l’allungo diventa sorprendente.
Ed è in quel momento che cambia anche il modo di bere. Mi ritrovo sotto il porticato della casa di Silvia Imparato, esattamente trent’anni dopo la mia prima visita. Allora era reduce dallo strabiliante punteggio assegnato da Parker al suo 1993, che fu il surf con cui cavalcò l’onda trionfale del vino italiano di quegli anni. Un’epoca che accomuna tutti noi: ancora con la macchina da scrivere, affascinati dai primi fischi dei collegamenti internet e circondati dai cascioni ingombri di fogli e appunti sparsi nei cassetti.


Una cena di fine estate, c’è la figlia Gaia che è tornata alla base dopo il lockdown, Bruno De Conciliis e signora, la loro figlia Marta e guest star, mia sorella Paola. Penso, mentre Silvia prepara uno spaghetto con aglio, olio e capperi, a quanta gente straordinaria è arrivata sul dosso di questa collina per provare il suo vino, pensato con Riccardo Cotarella quasi per gioco in una Campania che all’epoca, a parte Mastroberardino, D’Ambra e Moio, non aveva etichette da giocarsi nelle conversazioni degli appassionati.


Fu questo il primo miracolo della “signora in rosso” come facilmente titolai sul Mattino quella prima intervista. La serata scorre velocemente, da buoni meridionali, non abbiamo in conto sveglie l’indomani mattina e anche se le avessimo, mai sostituiremmo il sonno alla compagnia. Quello si recupera, i rapporti umani regalano invece momenti unici e irripetibili, come il sorso delle due annate iconiche che Silvia e Gaia hanno scelto per questa cenetta: il 1993, e a questo punto avete anche capito perché, e la 1999 che, ricorderete, è stata una annata di Montevetrano come per quasi tutti i rossi italiani, eccezionale, forse l’ultima vera grande vendemmia prima di quelle del global warming.


I due vini vengono versati contemporaneamente ed ecco che così si ristabilisce un rapporto diretto, immediato, che non è mai il risultato della semplificazione, ma delle complicazioni risolte grazie allo studio e magari anche grazie a qualche intuizione fortunata. Non avevo dubbi, ricordo che parliamo di merlot, cabernet sauvignon e solo successivamente un po’ di aglianico, sulla tenuta del vino, ma non me lo aspettavo così buono. Per certi versi il più vecchietto, 32 anni ormai, addirittura più arzillo e scattante del 1999, annata perfetta e compiuta. Esiste in realtà anche il 1992 e perfino un 1991 non etichettato, davvero una vendemmia fatta fra amici tra cui alcuni della banda del Goccetto di Roma. Ma per convenzione comune l’avventura parte proprio nel 1993 con l’apertura di un ciclo che adesso si trova ad uno snodo particolare ma di cui ci sarà altra sede e occasione per approfondire. Era epoca di sostanza, quando si iniziava a fare vino non si parlava delle pratiche del nonno e del bisnonno, ma si aveva come riferimento sempre il top, valeva per Antinori con il Tignanello come per il Montevetrano che allora iniziava la sua storia.


La 1993 bevuta fra amici, discorrendo di haters, Gaza, letture con il giusto pizzico di pettegolezzi, conferma comunque che Belzebù Parker di vino ci capiva, e ci capisce, se il bicchiere realizzato da Belzebù Cotarella è ancora perfetto, ancora con spunti di frutta, nota fumè appena marcata, fresco e pieno al palato, commiato finale interminabile che impone la voglia di proseguire. Queste serate mi convincono sempre più che per fare qualcosa di significativo oggi bisogna rallentare mentre tutti corrono, avere mistero invece di raccontare tutto in qualche reel scosciato o assertivo al servizio dell’algoritmo. Perché il nocciolo del problema non è fare prima e farsi ascoltare da quante più persone possibile, l’artigiano deve prendersi il tempo giusto e parlare agli interlocutori capaci di capire il suo lavoro.


Il 1999 appare a questo punto un contemporaneo, come è detto, addirittura meno vibrante del precedente, ma comunque vivo, in perfetta forma, lungo, fantastico.
Bisognerà riflettere nuovamente su questi vini degli anni ’90, capire perché adesso conservano un fascino poi dimenticato nell’era del web. Sono le due, i bicchieri sono vuoti. Lasciamo la collina che ha raccontato questa fiaba per oltre tre decenni a tutto il mondo illuminati dalla luna, appagati, felici di aver vissuto e di poterlo ancora raccontare.

Sertura - Taurasi DOCG 2012


di Luciano Pignataro

Agronomo dal 1992, Giancarlo Barbieri ha creato un’azienda che ha nel Greco la sua anima. 


Il suo Taurasi bevuto in Magnum ha però giocato un ruolo magnifico in abbaiamento alla solida cucina contadina cilentana in un pranzo estivo. Frutto integro e in equilibrio con il legno, ancora fresco, lungo nel finale, buonissimo.

Cantine Lipari - IGP Terre Siciliane "Dròmos Trecento" 2022


di Luciano Pignataro

Non pensiamo di essere snob, ma stavolta possiamo sembrarlo perché parliamo di una produzione di appena 300 bottiglie di un’uva poco conosciuta fuori dall’ambiente, la Nocera. Ma se lo abbiamo scelto per questo turno di Garantito Igp lo facciamo perché è sicuramente di tendenza da più punti di vista. 
Il primo è la scelta di vinificare un vitigno un tempo molto diffuso in provincia di Messina, molto affine alla famiglia dei Nerello, che resiste in ordine sparso in piccoli appezzamenti contadini. Il secondo è che parliamo di piante ad alberello, un allevamento che risponde perfettamente alle problematiche relative al mutamente climatico e alla sempre crescente penuria d’acqua in Sicilia. Il terzo punto da sottolineare è l’uso dell’anfora per la macerazione e la fermentazione prima di mettere il vino a riposare per un anno e mezzo in botti grandi. Infine il prezzo, assolutamente sotto i venti euro posto che lo troviate.
Insomma il Dròmos (il termine archeologico indica il corridoio di accesso alle sepolture antiche) sintetizza quella che è a nostro modesto avviso un insieme di indirizzi adottati da piccoli produttori oltre ad accendere il faro su un’area siciliana ricca di sorprese, così come la dirimpettaia Calabria grecanica con il continuo scambio di vitigni da una parte e dall’altra in attesa del ponte di Salvini.


