Pepe Nero: la ristorazione d’autore di Salvo Cravero sul lago di Bolsena


di Roberto Giuliani

Il mondo della ristorazione italiana è estremamente vario, esistono migliaia di locali “rassicuranti”, che fanno una cucina classica, più o meno territoriale, senza particolare fantasia ma solidamente ancorata al concetto di piatti saporiti e abbondanti, perfetti per le tante persone che a tavola vogliono riempirsi lo stomaco senza cercare particolari emozioni, sensibili più alla sopravvivenza (fame) che alla cultura. Piatti che spesso si ripetono come un capo d’abbigliamento, soprattutto nelle piccole località dove trovi lo stesso tiramisù, le stesse pappardelle al ragù di cinghiale, lo stesso abbacchio alla scottadito, qualcuno più buono qualcuno meno. È il regno di Trip Advisor, dove tutti giudicano liberamente a prescindere dalle loro capacità di lettura di ciò che si trovano nel piatto, spesso creando seri problemi a ristoratori che hanno avuto la sola sfortuna di trovarsi loro malgrado inseriti in questo circo mediatico senza regole. Ovviamente non è tutto così, ma provate a cercare i ristoranti segnalati in una zona specifica e troverete che i “migliori” sono spesso i più dozzinali, quelli dove vedi foto pietose di piatti che a casa faresti cento volte meglio, o forse non faresti affatto, mentre quelli che ci hanno messo anni di studi ed esperienze per fare una cucina di qualità dove la materia prima è lavorata in modo ottimale, si trovano valutati molto più in basso, con la critica di piatti incomprensibili, scarsi e prezzi troppo alti. Ma la ristorazione di qualità grazie a Dio c’è, la possiamo trovare sia in una trattoria di uno dei tanti borghi del nostro amato Paese, sia in locali più raffinati, magari stellati o in odore di stella.
Nel centro Italia, ad esempio, ci sono locali dove il godimento non è solo di pancia ma coinvolge tutti i sensi, come alla Trattoria del Cimino a Caprarola (VT), Da Gregorio a Morrano Nuovo (TR) o da Essenza Trattoria Moderna a Monterotondo (RM), da Antico Mulino a San Felice Circeo (LT), esempi in cui si va ben oltre i soliti piatti, si punta alla qualità delle materie prime, a una cucina radicata nel territorio ma non succube di tradizioni intoccabili, dove la creatività è legata a ricerca e studio, niente improvvisazione ma accostamenti meditati, che toccano corde ben più profonde e impongono una maggiore attenzione ad ogni assaggio.


Giorni fa, approfittando di una gita sul Lago di Bolsena, sono stato da Pepe Nero a Capodimonte, il ristorante di Salvo Cravero, a mio avviso un punto di riferimento nel territorio della Tuscia viterbese, che guarda caso su Trip Advisor è uno di quelli totalmente sottovalutati, e come mi aspettavo è stata una bellissima esperienza. Salvo, molisano classe 1977, ha oltre trent’anni di carriera come chef, ha studiato presso l’Ipsar Alberghiero di Termoli, ha fatto le sue prime esperienze come aiuto cuoco in vari locali e poi nel 1998 si è trasferito a Viterbo iniziando a lavorare presso il Grand Hotel Salus.

Salvo Cravero

Come spesso accade, l’incontro con la donna della sua vita, Sara, è determinante nel dare una svolta al suo percorso di chef. Fa esperienze allo stellato Sans Souci e a L’Antico Bottaro a Roma, partecipa a numerosi corsi di approfondimento, entra nella mitica associazione Euro Toques fondata da Gualtiero Marchesi, dove il contatto con chef internazionali gli ha permesso di ampliare le sue conoscenze e, finalmente, con Sara apre il suo primo ristorante a Vetralla (VT), L’Etoile, che lo porta a importanti successi nelle guide di settore e a una sempre maggiore notorietà televisiva. Nel 2018, insieme a Joe Bastianich, cura i menu per la prima classe “Magnifica” dell’Alitalia (sigh!) e poi per l’ITA Airways. Ma le sue esperienze abbracciano vari ambiti, come quella con la famiglia Masciarelli al Castello di Semivicoli, dove cucinava pensando ai migliori abbinamenti possibili con i loro vini.


Da alcuni anni Salvo Cravero insegna, ha nel cuore l’esigenza di trasmettere tutta la sua conoscenza alle giovani promesse della cucina italiana, lo ha fatto da Boscolo Etoile Academy e Coquis dei fratelli Troiani e collaborando tutt’ora con la Gambero Rosso Academy, dove contribuisce nel formare nuovi talenti. Inoltre conduce corsi di caseificazione, da grande appassionato di formaggi, tanto da avere una piccola produzione con al centro il caprino a latte crudo, frutto di una collaborazione con un amico allevatore. Infine, perché la cucina è un campo vastissimo, complesso e articolato, dal 2020 ha dato vita ai “Corsi arte bianca”, su pizza, pane e lievitati, rivolti a professionisti e appassionati.


La cucina odierna di Salvo Cravero, a mio avviso, mette al centro le materie prime, selezionate ove possibile sul territorio locale, con un equilibrio ottimale negli accostamenti e nella presentazione, inutile realizzare impalcature che rendono quasi impossibile l’utilizzo delle posate, pena un crollo rovinoso, tradizione e modernità con gusto, in ogni portata. I sapori sono veri, diretti, mai prepotenti ma capaci di indurre tra profumi e sapori un senso di completezza, freschezza e profondità. Il menu prevede due percorsi di degustazione: “Radici e alchimie” (4 portate a 65 euro o 6 portate a 80 euro) e “Il viaggio del gusto” (4 portate a scelta ad eccezione del “Nudo e crudo”, a 65 euro); alla carta c’è un’offerta ponderata, direi perfetta, non troppe portate ma neanche poche, infatti abbiamo 5 possibili antipasti, 5 primi, 4 secondi, 3 contorni e 5 dessert (compreso un piatto di formaggi caprino, vaccino e pecorino). Essendo in due abbiamo potuto ordinare cose diverse, ma prima abbiamo apprezzato il pane fatto con lievito naturale e grani selezionati, abbinato ad un ottimo olio EVO da monocultivar caninese. La qualità del pane era evidente: cottura perfetta, croccante fuori, mollica tenera, giusta umidità e sapore fine e persistente, nessun segno di acidità (il lievito madre tende a produrla naturalmente per la presenza di batteri lattici e lieviti).

