InvecchiatIGP: Pio Cesare - Barolo "Ornato" 2005


di Lorenzo Colombo

Una sera d’agosto, cena a casa con una coppia d’amici, i vini si susseguono, dapprima un Metodo Classico da uve Erbaluce, quindi un (troppo giovane) Greco di Tufo, a seguire un bianco toscano frutto di un blend tra Chardonnay e Viognier, l’annata è la 2017 ed il vino si rivela una vera sorpresa tanto che la bottiglia velocemente evapora, segue un fresco e sorprendente Gamay del Trasimeno. Un poco di pausa, si chiacchiera, più tardi passeremo al dessert.

“Che ne dite se aprissimo una vecchia bottiglia mentre chiacchieriamo?”

“Perché no?” (tra appassionati di vino non si dice mai di no ad una simile offerta)

“Toscana o Piemonte?”

“Piemonte”

Scendiamo in cantina e rovistando tra le scatole che contengono bottiglie - quasi sempre singole - con diversi anni sulle spalle salta fuori questo Barolo.


Proviamolo!

Stappiamo la bottiglia e come spesso accede con bottiglie vetuste il tappo si spezza, quasi alla fine. Colpa nostra, non siamo scesi col verme del cavatappi sino in fondo. Riproviamo con l’ultimo pezzetto di tappo e questo fuoriesce senza problemi.

Lo annusiamo.

Ci pare di non cogliere problemi di sorta.

Assaggiamo il vino per sicurezza.

La prima impressione era corretta.

Il vino è però un poco caldo, lo raffreschiamo tramite una di quelle tasche termiche che si tengono nel congelatore.

Pochi minuti ed il vino è già nei bicchieri.

Si inizia a commentarlo. 

“Però!”

“Non male, forse un poco chiuso”

“Che bel naso, ampio, elegante, ancora integro”

“Meglio alla bocca”

“Però il naso!”

“E chi se l’aspettava?”

“Notevole, complesso, elegante”.

Il colore è granato, profondo e compatto, ricorda una prugna cotta, unghia aranciata. Intenso al naso, ampio, complesso, spezi dolci, vaniglia, pepe, accenni di china e tabacco, frutto rosso maturo, ciliegia e prugna, accenni di confettura, liquirizia, fiori secchi, sottobosco, un vino elegantissimo, di grande armonia. Emozionante.


Asciutto alla bocca, con tannino ancora vivo ma ben integrato, succoso, sentori di radice di liquirizia, vaniglia, tabacco, ciliegia e prugna mature, lunghissima la sua persistenza.


Alla fine ne rimane una mezza bottiglia (sarebbe la quinta e noi siamo in quattro), la tappiamo con il Vacuvin, lo riassaggeremo domani a mente più fresca.

L’azienda ed il vino

La Pio Cesare è un’azienda storica radicata nel territorio del Barolo (e del Barbaresco) sin dal 1881 appartenente alla stessa famiglia da cinque generazioni.
La cantina si trova nel cuore di Alba ed è costruita sulle mura della città, dispone di 70 ettari di vigneti, 32 ettari si trovano in diversi comuni del Barolo, 27 in quella del Barbaresco ed oltre una decina in altri comuni delle Langhe.


Ornato - il cui nome deriva da quello della famiglia che vi ha vissuto sino all’inizio degli anni Quaranta del secolo scorso - è una delle 39 MGA del comune di Serralunga d’Alba, s’estende nella parte meridionale del comune per 6,7 ettari posti tra i 300 ed i 395 metri d’altitudine tutti vitati a Nebbiolo da Barolo.
Oltre a Pio Cesare c’è unicamente un’altra azienda che rivendica questa Mga, si tratta di Palladino. Il suolo è caratterizzato dalla Formazione di Lequio, ovvero un alternarsi di sabbia e arenaria giallo-rossastra con marne grigie.


L’Ornato è il primo Cru prodotto dalla Pio Cesare sin dal 1985, le uve provengono dall’omonima cascina situata a Serralunga d’Alba, di proprietà della famiglia. La fermentazione si svolge in vasche d’acciaio con macerazione sulle bucce di circa un mese mentre l’affinamento avviene in botti di rovere sia francese che di Slavonia per circa 30 mesi (una piccola parte s’affina in barriques), segue un anno di sosta in bottiglia.

Weingut Schweitzer - Südtirol Doc Chardonnay Riserva Tschaupp 2020


di Lorenzo Colombo

Tschaupp nel tedesco medioevale significa “guarda”, non ci è quindi nome più azzeccato per questo vino il cui vigneto, situato a Tirolo, “guarda” dai suoi 450 metri d’altitudine ben tre versanti del Burgavriato, la Val d’Adige, Merano e la Val Venosta.


In quanto al vino non vi resta che provarlo.