Ce lo porta un amico, il mitico Marco Contursi, di ritorno dai suoi giri in Sicilia e ne godiamo durante un pranzo estivo cilentano a base di capretto, compreso il soffritto di interiora. Lo produce l’azienda Cantine Lipari a Santa Lucia del Mela in provincia di Messina fondata da Francesco Lipari nel. 2014 in Contrada Timpanara, una collina a circa 350 metri che annuncia i Monti Peloritani guardando Capo Milazzo e le Eolie. Appena tre ettari su suolo calcareo e argilloso dove si allevano tre vitigni a bacca rossa (Nero d’Avola, Nocera e Nerello Cappuccio) e tre a bacca bianca (Grillo, Catarratto e Inzolia). Una adesione convinta al territorio e alle pratiche ambientali non invasive.


Il gusto di bere una chicca è un conto, il risultato nel bicchiere è sicuramente un altro e in questo caso abbiamo deciso di segnalarlo proprio perché il vino appare slanciato e moderno nonostante tutte le premesse arcaiche poste dall’anfora e dall’alberello oltre che dal legno grande. Il colore è rosso rubino vivo a tre anni dalla vendemmia, al palato è fresco, leggermente fruttato ma anche con note di macchia mediterranea (suggestione siciliana?). I tannini sono setosi, il vino ha al tempo stesso vigore ed eleganza, accompagna bene il cibo, disseta grazie alla marcata acidità che rende il sorso veloce con un finale che ricorda la frutta rossa percepita in precedenza al naso e un cenno affumicato. La bottiglia finisce presto e ci siamo detti: lasciamone traccia con il monito di non smettere mai di essere curiosi quando si beve e si scrive di vino.

InvecchiatIGP: Rocca delle Macie - Chianti Classico Sant’Alfonso 1999


di Carlo Macchi

Visto che vivo vicinissimo “mi capita di capitare” a Rocca delle Macie e di pranzare con la famiglia Zingarelli. Pranzo informalissimo, quattro chiacchiere tra amici che hanno condiviso cose bellissime e particolari, come i filmati fatti a partire dal 2010 per far vedere l’andamento fenologico di un vigneto (forse i primi di questa tipologia in Italia) e poi il Progetto Rockea con cui raccogliemmo fondi per portare l’acqua ad una casa-famiglia in Malawi. Insomma, clima rilassatissimo ma a un certo punto arriva la sorpresa: una bottiglia di Chianti Classico Sant’Alfonso, il mio vino preferito tra i molti prodotti dall’azienda. Se poi è del 1999, cioè una delle primissime annate, il momento diventa solenne.


Il vigneto Sant’Alfonso si trova nell’omonima tenuta che fin dall’inizio (1973) fa parte di Rocca delle Macie. Siamo attorno ai 250 metri con un terreno che ha una notevole componente argillosa. Naturalmente si parla di sangiovese 100%, allora da vigne giovanissime Questo vino mi è sempre piaciuto per la sua “trattenuta rusticità” che si traduce in una tannicità viva ma equilibrata. Inoltre, al naso il sangiovese spicca sempre senza orpelli dati dal legno. Fermentazione classica in acciaio e poi botte grande per un anno. Oggi esce molto dopo rispetto al passato, ma specie l’annata 1999 era un vino che entrava in commercio appena possibile, quindi un Chianti Classico d’annata non fatto certo per i lunghi invecchiamenti.


Invece quella bottiglia mi ha fatto capire che quando in Chianti Classico un sangiovese è fatto bene regge benissimo a dieci, venti anni e più. Il colore era granato ma abbastanza brillante, il naso all’inizio era leggermente chiuso ma nell’arco di 10 minuti ha mostrato prima note balsamiche e di tabacco per poi, in un viaggio quasi a ritroso nel tempo, arrivare a note di frutta matura e addirittura di fiori. La bocca era equilibrata con tannini dolci e rotondi: non era certo la potenza l’arma migliore del vino e tuttavia la persistenza era veramente notevole.


Un vino che portava con sé un messaggio: fatelo bene il sangiovese, non stressatelo con vinificazioni e invecchiamenti “hard”, poi ci penserà lui a durare nel tempo.

Gini - Pinot Nero Veneto IGT Campo alle More


di Carlo Macchi

Gini=Soave è un’equazione conosciuta per questo quando uno dei due termini diventa “Pinot Nero” rimani spaesato. 


Invece questo Campo alle More 2021, da vigneti sopra ai 500 metri, è proprio buono: grande frutta di bosco matura al naso, corpo importante e succoso con tannini dolci e avvolgenti.

Parte il countdown per Vinòforum 2025 3.200 etichette in degustazione di 800 cantine, oltre 60 tra chef e maestri pizzaioli per le sette serate a Piazza di Siena


È tutto pronto per le serate di Vinòforum 2025. Piazza di Siena si prepara ad accogliere visitatori, addetti ai lavori, stampa e professionisti del settore in un grande omaggio all'enogastronomia tricolore. Ben 3.200 etichette ai banchi d’assaggio di 800 cantine rappresentative dei territori enologici più interessanti di tutto lo Stivale e oltre 60 tra chef e maestri pizzaioli provenienti da Roma e da tutta Italia saranno i protagonisti di centinaia di appuntamenti che, da lunedì 8 a domenica 14 settembre, porteranno il pubblico alla scoperta delle grandi eccellenze e dei migliori talenti del nostro Paese. Sette serate di grandi degustazioni, esperienze enogastronomiche di altissimo livello, ma anche momenti di formazione con i percorsi di avvicinamento al vino e all’Extravergine, nonché spazi business oriented e incontri sul mondo del digitale. Tutto questo nella cornice di Piazza di Siena nel cuore di Villa Borghese, una location d’eccezione che farà da sfondo unico e suggestivo per questa nuova, attesissima 22esima edizione di Vinòforum.

“Vinòforum 2025 rinnova il concetto di Roma Capitale del Vino e del Cibo, questo perché per sette giorni, Piazza di Siena, cuore della città, sarà palcoscenico di promozione assoluta non solo dei prodotti del territorio, ma di tutta l’eccellenza nazionale, con qualche incursione internazionale - racconta Emiliano De Venuti, organizzatore e CEO di Vinòforum. Siamo felici che Istituzioni, Consorzi ed Enti di Promozione, come la Regione Lazio, l’ARSIAL, la Regione Calabria, l’ARSAC, Unaprol, ma anche la Strada del Barolo e dei grandi Vini di Langa, il Consorzio della Doc Friuli Venezia Giulia e Frascati Docg, vedano in Vinòforum un’importante vetrina di diffusione e comunicazione. Siamo onorati infine di avere, per questa edizione, il sostegno da parte del Ministero delle Politiche Agricole, della Sovranità Alimentare e delle Foreste con l’obiettivo di supportare la valorizzazione enologica e gastronomica nazionale e allo stesso tempo rinnovare al pubblico la candidatura della cucina italiana come patrimonio UNESCO”.