Astice e l'Orto

Tra gli antipasti abbiamo scelto “L’Astice e l’orto”, ovvero una diversa interpretazione dell’astice alla catalana, con astice al vapore, cipolla rossa in osmosi, olive taggiasche, verdure di stagione, erbe, pomodorini e maionese allo zenzero: un piatto freschissimo, estivo, dai mille profumi dove l’astice esprimeva una carne tenera e saporita.

Mare & Fumo

Il secondo antipasto era “Mare & fumo”: cappesante provenienti da Hokkaidō, molto diverse per consistenza e sapore, affumicate con legni aromatici, guarnite con spuma di peperoni rossi alla brace, olio al basilico e popcorn di maiale, piatto che mi ha colpito per eleganza degli accostamenti e una tenerezza e ricchezza di sapore della cappasanta davvero emozionante.

Marina Evoluta

Come primi abbiamo scelto la “Marinara evoluta”, ovvero cavatelli con sugo di cozze alla marinara, albumi e semola, dressing di prezzemolo e polvere di limone nero (black lime), un piatto che ho apprezzato molto per consistenza, Salvo Cravero ha voluto esaltare l’importanza della masticazione come mezzo per far fondere i sapori in progressione, rivelandosi ad ogni morso, obiettivo perfettamente riuscito.

Assoluto di Gambero ventiventicinque

L’altro primo era “Assoluto di gambero ventiventicinque”, spaghettone artigianale, estratto di gambero rosso, battuto di gambero rosso, foglie di maggiorana fresche, e olio al peperoncino habanero; un piatto il cui “sugo” non era ottenuto da pomodoro ma dalla lavorazione stessa del gambero. Spaghettone cotto alla perfezione, al dente ma non quasi crudo come a volte capita in certi ristoranti stellati, la leggera piccantezza dell’olio esaltava il sapore del gambero, notevole l’equilibrio dei sapori.
Come spesso accade, se partiamo dall’antipasto spesso dobbiamo scegliere o il primo o il secondo per ragioni di “capienza”, ma questa volta almeno un secondo lo abbiamo preso, ovvero la “Frittura d’autore” perché invece dai soliti calamari e gamberi, era composta di calamaretti spillo, lattarini, gamberi rosa, aromatizzati con paprika dolce, cipollotto, basilico, pepe rosa e lime. Ne è valsa la pena, frittura asciutta, gustosa, per nulla pesante, che abbiamo accompagnato con un’ottima “Giardiniera fatta in casa con verdure di stagione”.


Ad accompagnare quest’ottimo pranzo sulla riva del lago, un classico di Franz Haas, il Petit Manseng, classe 2023, un vino che ha saputo adattarsi perfettamente alle diverse portate, dal profumi intenso di frutta esotica, agrumi, erbe aromatiche e riverberi minerali. A proposito, la carta dei vini è ampia e comprende anche interessanti etichette internazionali.

Terra di Tuscia

Infine i due dessert: “Terra di Tuscia”, composta da streusel di nocciole (burro, farina, zucchero, nocciole, infornate e poi sbriciolate), ganache montata alla nocciola, olio EVO e miele, nocciola pralinata, terriccio di cacao, polvere di funghi, erbe spontanee, corteccia di nocciola, fiore di finocchio, mentuccia e spugna di finocchio. Una dimostrazione di quanto la pasticceria possa essere complessa e variegata, e proprio per questo nota dolente in molti ristoranti, che proprio per questo preferiscono i dolci più semplici e meno rischiosi. Questo era un trionfo di sapori, sentire balsamicità in un dolce del genere non è certo sensazione frequente, chapeau!

Salt Bae

L’altro dolce, infine, si chiama “Salt Bae”, una sfera croccante di tiramisù con cuore liquido al caffè, crumble di cacao e cristalli di sale. E qui la citazione rivisitata del suggerimento di Humphrey Bogart a Woody Allen mentre tenta di conquistare Diane Keaton in “Provaci ancora, Sam” è d’obbligo: “in vita mia di tiramisù ne ho visti e mangiati tanti, ma questo è qualcosa di realmente diverso!”.

InvecchiatIGP: Domaine Matassa – Vin de France blanc "Cuvée Marguerite" 2016


C'è un piccolo villaggio nei Pirenei Orientali, Calce, che sembra dimenticato da Dio ma non dai vignaioli. Lì, nel cuore del Roussillon più ruvido e autentico, nel 2002 è arrivato Tom Lubbe, neozelandese con radici sudafricane e un passato nelle cantine naturali più illuminate d’Europa, primo fra tutti il Domaine Gauby. Domaine Matassa nasce così: da un’idea quasi punk di vino, ma profondamente legata alla terra. Lubbe inizia recuperando vecchie vigne a piede franco, spesso abbandonate, piantate a Carignan, Grenache e a vitigni bianchi misconosciuti come il Macabeu e il Muscat d’Alexandrie. 


Il primo vino lo vinifica negli spazi del suocero, Gérard Gauby, poi mette su cantina propria e una squadra minuta ma decisa. I vigneti — sparsi su suoli di scisti, marne, argille — si trovano tra i 150 e i 600 metri di altitudine. Le viti sono vecchie, coltivate ad alberello, senza irrigazione, e allevate secondo principi biodinamici, ma senza fanatismi da manuale: si usano sovesci, si lavora con i cicli lunari, si lascia fare alla natura. In cantina, la filosofia è chiara: nessun intervento superfluo. Le fermentazioni sono spontanee, niente lieviti selezionati, niente chiarifiche o filtrazioni. E lo zolfo? Solo se strettamente necessario, e comunque in dosi omeopatiche. Il vino nasce così, vivo, elettrico, un po’ anarchico ma mai fuori controllo. Tom odia l’alcol alto e la pesantezza: vendemmia presto, ricerca acidità, e produce rossi di 11 gradi che sembrano bianchi per quanto sono tesi, salini, succosi. Le sue etichette — Coume de l’Olla, Olla Rouge, Marguerite, Brutal — sono diventate oggetto di culto, piccoli manifesti liquidi di un approccio libero ma profondamente territoriale, sinonimo di artigianalità vera ma senza sovrastrutture.