Alla scoperta del Gamay del Trasimeno


di Lorenzo Colombo

Il Trasimeno Gamay è un vitigno a bacca rossa introdotto nella zona del Trasimeno a partire dal XVI secolo, dagli spagnoli. L’influenza spagnola nella zona del Trasimeno è testimoniata dal matrimonio tra il Duca Fulvio Alessandro della Corgna, da cui deriva il nome del palazzo di Castiglione del Lago, e la marchesa Eleonora de Mendoza.
Il Trasimeno Gamay appartiene alla famiglia della grenache (o garnacha, in spagnolo) ed è lo stesso vitigno da cui derivano il cannonau sardo, la granaccia ligure e il tai rosso dei Colli Berici, in provincia di Vicenza.
In questa zona è sempre stato coltivato con la tecnica ad alberello e parrebbe questo motivo per cui prese (erroneamente) il nome di Gamay, vitigno francese allevato ad alberello proveniente dal Beaujolais, regione viticola francese.


Curiosità: l’elenco di vitigni utilizzabili nelle varie denominazioni e nei vini ad indicazione geografica si trova sul “Catalogo Nazionale delle Varietà di Vite”, sotto la voce Gamay troviamo “ammesso nelle Doc Colli del Trasimeno e Valle d’Aosta e in 21 vini ad Igt”.


Il Trasimeno Gamay è una delle diverse tipologie della Doc Colli del Trasimeno e il suo specifico disciplinare di produzione recita “Gamay, minimo 85%”, stessa identica cosa troviamo sul disciplinare della Doc Valle d’Aosta Gamay.
In realtà si tratta però di due vitigni completamente diversi, infatti sempre sul sopracitato Catalogo, alla voce Cannonau troviamo come sinonimi: Alicante, Tocai Rosso, Garnacha Tinta, Grenache, Cannonao e Gamay, quest’ultimo vitigno riporta però un asterisco che rimanda a “Ai soli fini della designazione dei vini Do e Igt della provincia di Perugia”.

In pratica ci pare che questo generi un bel po’ di confusione.

Il Consorzio Tutela Vini del Trasimeno attesta una produzione totale di Gamay del Trasimeno limitata a 24.300 bottiglie, 8.800 di queste sono di Riserva, quest’ultima tipologia prevede un affinamento minimo di 24 mesi e almeno quattro di questi debbono essere effettuati in botti di legno.

I vini

Abbiamo avuto la possibilità di confrontare sei vini prodotti con questo vitigno trovando diverse interpretazioni stilistiche con un fil rouge che comunque li accomuna, quest’ultimo è principalmente data dai sentori di frutta rossa selvatica, soprattutto ciliegia e dal finale piacevolmente amaricante.

Lago Trasimeno

Abbiamo così degustato vini giovani, dell’ultima annata, caratterizzati soprattutto dalla freschezza e vini con qualche anno d’affinamento che ci hanno dato la possibilità di sondare la tenuta nel tempo di questo vitigno.
Anche le varie lavorazioni in cantina variano da vino a vino, con affinamenti sia in vasche d’acciaio come in legno. Nel complesso è stata una degustazione assai appagante che ci ha permesso di ri-scoprire un vitigno duttile in grado di fornire vini diversi tra loro ma assai godibili e, cosa non ultima di facile e vasta possibilità d’abbinamento col cibo. Tra i vini più giovani ci è particolarmente piaciuto l’Opra dell’azienda Madrevite, mentre tra quelli con certo affinamento abbiamo apprezzato soprattutto l’E-trusco di Coldibetto. Tutti i vini sono prodotti con uve Gamay del Trasimeno in purezza e sono elencati in ordine di gradimento.


Coldibetto - Gamay del Trasimeno “E-trusco” 2021

L’azienda è situata nella parte Nord della città di Perugia ed ha un’estensione totale di 65 ettari tra cereali, uliveti, boschi e vigneti situati ad un’altitudine tra i 300 ed i 400 metri slm. L’azienda è certificata biologica dal 2000.
Il vigneto per la produzione di questo vino ha dieci anni d’età ed è situato a 300 metri d’altitudine con esposizione Sud-Est su suolo argilloso calcareo, il sistema d’allevamento è a Cordone speronato con densità di 4.000 ceppi/ha.
Fermentazione ed affinamento si svolgono in vasche d’acciaio dove il vino sosta per 12 mesi.


Color sangue luminoso, di media intensità. Buona la sua intensità olfattiva, elegante, ampio, vanigliato, balsamico, ciliegia matura, erbe aromatiche, mandorle in confetto. Morbido e succoso, ciliegia, note vanigliate e di legno dolce, bella trama tannica, lunghissima la persistenza. Vino di grande eleganza e notevole armonia.

Madrevite – Gamay del Trasimeno “Opra” 2023

L’azienda, fondata nel 20023, è situata a Castiglione del Lago, in località Cimbano, dispone di 60 ettari, 11 dei quali vitati. Il vino viene prodotto con uve Gamay in purezza provenienti da un vigneto posto a 320 metri d’altitudine, il sistema d’allevamento è a Guyot con densità di 5.000 ceppi/ha e la resa è di 80 q.li/ha.
Fermentazione spontanea con lieviti indigeni, affinamento per 10 mesi in vasche di cemento più tre mesi in bottiglia.