Per questa edizione Vinòforum ha in programma un calendario di appuntamenti unici che spaziano dalle cene esclusive in compagnia di grandi chef, agli incontri con i più importanti nomi del vino e menu interamente dedicati alla tradizione gastronomica di Roma e del Lazio nei Temporary Restaurant. Si parte lunedì 8 con Flavio Pulicati di N’Antro Bistrot e L’Oste della Bon’Ora (Roma) anima e cuore della vera cucina romana, Giuseppe Milana di Giù Upside Down Restaurant (Roma), il connubio perfetto tra tradizione, passione per l’Oriente e le origini siciliane dello chef e Alessandro Bizzotti di JappoRomano (Roma), grande esempio di come cultura romana e nipponica possano dialogare alla perfezione. Martedì 9 si prosegue con Riccardo Ulsi de La Bottega Frascatana (Frascati) con la sua cucina sincera e fortemente legata alla tradizione, Ciro Alberto Cucciniello di Carter Oblio (Roma) con le sue materie prime d’eccellenza e Franklin Garcia di Garden Ristò (Roma) che mixa origini ecuadoriane e una cucina sostenibile fatta di materie prime locali. Mercoledì 10 sarà la volta di Enrico Braghese di Zi’ Rico (Palestrina) con il suo menu tributo ai sapori del territorio, Otello Evangelista di Casa Maggiolina (Roma) con i grandi classici della tradizione e Pietro Adragna di Anni e Bicchieri (Roma) che propone materie prime della cucina romana rivisitate in chiave originale. I protagonisti di giovedì 11 saranno: Daniele Mochi di Cantina Simonetti (Frascati) grande esempio di vera tradizione dei Castelli Romani, Paolo D'Ercole di Scima (Roma) con il suo percorso che passa per i piatti più iconici di varie regioni italiane. A chiudere il trio Marco Di Venere e Federico Compagnucci, i due amici e colleghi del ristorante Mafè Osteria Moderna (Roma) che propongono una cucina creativa dalle influenze moderne.

Venerdì 12 sarà il momento Jacopo Caira di Felice a Testaccio (Roma), una vera e propria istituzione dell’autentica cucina romana, Gianluca Marrella di Osteria Da Francesco (Roma) da oltre 60 anni punto di riferimento per chi ricerca piatti della tradizione fatti a regola d’arte e Pietro De Luca dell’Agriturismo La Collina (Monte Compatri), un’oasi per gli amanti dei prodotti d’eccellenza e dei sapori genuini. Ad aprire il weekend, sabato 13, ci saranno Alessandra Verdile, Federico Pitti e Andrea Verdile di Osteria Della Vittoria, nuova apertura in Prati dai sapori di casa e un’atmosfera accogliente, Daniele Maragnani di Bon's (Roma) e il suo menu che fonde tradizione e contemporaneità e Anthony Morosillo di Caligola Osteria Sincera (Roma) e le sue rivisitazioni dei grandi classici. A chiudere la programmazione dei Temporary Restaurant domenica 14, Marcello Acquarelli e Aldo Serra - Hostaria 100 Celle (Roma), punto di riferimento per la tradizione in uno dei quartieri più identitari della Capitale, Emanuele Mastroianni di Tacito (Roma) e la fusione tra cucina romana e influenze calabresi e, infine, Federico Salvucci di Fase Cucina Spontanea (Roma) con la sua cucina innovativa, attenta all’ambiente e legata al proprio territorio.

Vinòforum 2025 riserva un posto speciale al mondo della pizza, con le cene Pizza d’Autore signature by Molino Casillo che questo anno si arricchiranno anche della parte bakery. Da lunedì 8 a sabato 13 settembre, i maestri dell’arte bianca - pizzaioli e panificatori – provenienti da tutta Italia, si presenteranno al pubblico con menù unici ideati e realizzati a quattro mani. “La presenza a Vinòforum 2025 conferma la filosofia del Molino Casillo che vuole essere un vero partner degli artigiani, supportandoli nella valorizzazione della loro arte e del loro talento.”

In apertura, lunedì 8 Leonardo Lanza di Sfizio (Roma) e Francesco Arena di Arena Mastrofornaio (Messina), a seguire, martedì 9, Gabriele Paradiso di Santini Bistrot (Roma) e Marco Lattanzi de Il Toscano Panificio (Corato). Mercoledì 10 sarà la volta di Ciro Salvo di 50 Kalò (Napoli - Roma) e di Alessandro Albanesi di Panificio Albanesi (Roma), mentre saranno Claudio Abate di Abate Pizzeria Gastronomica (Castel di Sangro), Pasquale Moro (Tecnico Molino Casillo) e Mauro Mari di Panificio Mari (Montefiascone) i protagonisti della serata di giovedì 11. Venerdì 12 toccherà a Gianluigi Di Vincenzo di Giangi Pizzeria (Chieti), Antonio Tancredi di Diametro 3.0 (Casoria) e Melania Guarnieri del Panificio Grammo (Palermo) mentre sabato saliranno sul palco Pier Daniele Seu di Seu Pizza Illuminati e Tac (Roma) e Alessandro Lo Stocco . Tutte le creazioni dei pizzaioli saranno abbinate alla famosa Birra d’Abbazia Leffe nelle varianti Rouge, Blonde, Ritual, Triple, Ambree, alla spina e in bottiglia.

Vinòforum è la grande casa di tutti gli amanti del vino di qualità non solo di quello italiano, ma anche delle grandi eccellenze di molti altri Paesi. Una delle grandi novità di questa edizione 2025 è il calendario di degustazioni interamente dedicato ai vini della Spagna che, come l’Italia, può vantare un patrimonio enologico ricco e variegato, con ben 96 denominazioni di origine e alcune tra le regioni vitivinicole più rinomate al mondo. Il programma, predisposto dall’Ente Turistico Spagnolo, tra cui il Turismo di Aragon e il Turismo della Rioja, vedrà una serie di degustazioni guidate, a partire dalle 19.30 fino a serata inoltrata, che apriranno le porte sulle più importanti etichette dell’enologia spagnola, introdotte dalla presentazione Rutas del Vino de España. Qui il programma.

A firmare tutti i momenti di degustazione sarà Paşabahçe, leader globale nel vetro da tavola, che, con il suo calice “Allegra” accompagnerà wine lovers, espositori ed operatori in un percorso di oltre 3.200 etichette. Design elegante, funzionalità e qualità superiore si uniscono per trasformare ogni degustazione in un’esperienza memorabile. La partecipazione di Paşabahçe a Vinòforum 2025 non è solo una collaborazione tecnica, ma una scelta di valore, volta a sottolineare l’importanza del design e della qualità del vetro nella valorizzazione del vino e dell’esperienza sensoriale.