La Cuvée Marguerite 2016, oggetto del mio InvecchiatIGP, rubrica che da anni racconta grandi vini del mondo con qualche anno sulle spalle, è una bottiglia che ho acquistato on line nel pieno del periodo Covid e che, quasi per caso, è rimasta a riposare in cantina per almeno quattro anni. Così, complice il caldo e il desiderio di bere una Francia diversa, ho deciso di stappare questo bianco dorato proveniente dal Roussillon, frutto di vecchie vigne di Muscat d’Alexandrie, Macabeu e Muscat à Petits Grains coltivate su terreni di ardesia, che nel tempo ha dimostrato quanto un vino naturale possa sorprendere per complessità, freschezza ed energia nonostante la sua apparente fragilità.

Tom Lubbe

Versando la Cuvée Marguerite nel bicchiere mi accorgo subito che ho davanti un vino vivo, dalla veste leggermente velata e dorata, che al naso regala sentori floreali intensi, frutta tropicale, scorza d’agrumi, spezie fini e note erbacee balsamiche. In bocca sorprende per la leggerezza alcolica — attorno agli 11 gradi — e per la spinta minerale che accompagna un sorso fresco, sapido, nervoso, quasi salmastro, che si apre e si allunga con il tempo nel calice. 


Il 2016, a quasi dieci anni dalla vendemmia, dimostra quanto un vino naturale, se ben fatto, possa reggere e anzi migliorare nel tempo, mantenendo intatta la sua energia. Una bottiglia che racconta non solo un terroir ma una precisa idea di vino, quella di Tom Lubbe, un visionario con le mani sporche di terra, il naso nel bicchiere e lo sguardo pianto tra le sue vigne ventose.

Tenute Nicosia – Carricante Brut Metodo Classico “Sosta Tre Santi” 2022


Molti produttori etnei cercano da tempo una via spumantistica, consapevoli che clima fresco e suoli vulcanici possano offrire condizioni ideali per basi spumante di qualità. 


Un esempio è il Sosta Tre Santi, Carricante in purezza (24 mesi sui lieviti) che dona vivacità e sostanza ad un sorso di grande sapidità.

La Calabria del vino tra ondate di entusiasmo e interrogativi sul futuro


La Calabria del vino vive un momento mai visto prima. Eventi, prime pagine, masterclass e massima copertura social : i riflettori sono puntati su una regione che per decenni è rimasta ai margini del panorama enoico nazionale, relegata a fornitrice silenziosa di uve o a etichette senza volto. Oggi invece tutto è cambiato: sui banchi d’assaggio sfilano Gaglioppo, Magliocco, Greco bianco e Mantonico, interpretati con freschezza e identità da una nuova generazione di vignaioli che unisce visione e radici. 

Foto: Avvenire di Calabria

La Calabria si racconta attraverso i suoi vini e finalmente lo fa con voce propria, moderna, consapevole, in linea con i codici del vino contemporaneo. Due eventi recenti rappresentano in modo emblematico questo fermento: il Calabria Merano Wine Festival, che ha portato nella regione il format e la firma di una delle istituzioni più prestigiose del settore, e Vinitaly and the City – Sibari, versione itinerante della fiera veronese che ha scelto il cuore dell’antica Magna Grecia per un’inedita tappa all’insegna di cultura, gusto e territorio. 


Ma la vera novità è che questo rinnovato entusiasmo si traduce anche in premi e riconoscimenti che mai, prima d’ora, erano arrivati. Per la prima volta un vino calabrese ha ottenuto la Gran Medaglia d’Oro al Concours Mondial de Bruxelles, uno dei concorsi più autorevoli a livello internazionale. E il Calabria IGP Gaglioppo Rosato 2024 della cantina A’ Vita ha conquistato il primo posto nella guida “100 Best Italian Rosé 2025”, la selezione gratuita ideata da Luciano Pignataro e curata da Antonella Amodio, Chiara Giorleo, Adele Granieri e Raffaele Mosca, che ogni anno individua le cento etichette rosate italiane più rappresentative. 


Riconoscimenti come questi, un tempo impensabili per una regione considerata periferica, testimoniano che i vini calabresi non solo si stanno facendo notare, ma stanno finalmente entrando nei radar del mercato e della critica internazionale.  Eppure, tra i brindisi e gli applausi, tra una storia su Instagram e l’ennesima dichiarazione di rinascita, una domanda resta sospesa: cosa accadrà quando le luci si spegneranno? Perché se è vero che oggi tutti vogliono parlare della Calabria del vino, domani – quando probabilmente l’attenzione si sposterà altrove – servirà capire chi resterà davvero. Le piccole aziende, che costituiscono l’ossatura vera di questo rinascimento, hanno le spalle larghe abbastanza per affrontare il dopo? Le infrastrutture, le reti distributive, il turismo, la formazione, la logistica: esiste un sistema in grado di reggere quando finirà l’euforia? E soprattutto, queste aziende saranno in grado di sopravvivere se le promesse di una certa politica – oggi presente e sorridente tra i calici – non verranno mantenute? Il rischio che il contraccolpo sia pesante è concreto, specie per chi ha investito tutto confidando in un futuro diverso. 


Una “nouvelle vague” non si misura con il numero di post né con la presenza agli eventi, ma con la capacità di costruire futuro. E chi oggi racconta la Calabria del vino, chi la celebra, chi la promuove, dovrebbe anche avere l’onestà di farsi qualche domanda in più. Perché volere bene a questa regione – davvero – significa anche chiedersi cosa resterà quando i taccuini, le fotocamere e i microfoni migreranno verso altri lidi, e la moda inevitabilmente passerà. Il resto sono luci. Belle, ma destinate a spegnersi. A meno che qualcuno non impari a camminare anche al buio.

InvecchiatIGP: Balgera - Valtellina Sforzato DOC1999


di Lorenzo Colombo

Nel mese d’aprile, dopo una visita in azienda, avevamo scritto in merito alla degustazione di un buon numero di vini dell’azienda Balgera ed avevamo introdotto l’articolo in questo modo: “Quella di Paolo Balgera è un’azienda storica, fondata nel 1885 da Pietro Balgera e giunta, con Luca e Matteo, figli di Paolo, alla quinta generazione. Situata a Chiuro l’azienda possiede sei ettari di vigneti in proprietà nel territorio di tre sottozone, Valgella, Sassella e Grumello e s’avvale inoltre delle uve di alcuni conferitori storici. I vini prodotti da Paolo, che ora ha passato la mano al figlio Luca, sono caratterizzati da un lungo affinamento prima della loro messa in commercio. Sono 50 mila le bottiglie prodotte annualmente, suddivise su una ventina d’etichette.”


Ora per la rubrica del sabato “InvecchiatIGP” andiamo ad assaggiare un vino di 26 anni d’età, uno Sforzato del 1999 quando era ancora un vino a DOC (la DOCG per lo Sforzato arriva nel 2003). Paolo Balgera ha sempre utilizzato per l’affinamento dei suoi vini botti di grandi dimensioni e questo vino ha certamente trascorso numerosi anni in questi contenitori prima d’essere imbottigliato. All’apertura della bottiglia il tappo è fuoriuscito senza sforzo alcuno e si presentava ancora intatto, buon segno. Nel bicchiere abbiamo trovato un vino dal color granato luminoso e limpido, di discreta intensità e con unghia tendente all’aranciato, altro buon inizio.


Ma è al naso che questo vino ha mostrato tutta la sua qualità, intenso ed elegante, con note fruttate ancora in evidenza che virano verso sentori di confettura di prugne, balsamico, ampio e ancora fresco, con note mentolate e accenni di liquirizia dolce e radici, spezie dolci, vaniglia e cannella e fiori appassiti, violetta e petali di rosa completano il quadro olfattivo.


Alla bocca l’abbiamo trovato strutturato ma non massiccio, con trama tannica in perfetto equilibrio e con vena acida ancora vibrante, anche la nota alcolica appare bene integrata (d’altra parte il suo tenore alcolico non è elevatissimo per la tipologia di vino, 14,5% Vol.), i sentori spaziano dal tamarindo al cioccolato alla menta e alla vaniglia, con note fruttate ancora ben presenti, la sua persistenza è decisamente lunghissima.


Si tratta si uno stile di Sforzato che ci piace molto, che non vira verso morbidezze (o dolcezze) eccessiva e stancanti, con una struttura ed un grado alcolico che ne facilitano la beva. Così averne di vini simili con un quarto di secolo sulle spalle.

Citari - Lugana Doc “Torre” 2022


di Lorenzo Colombo

Dei quattro Lugana prodotti dall’azienda Citari questo è quello che viene realizzato con le uve più mature, raccolte a fine ottobre.


Prende il nome dalla Torre di San Marino, situata nelle vicinanze del vigneto ed è caratterizzato da una notevole freschezza e verticalità e da netti sentori agrumati.

Dal dimenticatoio al calice: il ritorno della Turchetta rodigina


di Lorenzo Colombo

Il Veneto è la regione che vanta la più ampia superficie vitata d’Italia, i dati ISTAT relativi al 2024 parlano di 94.600 ettari di vigneto per una produzione di 10.687.000 ettolitri di vino, ovvero oltre il 14% della superficie vitata nazionale ed oltre il 22% della produzione di vino italiano. La provincia che vanta la più ampia superficie vitata è quella di Treviso con il 44% del vigneto Veneto e quasi la metà di tutto il vino regionale. All’opposto troviamo la provincia di Rovigo che con i suoi 190 ettari di vigneto e 21.000 ettolitri di vino prodotti è il fanalino di coda della regione, dietro persino alla provincia di Belluno. Dati forniti da Confagricoltura Rovigo durante un convegno ad inizio gennaio 2024, presso Corte Carezzabella, parlano invece di circa 300 ettari di vigneti situati nel Polesine, prevalentemente nei comuni di Adria, Ariano Polesine, Porto Viro e San Martino di Venezze. In effetti la provincia di Rovigo difficilmente viene annoverata tra quelle viticole ed il Polesine è certamente più conosciuto per la produzione di frutta e cereali. Negli ultimi anni però alcune aziende stanno riscoprendo alcuni vitigni un tempo coltivati il più famoso - si fa per dire - è la Turchetta ma ci sono anche la Mattarella e la Benedina, inserite -le ultime due- nel Registro Nazionale nel luglio 2021.

Il vitigno Turchetta

La Turchetta è un vitigno storico del Veneto, presente in passato nelle province di Padova e Rovigo ma andato via via scomparendo nel corso degli anni, citato dal Marzotto nel 1925 e poi descritto da Cosmo nel 1949 quando rappresentava il 5% delle uve coltivate in provincia di Rovigo. Vitigno che “merita d’essere diffuso” -così scriveva il Cosma- trattandosi di un’uva rustica poco sensibile alla peronospera e ad altre malattie crittogamiche, molto adatta ai terreni di pianura purché ben drenanti. 


La Turchetta è stato iscritta nel Catalogo Nazionale delle Varietà di Vite nell’ottobre 2017 e può essere utilizzata per la produzione del vino a Doc Bagnoli e di nove vini ad Igt del Veneto. Sempre dal Catalogo Nazionale apprendiamo che nel 2010 gli ettari vitati con questo vitigno erano unicamente tre, peccato che nel sito non siano ancora stati inseriti i dati dell’ultimo censimento agricolo, avvenuto nel 2021.