COLPO D’OCCHIO SU VINÒFORUM

Vinòforum nasce nel 2004 come il primo evento dedicato al vino organizzato nella città di Roma. Da ormai venti anni ospita le maggiori cantine italiane, lasciando sempre più spazio all’abbinamento con l’alta ristorazione. Dal 2018 si conferma, per numeri e per aziende partecipanti, la più grande manifestazione enogastronomica del Centro Sud Italia.

DATE: 8 – 14 settembre

LOCATION: Piazza di Siena (Villa Borghese) – Roma

ORARI: dom – giov 19 – 24 // ven – sab 19 – 01

CENE D’AUTORE E TOP TASTING prenotabili online.

Per info e prenotazioni www.vinoforum.it

Dal vino degli anni ’80 ai social di oggi: consigli (non richiesti) a chi vuole raccontarlo


di Carlo Macchi

Mi sto accorgendo sempre più, anche dalle discussioni sui social, che tra quelli della mia generazione, che hanno provato a fare qualcosa nel mondo del vino 30-40 anni fa, e le giovani generazioni, che da 10-15 anni vi si sono approcciate, c’è quasi un muro, non solo dovuto all’età, ma anche alla mancanza di condivisione (spesso sfociante in gelosia) di quanto noi abbiamo vissuto in quei tempi quasi preistorici del vino e, forse, imparato. Per questo quale occasione migliore di parlarne dalle colonne del Garantito IGP, dove IGP sta per I Giovani Promettenti, tutti colleghi con un’età media che sfiora quella di Matusalemme. Inoltre, anche se è lungi da me la voglia di fare un pippone basato sul “ai miei tempi” non sono sicuro di riuscire nell’intento e quindi mi scuso preventivamente. La morte di Ampelio Bucci è solo, in ordine di tempo, un altro mattone mancante al mondo del vino italiano, iniziato a costruire in maniera ampia e articolata (indegnamente pure da me) nei primi anni ottanta. Prima c’era solo Gino Veronelli che predicava praticamente nel deserto ed è stato in quegli anni, (“Tra Reagan e Gorbaciov”, tanto per restare nel tema del titolo dell’articolo) che sono nate tante cose, tra cui quella che oggi viene chiamata critica enogastronomica italiana.


I miei primi (diciamo anche secondi) anni nel mondo del vino e del cibo sono stati all’interno di un’associazione che allora si chiamava Arcigola e oggi Slow Food. Far parte di un’associazione allora così goduriosamente rivoluzionaria mi è servito tantissimo ed è difficile spiegare come se non ricorrendo a concetti come divertimento, sorpresa, gioia, impegno, conoscenza, soddisfazione, rispetto, amicizia, stupore. Sembrano concetti slegati ma nel momento in cui si uniscono, e questo in Arcigola accadeva spesso, fanno scaturire insegnamenti per il presente e per il futuro. Vi racconto questa: durante i bellissimi anni in Arcigola sono riuscito ad incontrare personaggi incredibili ed uno è stato il grande scrittore spagnolo Manuel Vasquez Montalban, con cui noi arcigolosi di Toscana avevamo creato un legame particolare. Una volta ci disse “Ma voi come avete fatto a ritrovarvi, sembra vi siate cercati ad uno ad uno” e questo, detto da persone che si erano incrociate solo perché vedevano nel cibo e nel vino qualcosa per poter dare una mano agli altri, per me fu il più grande complimento che potessero farci, perché voleva dire che avevamo creato un gruppo dove ognuno era un elemento insostituibile.


Ecco, quando vi sentirete così vorrà dire che siete nel posto giusto. Non so dirvi quanto durerà ma quel momento, breve o lungo che sarà, godetevelo e contribuite a farlo godere agli altri perché sarà sicuramente uno dei più belli della vostra e delle altre vite che vi sono vicine. Scusate questa divagazione, enogastronomica solo in parte, ma se si parla di dare consigli, questo viene proprio dal cuore. Ma andiamo avanti con concetti e consigli che spero abbiano i piedi ben piantati in terra. Non è certo un incoraggiamento ma la vecchia battuta su come farsi un piccolo capitale nel mondo del vino (partendo da un grande capitale…) si adatta perfettamente anche a chi questo mondo l’ha vissuto e/o lo vive dalla parte dell’informazione. In altre parole, di critica enoica non si campa o si campa male, a meno che non si faccia finta di non capire la differenza tra dare una notizia e fare una marchetta. Per questo trovatevi un lavoro che vi permetta di avere libertà di espressione parlando di vino, oppure abituatevi a guadagni che vanno dal platonico al quasi risibile.


Negli anni '80 e '90, anche se c’erano giornali ben fatti sull’enogastronomia, si parlava di vino praticamente tramite le guide, anzi nei primi tempi “la guida”. Eravamo nel periodo che prendere Tre Bicchieri sulla guida del Gambero Rosso e di Slow Food/Arcigola voleva dire vendere tutto il vino nell’arco di un mese e per questo qualsiasi voce taceva di fronte al risultato (o non risultato) numerico. Poi le guide sono diventate 2, poi 3, poi sempre più e mentre aumentava il numero diminuiva la loro incisività sul mercato. Di quegli anni porto con me un insegnamento valido forse più oggi che in passato e cioè quello di non seguire le mode enoiche (o almeno provarci). Ci sono stati anni che se non avessi usato la barrique non saresti stata nessuno e se il vino non avesse saputo di legno non sarebbe stato un grande prodotto: era un errore naturalmente e oggi siamo quasi all’opposto e anche questo non è detto sia un bene. Poi c’è stato il periodo in cui se non avevi chardonnay, merlot e cabernet sauvignon non venivi considerato e oggi siamo all’opposto nuovamente. Poi nei primi anni duemila è partita la rivalutazione a tutti i costi dei vitigni autoctoni, oggi ridimensionata e equilibrata. Insomma, il mondo del vino non va avanti in maniera lineare ma, dovendo creare notizia e interesse, “salta” da una moda all’altra e non è per niente facile mantenere un giusto equilibrio e ragionare con la propria testa.


A proposito, due parole sui punteggi dei vini anche se, sono convinto, sarà uno dei consigli meno seguiti. Negli anni ‘80 e nei primi anni ’90 i punteggi erano molto più bassi non perché i vini fossero peggiori ma sia perché non si vedeva la scala numerica come unica traduttrice del termine qualità sia perché non dovevi “far notizia” dando un punteggio più alto del tuo concorrente. Lo so che oggi, in un mondo dove siamo arrivati anche ai 110/10 parlare di punteggi “normali” è anacronistico e che la qualità media dei vini è salita ma non si possono schiacciare tutti i vini tra 93 e 100 e considerare 90/100 come un voto basso. 

Fino ad ora siamo rimasti su ricordi e consigli ma adesso provo a spingermi oltre: come si fa a parlare di vino? Secondo me per scrivere e parlare di vino servono fondamentalmente due cose:

1. saper scrivere (e averlo fatto) di cose diverse dal vino

2. conoscere il vino e il suo mondo.

Il perché del punto 1 lo spiego subito: sbagliando s’impara e quindi magari è meglio fare errori e perfezionarsi in altri campi per poi dare il meglio nel nostro. Ovviamente non serve essere Verga o Tolstoj (altrimenti non sarei qui) ma avere una discreta conoscenza della grammatica italiana e della sintassi. La stragrande maggioranza di chi ha iniziato a fare il giornalista enoico negli anni ottanta aveva (e ha tuttora, per fortuna) una laurea e questo, specie se vuoi comunicare qualcosa a qualcuno in forma scritta, aiuta. Questo sia che tu sia italiano o inglese, francese, tedesco o di dove ti pare. Giustamente un grande produttore di vino mi ha fatto notare che negli anni ’80 e ’90 i pochi giornalisti del mondo del vino avevano a che fare con un mondo “vergine” e potevano (anche perché erano di solito molto bravi a scrivere) trovare parole adatte e magari indimenticabili per presentare un vino, un personaggio, un’azienda, una famiglia. Oggi giocoforza si ripetono concetti già usati e strausati da altri e quando si cercano strade nuove il rischio è quello di usare frasi astruse, che più che avvicinare allontanano il consumatore dal vino.


Inoltre, vorrei mettervi in guardia da un errore in cui si può cadere: scrivere di vino non è incidere in marmo lettere sempiterne per il genere umano e che serviranno a salvare il pianeta, per questo cercate di prendervi il meno possibile sul serio e, se ci riuscite, siate ironici e ancor meglio, autoironici. Conoscere il vino e il mondo del vino è l’altra faccia della medaglia: per fare questo, oltre ad aver frequentato qualche corso di degustazione per avere i rudimenti di base occorrono due cose: enorme curiosità e un’auto. La prima cosa serve per darvi la voglia di partire, la seconda per farlo realmente, perché non si diventa esperti di vino facendosi portare i vini a casa o partecipando a degustazioni, ma facendosi il culo piatto sulla macchina girando per cantine, conoscendo produttori, territori, vigneti e riuscendo a mettere assieme tutto questo. Dato che gli esami non finiscono mai non esiste il momento in cui uno può smettere di girare, perché ricordatevi sempre che mentre assaggi un vino ne nascono altri mille, specie all’estero. Il bello del mondo del vino è che è infinitamente grande tanto da sembrare infinitamente piccolo, ed essere grandi esperti del territorio X vuol dire solo che non sei esperto del 99.9% del resto del mondo enoico. Anche se può sembrare inutile dirlo visitando territori e cantine occorre guardare, annusare, testare non solo il vino: si deve annusare il vino nel bicchiere e l’aria che tira in vigna, in cantina in casa del produttore, gustare la disponibilità, la sincerità, la conoscenza di chi vi sta di fronte perché fare informazione e giornalismo non è altro che cercare di capire le cose e raccontarle al meglio delle proprie possibilità.

Per adesso mi fermo perché comincio ad essere noioso anche a me stesso, figuriamoci a voi.

Insomma, dopo questo pippone apocalittico

Cosa si può usare oggi degli anni ottanta e novanta? Sicuramente la voglia e la curiosità con cui giravamo per cantine e provavamo a capire quello che stava nascendo e poi è nato. Purtroppo, oggi avete meno fortuna di noi che siamo riusciti ad assaggiare tante cose che oggi si possono permettere solo Elon Musk e compagnia, perché 30 anni fa i prezzi dei grandi vini erano mooooooolto più abbordabili di adesso. Il rovescio della medaglia è che si trovavano con maggiore difficoltà. Per questo mi è venuta voglia, dopo 40 anni di servizio (onorato o meno, non sta a me dirlo) in questo campo allora appena seminato, di snocciolare qualche ricordo per provare a dare qualche consiglio a chi oggi è giovane e ha almeno altri 40 anni davanti per poter dire la sua nel mondo del vino.

InvecchiatIGP: Speri - Amarone della Valpolicella Classico "Vigneto Monte Sant’Urbano" 1993


di Roberto Giuliani

Erano altri tempi, non c’è dubbio. Nel 1993 l’Amarone più importante arrivava a toccare i 15 gradi di alcol, oggi persino il Valpolicella Superiore Ripasso li supera. Erano altri tempi anche perché la famiglia Speri non si era ancora “convertita” al biologico, per quello tocca aspettare il 2000.
Erano altri tempi perché l’allora presidente del Consorzio di Tutela vini Valpolicella Carlo Speri contribuì a ottenere un decreto nel quale finalmente l’Amarone prendeva una propria strada, liberandosi una volta per tutte dall’apparire come versione secca del Recioto della Valpolicella.


L’annata 1993 non fu certo eccezionale, ma in Valpolicella, a parte per coloro che ad agosto si sono visti falcidiare vari filari a causa delle grandinate, è stata sicuramente buona, più qualitativamente che quantitativamente; primavera scarsamente piovosa, con una fase nel mese di marzo piuttosto calda, situazione che si è verificata anche in estate, con un caldo importante e pochi casi di pioggia che, se da una parte ha evitato il rischio di malattie per le viti, dall’altra ha prodotto sofferenza da mancanza d’acqua nei vigneti di medio-alta collina. La situazione si è poi risolta in gran parte grazie all’arrivo delle piogge nell'ultima decade di agosto, che hanno consentito di restituire vitalità alle piante e di concludere il ciclo vegetativo.