Abbiamo avuto l’opportunità di incontrare questo vitigno e di assaggiarne il vino prodotto a fine luglio quando siamo stati in visita all’azienda Corte Carezzabella, situata a San Martino di Venezze, nel medio Polesine, a poche centinaia di metri dalla riva destra dell’Adige, in provincia di Rovigo. Corte Carezzabella è un’azienda agrituristica situata in un’antica corte risalente ad inizio Novecento che dispone di 16 tra camere ed appartamenti e di un ristorante interno, è inoltre un’azienda biologica con coltivazione di frutta e ortaggi che vengono poi trasformati in succhi di frutta, confetture, passato e polpa di pomodoro, aceto di mele, farina, dalla quale si ricavano poi prodotti da forno.


L’azienda dispone inoltre di 22 ettari di vigneti, 18 dei quali coltivati a Pinot grigio, gli altri vitigni sono Manzoni Bianco, Merlot, Carmenere, Trebbiano e Turchetta, di quest’ultimo vitigno l’azienda Carezzabella dispone di un ettaro. Il Pinot grigio viene nella quasi totalità conferito alla Cantina di Cona, un Cantina Sociale costituitasi nel 1957 che può contare su 150 ettari di vigneti gestiti dai soci conferitori. Sono una piccola parte di questo vitigno viene vinificato in proprio per ricavarne circa 3.300 bottiglie. I suoli aziendali sono prevalentemente sabbiosi con una piccola percentuale di limo ed una ancora più modesta d’argilla.


I vini prodotti erano per lo più destinati al consumo dell’agriturismo sino a che nel 2014 è nato il progetto enologico ed è stata costituita la Carezzabella Winery la cui parte enologica è stata affidata nel 2020 a Francesco Mazzetto. Durante la nostra (breve) visita abbiamo potuto assaggiare buona parte dei vini prodotti, ovvero il Bianco Veneto Igt “Brillo” un vino frizzante rifermentato in bottiglia e prodotto con uve Trebbiano e Pinot grigio, il Bianco Igt Tre Venezie Manzoni bianco, degustato in tre diverse annate, 2023, 2022 e 2021 e due vini prodotti con uva Turchetta sui quali ci vogliamo soffermare.

I vini da Turchetta

La Turchetta è stata messa a dimora nel 2018, sono due i vini prodotti con questo vitigno che abbiamo assaggiato, uno dei quali in due diverse annate.


2021 – Il colore è rubino di media intensità con leggeri accenni che tendono al granato. Media anche la sua intensità olfattiva, vi ritroviamo sentori di frutta rossa selvatica, frutti di bosco, fragole e lamponi e ricordi di sciroppo d’amarena. Fresco e fruttato al palato, mediamente strutturato, asciutto con ciliegia leggermente acerba in evidenza ed accenni vegetali, buona la sua persistenza.

2020 – Si presenta con un color rubino leggermente più intenso del precedente. Al naso la frutta rossa appare più matura, mentre al palato troviamo un vino sempre di media struttura ma con una trama tannica leggermente più asciutta. Si tratta di un vino decisamente curioso che abbiamo maggiormente apprezzato nell’annata più recente. 


La Turchetta entra anche nella composizione dell’IGT Rosso Veneto Temetum, unitamente ad un 10% di Merlot, in questo caso la vendemmia viene ritardata sin quasi alla fine d’ottobre e la resa media s’attesta sui 90 q.li/ettaro. La fermentazione si svolge sempre in acciaio con un minor tempo di macerazione, limitato a due settimane, l’affinamento del vino anche in questo caso s’effettua in vasche di cemento.  Ovviamente si tratta di un vino completamente diverso dal precedente, l’annata che abbiamo degustato è la 2022, caratterizzata da un colore rubino luminoso di buona intensità. Discretamente intenso al naso che s’esprime su sentori di frutta rossa matura. Discreta anche la sua struttura, il vino è asciutto e presenta sentori di frutta a bacca scura, buona la sua persistenza.

InvecchiatIGP: Monte del Frà - Custoza Superiore DOC "Cà del Magro" 2007


di Luciano Pignataro

Sulla cassetta di legno si era formata addirittura un po’ di muffa. Così, avendo in programma una cena di pesce ad Acciaroli, alla Tartana, ho pensato di prenderla: una magnum del 2007 di Ca’ del Magro che stava riposando da tempo immemore, dimenticata.
Parliamo di un Custoza Superiore: siamo appena a sud del Lago di Garda, in provincia di Verona. L’azienda Monte del Frà è di proprietà della famiglia Bonomi, insediata in questo territorio dalla fine degli anni ’50 e dedita all’imbottigliamento del vino dalla fine degli anni ’80. Oggi la proprietà conta circa 200 ettari vitati; la gamma dei vini è molto ampia, ma questo bianco — oggi lavorato in cemento da uve Garganega, Trebbiano Toscano, Cortese, Incrocio Manzoni — resta fra le proposte più importanti, a un prezzo decisamente favorevole per il consumatore: l’ultima magnum in commercio, per dire, non supera i 40 euro.


Quando si parla di bianchi invecchiati — la mia passione più profonda nel mondo del vino — penso di solito al Fiano di Avellino e al Verdicchio, oppure ai bianchi internazionali che, anche in alcune zone d’Italia, offrono spunti molto interessanti. Leggendo la presentazione aziendale, apprendo che questo vino viene indicato come adatto alla lunga conservazione.
La 2007, com’è noto, è stata una vendemmia perfetta per gli enologi: calda, ma ben equilibrata dalle piogge arrivate al momento giusto, con frutta sana e croccante praticamente da Nord a Sud. Insomma, le premesse per rischiare lo stappo in pubblico c’erano tutte. Del resto, ci attendeva una cucina di pesce classica del Tirreno: crudo di luvaro e di gamberi, ricciola al forno, polpi e frutti di mare presentati in modo semplice.