L’Amarone della Valpolicella Classico Vigneto Sant’Urbano 1993 (allora DOC) proviene dall’appezzamento omonimo, situato nel comune di Fumane a un’altitudine che va dai 280 ai 350 metri s.l.m. ed è ottenuto da corvina veronese per il 70%, rondinella per il 25%, corvinone e molinara per la restante parte. L’affinamento si è svolto per 24 mesi in barrique di Allier (successivamente sostituite dai tonneaux) e per 18 in botti di rovere di Slavonia. Lo degustai per la prima volta nel 2000 e ne rimasi colpito, ma quello che mi trovo davanti oggi va oltre ogni aspettativa. Tra l’altro il tappo l’ho estratto senza alcuna difficoltà e l’ho trovato perfettamente integro. Oltre ad avere un colore granato profondo, esprime una complessità notevole e la parte terziaria non è l’unica a farsi notare, c’è ancora un bel frutto maturo, mora, ciliegia nera, prugna, cenni balsamici, caffè, cacao, tabacco dolce, sottobosco, cuoio, ma mi colpisce soprattutto per la quasi totale assenza di percezioni ossidate, dopo 32 anni era quasi scontato che ci fossero.


Al palato colgo ancora una base acida rassicurante, il frutto è copioso e leggermente dolce, trasuda spezie di ogni genere, pepe, chiodo di garofano, cardamomo, cannella, curcuma e molte altre. Mi sforzo di essere obiettivo, cosa non facile tanto è buono, ma ritengo che sia davvero all’apice delle sue possibilità e che la discesa sia dietro l’angolo, ma al momento è un Amarone monumentale, davvero tra i più sorprendenti assaggiati fino ad ora.

Il Bottino - Lazio Bianco IGT "Avvio" 2023


di Roberto Giuliani

A poco più di 30 km da Roma c’è Lanuvio, nei Colli Albani, dove si fanno ottimi vini ma pochi lo sanno. 


Questo è uno di quelli, della Cantina Il Bottino, trebbiano toscano e malvasia di Candia, dai profumi di agrumi, pere e nocciole, bocca fresca e sapida, dinamica, davvero buonissimo.

Pepe Nero: la ristorazione d’autore di Salvo Cravero sul lago di Bolsena


di Roberto Giuliani

Il mondo della ristorazione italiana è estremamente vario, esistono migliaia di locali “rassicuranti”, che fanno una cucina classica, più o meno territoriale, senza particolare fantasia ma solidamente ancorata al concetto di piatti saporiti e abbondanti, perfetti per le tante persone che a tavola vogliono riempirsi lo stomaco senza cercare particolari emozioni, sensibili più alla sopravvivenza (fame) che alla cultura. Piatti che spesso si ripetono come un capo d’abbigliamento, soprattutto nelle piccole località dove trovi lo stesso tiramisù, le stesse pappardelle al ragù di cinghiale, lo stesso abbacchio alla scottadito, qualcuno più buono qualcuno meno. È il regno di Trip Advisor, dove tutti giudicano liberamente a prescindere dalle loro capacità di lettura di ciò che si trovano nel piatto, spesso creando seri problemi a ristoratori che hanno avuto la sola sfortuna di trovarsi loro malgrado inseriti in questo circo mediatico senza regole. Ovviamente non è tutto così, ma provate a cercare i ristoranti segnalati in una zona specifica e troverete che i “migliori” sono spesso i più dozzinali, quelli dove vedi foto pietose di piatti che a casa faresti cento volte meglio, o forse non faresti affatto, mentre quelli che ci hanno messo anni di studi ed esperienze per fare una cucina di qualità dove la materia prima è lavorata in modo ottimale, si trovano valutati molto più in basso, con la critica di piatti incomprensibili, scarsi e prezzi troppo alti. Ma la ristorazione di qualità grazie a Dio c’è, la possiamo trovare sia in una trattoria di uno dei tanti borghi del nostro amato Paese, sia in locali più raffinati, magari stellati o in odore di stella.
Nel centro Italia, ad esempio, ci sono locali dove il godimento non è solo di pancia ma coinvolge tutti i sensi, come alla Trattoria del Cimino a Caprarola (VT), Da Gregorio a Morrano Nuovo (TR) o da Essenza Trattoria Moderna a Monterotondo (RM), da Antico Mulino a San Felice Circeo (LT), esempi in cui si va ben oltre i soliti piatti, si punta alla qualità delle materie prime, a una cucina radicata nel territorio ma non succube di tradizioni intoccabili, dove la creatività è legata a ricerca e studio, niente improvvisazione ma accostamenti meditati, che toccano corde ben più profonde e impongono una maggiore attenzione ad ogni assaggio.


Giorni fa, approfittando di una gita sul Lago di Bolsena, sono stato da Pepe Nero a Capodimonte, il ristorante di Salvo Cravero, a mio avviso un punto di riferimento nel territorio della Tuscia viterbese, che guarda caso su Trip Advisor è uno di quelli totalmente sottovalutati, e come mi aspettavo è stata una bellissima esperienza. Salvo, molisano classe 1977, ha oltre trent’anni di carriera come chef, ha studiato presso l’Ipsar Alberghiero di Termoli, ha fatto le sue prime esperienze come aiuto cuoco in vari locali e poi nel 1998 si è trasferito a Viterbo iniziando a lavorare presso il Grand Hotel Salus.

Salvo Cravero

Come spesso accade, l’incontro con la donna della sua vita, Sara, è determinante nel dare una svolta al suo percorso di chef. Fa esperienze allo stellato Sans Souci e a L’Antico Bottaro a Roma, partecipa a numerosi corsi di approfondimento, entra nella mitica associazione Euro Toques fondata da Gualtiero Marchesi, dove il contatto con chef internazionali gli ha permesso di ampliare le sue conoscenze e, finalmente, con Sara apre il suo primo ristorante a Vetralla (VT), L’Etoile, che lo porta a importanti successi nelle guide di settore e a una sempre maggiore notorietà televisiva. Nel 2018, insieme a Joe Bastianich, cura i menu per la prima classe “Magnifica” dell’Alitalia (sigh!) e poi per l’ITA Airways. Ma le sue esperienze abbracciano vari ambiti, come quella con la famiglia Masciarelli al Castello di Semivicoli, dove cucinava pensando ai migliori abbinamenti possibili con i loro vini.


Da alcuni anni Salvo Cravero insegna, ha nel cuore l’esigenza di trasmettere tutta la sua conoscenza alle giovani promesse della cucina italiana, lo ha fatto da Boscolo Etoile Academy e Coquis dei fratelli Troiani e collaborando tutt’ora con la Gambero Rosso Academy, dove contribuisce nel formare nuovi talenti. Inoltre conduce corsi di caseificazione, da grande appassionato di formaggi, tanto da avere una piccola produzione con al centro il caprino a latte crudo, frutto di una collaborazione con un amico allevatore. Infine, perché la cucina è un campo vastissimo, complesso e articolato, dal 2020 ha dato vita ai “Corsi arte bianca”, su pizza, pane e lievitati, rivolti a professionisti e appassionati.