Il tappo ha sofferto un po’: longevità sicuramente, ma un bianco di quasi vent’anni è più che longevo. Alla fine ce l’hanno fatta ad aprirlo, io manco ci ho provato perché sono un disastro — e il vino lo abbiamo potuto provare. Il colore era un giallo paglierino carico, un segno inequivocabile dell’età. Ma quando si passa dalla vista al naso e al palato, possiamo parlare di un vino assolutamente straordinario. I profumi parlano di miele di acacia, pasticceria, piacevoli note mentolate e agrumate di cedro: un profilo olfattivo vivace, di carattere, assolutamente vivo ed energico. Nessun cenno ossidativo — che pure, quando è accennato, a me non dispiace. Il vino andava comunque aperto: lo si capisce dalla perfetta corrispondenza fra naso e palato. 


Al gusto, infatti, il sorso conferma le note descritte; il piacere è motivato da una freschezza marcata, che consente di affrontare anche un buon fritto di alici e totani non previsto. L’alcol, dichiarato a 13 gradi, non si avverte, ma contribuisce a un senso di benessere e di piacere intimo che solo i grandi vini riescono a darmi. Finale lungo, vivo, che lascia la bocca pulita e spinge a ripetere il sorso. Infatti, la magnum finisce subito, perché ha lo stesso effetto sia sugli appassionati sia su persone presenti non introdotte al linguaggio e ai misteri del mondo del vino.


Quando faccio questi incontri mi viene facile una riflessione: l’Italia, complessivamente parlando, tratta i vini bianchi alla stregua di chi usava il petrolio per accendere le candele. Il nostro patrimonio ampelografico ci regala un’infinità di sorprese — a tavola, per esempio, abbiamo parlato anche del Mantonico di Librandi, tanto per fare una citazione colta. Non solo vini da suoli vulcanici, dunque, ma anche queste colline moreniche possono regalare sensazioni uniche. Siamo stati bene, e questo alla fine è ciò che conta. E questo monumentale Custoza DOC Superiore, poco attenzionato dalla critica, conferma che bere il vino fra amici è uno dei piaceri più belli e intensi che la vita ci possa regalare.

Scarbolo - Friuli Grave DOC "Memari" 2022


di Luciano Pignataro

Questa è davvero una chicca inedita e devo citare colui a cui debbo questo assaggio: Federico Spagnolo sommelier del ristorante Ineo a Roma.


Chardonnay friulano da una piccola vigna fresco in Grave, di corpo, di notevole piacevolezza al naso e al palato in piena corrispondenza fra loro. Una vera chicca.

Il coraggio del tempo: la lezione del Fiano di Avellino "Alessandra" secondo Roberto Di Meo


di Luciano Pignataro

Se mai un giorno dovessi smettere di scrivere di vino, mi piacerebbe essere ricordato per l’unica vera battaglia culturale vinta, dopo almeno due decenni in cui abbiamo battuto e ribattuto sempre sullo stesso chiodo.
Quale? Quella sulle virtù del Fiano di Avellino nel lungo periodo, che lo mettono alla pari con qualsiasi altro vitigno a bacca bianca, in Italia e all’estero.
Ci sono voluti esattamente 17 anni per arrivare a inserire la dicitura “Riserva” nella Docg del 2003. Questo risultato, ottenuto nel 2020, è stato possibile grazie a decine di degustazioni, ma soprattutto grazie a quei produttori che ci hanno creduto. Produttori che hanno reso evidente, con i loro vini, l’incredibile forza evolutiva di questo vitigno, capace col tempo di passare da vino gastronomico e dissetante a emozione pura.


Tra questi c’è sicuramente Roberto Di Meo, con il quale – lo racconto spesso – facendo una degustazione a metà anni ’90, compresi le potenzialità dei bianchi irpini e campani. Il Fiano ha una differenza fondamentale rispetto a Greco, Falanghina e Coda di Volpe: non ha bisogno di essere pensato per vivere a lungo, supera i dieci, i venti anni con estrema naturalezza, anche se lavorato con semplicità. Il merito di Roberto Di Meo è quello di aver avviato un progetto coerente, che gli ha permesso di entrare in tutte le carte dei vini che contano. Il Greco “Vittorio”, il Fiano “Per Erminia”, il “Colle dei Cerri” sono bianchi davvero in grado di affrontare qualsiasi batteria.


Negli ultimi giorni mi è capitato di bere il Fiano di Avellino “Alessandra”, dedicato alla figlia, in due annate: 2012 e 2013. Tenete conto che ora è in commercio la 2015, perché questa etichetta esce solo dopo una decina d’anni di affinamento.
Tra le due annate, al di là delle differenze climatiche, c’è una linea di demarcazione per due motivi: con la più recente il “Fiano Alessandra” cambia etichetta e, al tempo stesso, assume la dicitura Riserva.


La vigna è a Salza Irpina, nei pressi dell’azienda, a circa 550 metri di altezza, con una resa di circa 50 quintali per ettaro – meno della metà di quanto previsto dal disciplinare. Per completare le informazioni: il suolo è argilloso-calcareo, la pressatura è soffice, seguono macerazione sulle bucce, fermentazione a temperatura controllata, sosta in acciaio per 8 anni e ulteriore affinamento in bottiglia per 12 mesi.


La 2012 è un po’ più ampia, di corpo; la 2013 è ancora freschissima, fine, elegante.
Abbiamo bevuto questi due bianchi nel modo migliore: a tavola, con amici, accompagnandoli a una buona cucina di mare, in due occasioni diverse ma ravvicinate. Non sono un teorico dell’acciaio a tutti i costi: anzi, penso che un buon legno dosato possa rendere invincibili i grandi vini. Ma il punto è che il binomio Fiano e botte va ancora studiato con attenzione: ci vorrà tempo per trovare la giusta quadra. Ecco perché vi diciamo che questo Fiano non sorprende gli appassionati, perché parla un linguaggio familiare e si affida unicamente alla qualità dell’uva.


Il risultato, in entrambi i casi, è un vino dai sentori di fumé, frutta ancora croccante con rimandi agrumati, note mentolate; al palato, nel 2013 domina la freschezza assoluta, mentre nel 2012 è più importante, vibrante, ma fa da spalla alle altre componenti, lasciando anche spazio al piacere avvolgente dell’alcol. Due grandi vini di un’etichetta posizionata verso l’alto – circa 65 euro in uscita – ma ancora al di sotto di tanti bianchi francesi che costano di più, molto di più, senza avere la stessa complessità. Con questa cuvée, Roberto alza ulteriormente l’asticella dei bianchi in Italia, accanto ai grandi della categoria. Ma – ed è una mia opinione personale – siamo solo all’inizio.

InvecchiatIGP: Gradis’ciutta - Collio DOC Chardonnay 2006


di Carlo Macchi

Non è la prima volta che Robert Princic, deus ex machina di Gradis’ciutta, tira fuori dalla cantina vecchie annate a raffica. Lo fece lo scorso anno con il Pinot Grigio e lo ha rifatto quest’anno con lo Chardonnay, arrivando fino al 1998 passando attraverso 2024, 2020, 2017, 2016, 2014, 2012, 2010, 2008 e 2006. Tra le annate che avevo davanti, ognuna con caratteristiche anche sorprendenti, dopo qualificazioni, semifinali e finale (con un cremoso e dinamico 2012), ho selezionato lo Chardonnay 2006.


Prima di parlare del vino due parole sull’azienda: Gradis’ciutta è a San Floriano del Collio e coltiva la classica e ampia gamma di uve che ogni friulano di collina non può non “mettere in campo”: quindi, Ribolla, Malvasia, Pinot Grigio, Sauvignon, Friulano, Chardonnay tra i bianchi, Cabernet Franc e Merlot tra i rossi, oltre ad una serie di uvaggi e di bollicine molto interessanti. La parte del leone la fanno i monovarietali bianchi, vini d’annata che però dimostrano di poter reggere nel tempo, e alla grande.

Robert Princic

Ne è prova provata questo Chardonnay 2006 “base”, quindi fatto per essere bevuto da giovanissimo. Vinificazione in acciaio e poi subito in bottiglia, senza la minima intenzione di arrivare fino ad oggi, quasi a 20 anni dalla “nascita.
La prima cosa che mi ha colpito e quasi sorpreso è stato il colore, un dorato brillante e vivo che poteva benissimo appartenere ad un vino di 15 anni più giovane. Il naso all’inizio ha un po’ stentato, ma poi si è sistemato su una maturità austera, che portava anche a note di burro e brioche, non nascondendo un accenno di frutto maturo. 


In bocca invece il registro cambiava e dalla maturità si tornava alla giovinezza, con sapidità e freschezza sorprendenti. Un corpo non certo importante ma equilibrato portava ad una insospettata persistenza.
Che dire, lo chardonnay non è mai stato il mio vitigno preferito ma questo 2006, per finezza e complessità degna di un vino di categoria e prezzo molto più elevato, mi ha veramente sorpreso.

Honey GourMet: la bollicina che nasce dal miele


di Carlo Macchi

Non di solo vino vive l’uomo e così eccovi un non vino. Tranquilli, non è dealcolato ma nasce dal miele.
 

La prima cosa che mi ha colpito non è tanto il fine profumo di miele ma la finezza della bollicina, la sua cremosità e persistenza, raggiunta dopo 30 mesi di affinamento in legno e in bottiglia.

I vini bianchi italiani, non solo del 2024, cosa ci stanno dicendo?


di Carlo Macchi

Anche lo scorso anno, in questo periodo, dedicammo un articolo ai bianchi italiani d’annata e non, basandoci sulle degustazioni che stavamo facendo per la guida vini di Winesurf. Quindi mi sembra giusto farlo anche quest’anno sia con l’obiettivo di presentare le caratteristiche dell’annata 2024 trovate nei calici di quasi 1000 bianchi d’annata, ma soprattutto per lanciare alcuni spunti sui bianchi italiani, giovani e non.


Per quanto riguarda l’annata 2024 la prima notizia, cosa che era chiara sin dallo scorso ottobre, è che non siamo di fronte ad una grande annata ma quasi sicuramente (non certo grande consolazione) superiore, in molte parti d’Italia, a quella relativa ai rossi. Se infatti i secondi sono stati spesso vendemmiati negli intervalli tra una serie di piogge i bianchi in generale hanno beneficiato del gran caldo dei mesi estivi pur beccandosi una serie di piogge a fine maturazione che in diversi casi hanno “diluito” la concentrazione ma apportando maggiore finezza ai profumi.


A proposito di profumi: mi spiace dirlo ma in molte parti d’Italia per i vini d’annata non aromatici ormai non si può più parlare di “riconoscibilità del vitigno” ma solo di riconoscibilità dei sistemi di vinificazione e affinamento, almeno per quanto riguarda i primi 8-10 mesi dalla vendemmia, periodo in cui vengono degustati da tutte le guide. Andando verso il secondo anno e oltre le cose cambieranno ma per quanto riguarda appunto tanti vini non aromatici o semiaromatici (e in parte anche per questi) prevale più la mano di cantina che l’uva che vi arriva. Questo, viste anche le annate che si stanno susseguendo non è necessariamente un male, ma in un momento in cui le parole come terroir, unicità, parcella, vanno per la maggiore è abbastanza strano constatare, in generale, l’esatto contrario. Di passaggio un’altra annotazione, oramai bere i bianchi italiani d’annata è un errore madornale, perché i miglioramenti tecnici in vigna e in cantina portano a vini che hanno bisogno di almeno 10-12 mesi per distendersi e assumere le giuste e apprezzabili caratteristiche.


Ma veniamo ai bianchi 2024 e proviamo a dare qualche consiglio, fermo restando che ancora i nostri assaggi non sono completi (mancano nomi importanti come Soave, Vermentino di varie zone, Gavi, Etna Bianco e altri) e che, per fortuna, da qualche anno degustiamo almeno il 40/50% di vini di annate precedenti, cosa che, visto quanto detto sopra, ci fa molto piacere. Una segnalazione particolare va fatta sicuramente per i Verdicchio dei Castelli di Jesi Superiore, vini che riescono nella titanica impresa di essere buoni sin da subito e dopo diversi anni. Forse non è l’annata migliore ma comunque abbiamo trovato buone strutture e aromi che quasi sempre riportano al vitigno. Visti anche i prezzi abbordabili è un consiglio che diamo senza se e senza ma. Di seguito ci piace segnalare anche, in ordine sparso, Arneis, Vernaccia di San Gimignano, Sauvignon altoatesini, Custoza, Greco di Tufo, Pinot Bianco del Trentino, Friulano sia del Collio che dei Colli Orientali. Naturalmente non facciamo nomi e cognomi, perché quelli potrete trovarli sulla nostra guida online ma crediamo che in questo ampio spettro troverete sicuramente buone cose da bere.