La cucina odierna di Salvo Cravero, a mio avviso, mette al centro le materie prime, selezionate ove possibile sul territorio locale, con un equilibrio ottimale negli accostamenti e nella presentazione, inutile realizzare impalcature che rendono quasi impossibile l’utilizzo delle posate, pena un crollo rovinoso, tradizione e modernità con gusto, in ogni portata. I sapori sono veri, diretti, mai prepotenti ma capaci di indurre tra profumi e sapori un senso di completezza, freschezza e profondità. Il menu prevede due percorsi di degustazione: “Radici e alchimie” (4 portate a 65 euro o 6 portate a 80 euro) e “Il viaggio del gusto” (4 portate a scelta ad eccezione del “Nudo e crudo”, a 65 euro); alla carta c’è un’offerta ponderata, direi perfetta, non troppe portate ma neanche poche, infatti abbiamo 5 possibili antipasti, 5 primi, 4 secondi, 3 contorni e 5 dessert (compreso un piatto di formaggi caprino, vaccino e pecorino). Essendo in due abbiamo potuto ordinare cose diverse, ma prima abbiamo apprezzato il pane fatto con lievito naturale e grani selezionati, abbinato ad un ottimo olio EVO da monocultivar caninese. La qualità del pane era evidente: cottura perfetta, croccante fuori, mollica tenera, giusta umidità e sapore fine e persistente, nessun segno di acidità (il lievito madre tende a produrla naturalmente per la presenza di batteri lattici e lieviti).

Astice e l'Orto

Tra gli antipasti abbiamo scelto “L’Astice e l’orto”, ovvero una diversa interpretazione dell’astice alla catalana, con astice al vapore, cipolla rossa in osmosi, olive taggiasche, verdure di stagione, erbe, pomodorini e maionese allo zenzero: un piatto freschissimo, estivo, dai mille profumi dove l’astice esprimeva una carne tenera e saporita.

Mare & Fumo

Il secondo antipasto era “Mare & fumo”: cappesante provenienti da Hokkaidō, molto diverse per consistenza e sapore, affumicate con legni aromatici, guarnite con spuma di peperoni rossi alla brace, olio al basilico e popcorn di maiale, piatto che mi ha colpito per eleganza degli accostamenti e una tenerezza e ricchezza di sapore della cappasanta davvero emozionante.

Marina Evoluta

Come primi abbiamo scelto la “Marinara evoluta”, ovvero cavatelli con sugo di cozze alla marinara, albumi e semola, dressing di prezzemolo e polvere di limone nero (black lime), un piatto che ho apprezzato molto per consistenza, Salvo Cravero ha voluto esaltare l’importanza della masticazione come mezzo per far fondere i sapori in progressione, rivelandosi ad ogni morso, obiettivo perfettamente riuscito.

Assoluto di Gambero ventiventicinque

L’altro primo era “Assoluto di gambero ventiventicinque”, spaghettone artigianale, estratto di gambero rosso, battuto di gambero rosso, foglie di maggiorana fresche, e olio al peperoncino habanero; un piatto il cui “sugo” non era ottenuto da pomodoro ma dalla lavorazione stessa del gambero. Spaghettone cotto alla perfezione, al dente ma non quasi crudo come a volte capita in certi ristoranti stellati, la leggera piccantezza dell’olio esaltava il sapore del gambero, notevole l’equilibrio dei sapori.
Come spesso accade, se partiamo dall’antipasto spesso dobbiamo scegliere o il primo o il secondo per ragioni di “capienza”, ma questa volta almeno un secondo lo abbiamo preso, ovvero la “Frittura d’autore” perché invece dai soliti calamari e gamberi, era composta di calamaretti spillo, lattarini, gamberi rosa, aromatizzati con paprika dolce, cipollotto, basilico, pepe rosa e lime. Ne è valsa la pena, frittura asciutta, gustosa, per nulla pesante, che abbiamo accompagnato con un’ottima “Giardiniera fatta in casa con verdure di stagione”.


Ad accompagnare quest’ottimo pranzo sulla riva del lago, un classico di Franz Haas, il Petit Manseng, classe 2023, un vino che ha saputo adattarsi perfettamente alle diverse portate, dal profumi intenso di frutta esotica, agrumi, erbe aromatiche e riverberi minerali. A proposito, la carta dei vini è ampia e comprende anche interessanti etichette internazionali.

Terra di Tuscia

Infine i due dessert: “Terra di Tuscia”, composta da streusel di nocciole (burro, farina, zucchero, nocciole, infornate e poi sbriciolate), ganache montata alla nocciola, olio EVO e miele, nocciola pralinata, terriccio di cacao, polvere di funghi, erbe spontanee, corteccia di nocciola, fiore di finocchio, mentuccia e spugna di finocchio. Una dimostrazione di quanto la pasticceria possa essere complessa e variegata, e proprio per questo nota dolente in molti ristoranti, che proprio per questo preferiscono i dolci più semplici e meno rischiosi. Questo era un trionfo di sapori, sentire balsamicità in un dolce del genere non è certo sensazione frequente, chapeau!

Salt Bae

L’altro dolce, infine, si chiama “Salt Bae”, una sfera croccante di tiramisù con cuore liquido al caffè, crumble di cacao e cristalli di sale. E qui la citazione rivisitata del suggerimento di Humphrey Bogart a Woody Allen mentre tenta di conquistare Diane Keaton in “Provaci ancora, Sam” è d’obbligo: “in vita mia di tiramisù ne ho visti e mangiati tanti, ma questo è qualcosa di realmente diverso!”.

InvecchiatIGP: Domaine Matassa – Vin de France blanc "Cuvée Marguerite" 2016


C'è un piccolo villaggio nei Pirenei Orientali, Calce, che sembra dimenticato da Dio ma non dai vignaioli. Lì, nel cuore del Roussillon più ruvido e autentico, nel 2002 è arrivato Tom Lubbe, neozelandese con radici sudafricane e un passato nelle cantine naturali più illuminate d’Europa, primo fra tutti il Domaine Gauby. Domaine Matassa nasce così: da un’idea quasi punk di vino, ma profondamente legata alla terra. Lubbe inizia recuperando vecchie vigne a piede franco, spesso abbandonate, piantate a Carignan, Grenache e a vitigni bianchi misconosciuti come il Macabeu e il Muscat d’Alexandrie. 