Torniamo un attimo ai bianchi italiani in generale per confermare quanto avevamo scritto lo scorso anno. Oramai la qualità media è salita moltissimo ma, anche andando in annate precedenti, mancano quelli che potremmo definire grandi bianchi. Questo è strano perché una bella fetta di bianchi italiani non solo, come detto, deve invecchiare almeno 1-2 anni per esprimersi bene ma può invecchiare almeno 5-8 anni migliorandosi anno dopo anno. Nonostante questo, mancano quelle punte che ti fanno sobbalzare e che 10-15 anni fa erano presenti come fari nella nebbia. Inoltre, il fatto che sempre più aziende propongono bianchi di 2-3-4 anni agli assaggi denota che la voglia per puntare al grande bianco c’è. Quindi è un bel dilemma e non si tratta di uso o non uso del legno ma forse di un cambiamento climatico che da una parte crea incertezze e problemi, e dall’altra innalza Ph, abbassa acidità e quindi crea situazioni diverse rispetto al passato. Però queste sono, come diceva la canzone, “solo parole” e aspettiamo con grande piacere contributi in tal senso. A proposito di legno e non legno: dopo anni di utilizzi inferiori e meglio mirati ci ha fatto pensare trovare molti bianchi altoatesini, in particolare Chardonnay e Pinot Bianco di annate precedenti al 2024, con dosi di legno indubbiamente eccessive e ridondanti. È forse un segnale di “ritorno al passato?”
E di segnali ve ne abbiamo lasciati tanti così, ripetiamo, aspettiamo i vostri pareri perché se c’è una certezza è che noi, sul vino e oltre, di certezze ne abbiamo pochissime.

InvecchiatIGP: Barone Ricasoli - Casalferro 1997


di Roberto Giuliani

Per l’Invecchiato IGP ho scelto un vino che rappresenta fortemente la nuova visione che negli anni ’90 aveva preso piede soprattutto in Toscana, a Montalcino come in Chianti Classico. Ma la millenaria storia dei Ricasoli, proprio qui al Castello di Brolio a Gaiole in Chianti, ha vissuto un periodo del tutto particolare, infatti tra gli anni ’70 e ’90, la storica cantina e il noto marchio erano stati ceduti a terzi, che purtroppo non ne hanno fatto tesoro, anzi, l’hanno quasi ridotta in rovina, vini compresi. Per fortuna nel 1993 il barone Francesco Ricasoli, che investendo tutto quello che aveva e, forse, anche qualcosa in più, ha ripreso possesso dell’azienda e riacquistato il marchio, riuscendo in pochi anni a darle nuovo lustro, grazie al coinvolgimento di Filippo Mazzei di Castello di Fonterutoli, dell’enologo Carlo Ferrini e dell’ex direttore marketing della Duca di Salaparuta Maurizio Ghiori.


Il Casalferro è indubbiamente il simbolo di questa rinascita, prima annata 1993, sangiovese in purezza, ma la ’97 rappresenta anche il cambio di nome aziendale da “Castello di Brolio” a “Barone Ricasoli” (oggi semplicemente “Ricasoli”) e una piccola modifica nell’uvaggio con l’ingresso di una quota di merlot (oggi ormai solo merlot). Ora, per onestà devo dire che i vini firmati da Ferrini, soprattutto in quegli anni, non mi entusiasmavano, la sua mano a mio avviso si sentiva troppo, era più facile capire che un vino era di Carlo Ferrini che la sua provenienza, almeno per me. Del resto era un’epoca in cui il lavoro in cantina era fondamentale, tanta innovazione in macchinari e legni e, forse, non ancora abbastanza esperienza nell’utilizzarli, finivano a volte per indirizzare troppo il carattere dei vini verso il mercato del momento, penalizzandone le caratteristiche più intrinseche e distintive.


Detto ciò, è sempre un’emozione stappare una vecchia bottiglia, in questo caso di 28 anni. Nessun problema nell’estrazione del tappo, che risulta umido fino a un terzo dei suoi 5 cm. di lunghezza, con la parte a contatto con il vino tendente al viola-nerastro. Come da prassi, lo verso con delicatezza e lo lascio ossigenare a lungo, ascoltandone i profumi di tanto in tanto. 


Il colore è un granato ancora di buona intensità e luminosità, al naso appare un po’ statico, nonostante si stia ripulendo della prevedibile riduzione, non trapela una gamma ampia di profumi, sembra piuttosto stabilizzato su confettura di frutta, mallo di noce, tabacco, fumo, cuoio, leggero sottobosco e poco altro, non si muove da lì, non è cangiante e l’ossigeno non rivela nuovi sentori se non qualche cenno ossidativo.


Il sorso però mette in mostra una notevole freschezza, sembra molto meno “anziano”, non ha raggiunto l’armonia e a questo punto non credo ci arriverà mai, ma ha spinta e non mostra alcuna fatica, il tannino ha grana fine e un assetto preciso e ben inserito nella. Il tempo lo ha reso un vino meno voluminoso, per certi versi più apprezzabile, indubbiamente ha tenuto piuttosto bene, peccato per qualche limite sul piano olfattivo.

I Garagisti di Sorgono - Rosato Mandrolisai Doc "Garage" 2023


di Roberto Giuliani

Alla mitica Enopizzeria Avenida Calò: Monica, Cannonau e Muristeddu allevati ad alberello, un piccolo capolavoro che ti trascina in quella terra magnifica che è la Sardegna. 


Colpisce per le note affumicate, agrumi intensi e maturi, verve minerale; in bocca è un'esplosione di sapore. Finito in un baleno!