Il primo vino lo vinifica negli spazi del suocero, Gérard Gauby, poi mette su cantina propria e una squadra minuta ma decisa. I vigneti — sparsi su suoli di scisti, marne, argille — si trovano tra i 150 e i 600 metri di altitudine. Le viti sono vecchie, coltivate ad alberello, senza irrigazione, e allevate secondo principi biodinamici, ma senza fanatismi da manuale: si usano sovesci, si lavora con i cicli lunari, si lascia fare alla natura. In cantina, la filosofia è chiara: nessun intervento superfluo. Le fermentazioni sono spontanee, niente lieviti selezionati, niente chiarifiche o filtrazioni. E lo zolfo? Solo se strettamente necessario, e comunque in dosi omeopatiche. Il vino nasce così, vivo, elettrico, un po’ anarchico ma mai fuori controllo. Tom odia l’alcol alto e la pesantezza: vendemmia presto, ricerca acidità, e produce rossi di 11 gradi che sembrano bianchi per quanto sono tesi, salini, succosi. Le sue etichette — Coume de l’Olla, Olla Rouge, Marguerite, Brutal — sono diventate oggetto di culto, piccoli manifesti liquidi di un approccio libero ma profondamente territoriale, sinonimo di artigianalità vera ma senza sovrastrutture.


La Cuvée Marguerite 2016, oggetto del mio InvecchiatIGP, rubrica che da anni racconta grandi vini del mondo con qualche anno sulle spalle, è una bottiglia che ho acquistato on line nel pieno del periodo Covid e che, quasi per caso, è rimasta a riposare in cantina per almeno quattro anni. Così, complice il caldo e il desiderio di bere una Francia diversa, ho deciso di stappare questo bianco dorato proveniente dal Roussillon, frutto di vecchie vigne di Muscat d’Alexandrie, Macabeu e Muscat à Petits Grains coltivate su terreni di ardesia, che nel tempo ha dimostrato quanto un vino naturale possa sorprendere per complessità, freschezza ed energia nonostante la sua apparente fragilità.

Tom Lubbe

Versando la Cuvée Marguerite nel bicchiere mi accorgo subito che ho davanti un vino vivo, dalla veste leggermente velata e dorata, che al naso regala sentori floreali intensi, frutta tropicale, scorza d’agrumi, spezie fini e note erbacee balsamiche. In bocca sorprende per la leggerezza alcolica — attorno agli 11 gradi — e per la spinta minerale che accompagna un sorso fresco, sapido, nervoso, quasi salmastro, che si apre e si allunga con il tempo nel calice. 


Il 2016, a quasi dieci anni dalla vendemmia, dimostra quanto un vino naturale, se ben fatto, possa reggere e anzi migliorare nel tempo, mantenendo intatta la sua energia. Una bottiglia che racconta non solo un terroir ma una precisa idea di vino, quella di Tom Lubbe, un visionario con le mani sporche di terra, il naso nel bicchiere e lo sguardo pianto tra le sue vigne ventose.

Tenute Nicosia – Carricante Brut Metodo Classico “Sosta Tre Santi” 2022


Molti produttori etnei cercano da tempo una via spumantistica, consapevoli che clima fresco e suoli vulcanici possano offrire condizioni ideali per basi spumante di qualità. 


Un esempio è il Sosta Tre Santi, Carricante in purezza (24 mesi sui lieviti) che dona vivacità e sostanza ad un sorso di grande sapidità.

La Calabria del vino tra ondate di entusiasmo e interrogativi sul futuro


La Calabria del vino vive un momento mai visto prima. Eventi, prime pagine, masterclass e massima copertura social : i riflettori sono puntati su una regione che per decenni è rimasta ai margini del panorama enoico nazionale, relegata a fornitrice silenziosa di uve o a etichette senza volto. Oggi invece tutto è cambiato: sui banchi d’assaggio sfilano Gaglioppo, Magliocco, Greco bianco e Mantonico, interpretati con freschezza e identità da una nuova generazione di vignaioli che unisce visione e radici. 

Foto: Avvenire di Calabria

La Calabria si racconta attraverso i suoi vini e finalmente lo fa con voce propria, moderna, consapevole, in linea con i codici del vino contemporaneo. Due eventi recenti rappresentano in modo emblematico questo fermento: il Calabria Merano Wine Festival, che ha portato nella regione il format e la firma di una delle istituzioni più prestigiose del settore, e Vinitaly and the City – Sibari, versione itinerante della fiera veronese che ha scelto il cuore dell’antica Magna Grecia per un’inedita tappa all’insegna di cultura, gusto e territorio. 


Ma la vera novità è che questo rinnovato entusiasmo si traduce anche in premi e riconoscimenti che mai, prima d’ora, erano arrivati. Per la prima volta un vino calabrese ha ottenuto la Gran Medaglia d’Oro al Concours Mondial de Bruxelles, uno dei concorsi più autorevoli a livello internazionale. E il Calabria IGP Gaglioppo Rosato 2024 della cantina A’ Vita ha conquistato il primo posto nella guida “100 Best Italian Rosé 2025”, la selezione gratuita ideata da Luciano Pignataro e curata da Antonella Amodio, Chiara Giorleo, Adele Granieri e Raffaele Mosca, che ogni anno individua le cento etichette rosate italiane più rappresentative. 


Riconoscimenti come questi, un tempo impensabili per una regione considerata periferica, testimoniano che i vini calabresi non solo si stanno facendo notare, ma stanno finalmente entrando nei radar del mercato e della critica internazionale.  Eppure, tra i brindisi e gli applausi, tra una storia su Instagram e l’ennesima dichiarazione di rinascita, una domanda resta sospesa: cosa accadrà quando le luci si spegneranno? Perché se è vero che oggi tutti vogliono parlare della Calabria del vino, domani – quando probabilmente l’attenzione si sposterà altrove – servirà capire chi resterà davvero. Le piccole aziende, che costituiscono l’ossatura vera di questo rinascimento, hanno le spalle larghe abbastanza per affrontare il dopo? Le infrastrutture, le reti distributive, il turismo, la formazione, la logistica: esiste un sistema in grado di reggere quando finirà l’euforia? E soprattutto, queste aziende saranno in grado di sopravvivere se le promesse di una certa politica – oggi presente e sorridente tra i calici – non verranno mantenute? Il rischio che il contraccolpo sia pesante è concreto, specie per chi ha investito tutto confidando in un futuro diverso. 


Una “nouvelle vague” non si misura con il numero di post né con la presenza agli eventi, ma con la capacità di costruire futuro. E chi oggi racconta la Calabria del vino, chi la celebra, chi la promuove, dovrebbe anche avere l’onestà di farsi qualche domanda in più. Perché volere bene a questa regione – davvero – significa anche chiedersi cosa resterà quando i taccuini, le fotocamere e i microfoni migreranno verso altri lidi, e la moda inevitabilmente passerà. Il resto sono luci. Belle, ma destinate a spegnersi. A meno che qualcuno non impari a camminare anche al buio.