Color granato scarico, tendente al melograno. Intenso al naso, fresco e pulito, sentori di ciliegia selvatica ed erbe aromatiche, presenta inoltre una leggera nota speziata. Di corpo leggero, fresco, sapido e succoso, con trama tannica delicata, frutto selvatico, ciliegia, leggeri accenni di pepe, piacevolmente amaricante il lungo fin di bocca. Vino molto interessante, dalla facile e piacevole beva.

Casaioli – Gamay del Trasimeno Doc “Fontinius” 2019

L’azienda si trova a Fontignano Il vigneto si trova su suolo sassoso e ricco di scheletro, dopo la fermentazione il vino viene posto in barriques di rovere francese e americano ed in tonneau dove rimane sino al momento dell’imbottigliamento, seguono sei mesi di sosta in bottiglia prima della commercializzazione.


Color ciliegia trasparente e luminoso di media intensità, molto bello. Bel naso, fresco, pulito, balsamico, ciliegia selvatica fresca, fiori rossi, accenni di vaniglia e di pepe, buona eleganza. Fresco, sapido e succoso, presenta un bel frutto, ciliegia ed una buona trama tannica, accenni vanigliati e di caffè, lunga la persistenza.

Duca della Corgna – Trasimeno Gamay Doc Riserva “Poggio Pietroso” 2020

Duca della Corgna è la linea produttiva di punta della Cantina del Trasimeno, cooperativa che dispone di 300 ettari di vigneti gestiti da 200 soci. Le uve per la produzione di questo vino provengono da un unico vecchio vigneto situato nel comune di Panicale, il sistema d’allevamento è a Cordone speronato e la resa -assai bassa- è di 40 – 45 q.li/ha. La fermentazione si svolge in vasche d’acciaio mentre l’affinamento del vino avviene in botti di rovere francese di grandi dimensioni dove sosta per oltre un anno, il vino torna quindi in vasche d’acciaio per l’assemblaggio finale, dopo di che segue una sosta in bottiglia per circa un anno.
La produzione annua è di 3.500 bottiglie.


Color melograno di media intensità. Buona l’intensità olfattiva, pulito, di buona eleganza, piccoli frutti rossi selvatici, balsamico, mentolato, spezie dolci, vaniglia, note di fiori rossi, di buona complessità. Fresco, sapido e succoso, con tannino gentile ed equilibrato anche se leggermente asciugante, frutti rossi e vaniglia, note mentolate, accenni di radici, lunga la persistenza su note amaricanti.

Pucciarella – Trasimeno Gamay Doc 2023

I vigneti sono situati a Magione, a 300 metri d’altitudine su suolo composto da sabbia, ghiaia e argilla, sono allevati a Cordone speronato con densità variabile dai 3.000 ai 5.000 ceppi/ha. Fermentazione e affinamento di questo vino si svolgono in vasche d’acciaio.


Color rubino di discreta intensità. Buona l’intensità olfattiva, fresco e pulito, ciliegia selvatica matura, rosa, spezie dolci, accenni balsamici. Di media struttura, fresco e asciutto, succoso, con buona trama tannica, frutto selvatico, ciliegia, spezie dolci, buona la persistenza.

Il Poggio – Trasimeno Gamay Doc “Legamè” 2019

L’Azienda Vitivinicola Il Poggio si trova a Castiglione del Lago, in Località Macchie dove dispone di 13 ettari di vigneti dai quali ricava 12 diverse etichette. 


Color granato trasparente di media intensità. Buona l’intensità olfattiva, ampio, balsamico, vanigliato, legno dolce e spezie dolci, vaniglia, ciliegia selvatica matura, prugna, radici, accenni di sottobosco e di caffè tostato. Buona l’intensità olfattiva e bella la trama tannica anche se leggermente asciugante, frutto rosso maturo, ciliegia, spezie, vaniglia, sentori di radici, radice di liquirizia, caffè espresso, legno ancora percepibile, chiude con buona persistenza su note amaricanti.

InvecchiatIGP: Arnaldo Caprai - Sagrantino di Montefalco "25 anni" 1998


Lo ammetto e faccio mea culpa, non compro Sagrantino di Montefalco da tanto, troppo tempo, segno questo che non è un vino che mi emoziona o, come dicono quelli bravi, non rientra tra le mie corde. Sì, caro lettore, so bene che ci sono tantissimi produttori artigianali che producono a Montefalco dei grandi Sagrantino ma, vedete, quel tannino così opulento e graffiante, tipico dell’uva, soprattutto in giovane età, proprio non lo gradisco in questa tipologia di vini. 


Poi, mentre sistemo la cantina in vista del prossimo trasloco, spunta una bottiglia di Sagrantino di Montefalco “25 Anni” 1998 di Arnaldo Caprai, un vino acquistato tantissimo tempo fa sul Forum del Gambero Rosso e che allora era considerato uno dei vini più iconici e premiati in Italia. 
Oggi, sicuramente, non ha più quell’appeal che aveva ventisei anni fa, ormai Caprai è quasi considerato un brand di lusso in Italia, fa parte di un certo establishment del vino che a molti appassionati e giornalisti, alla continua ricerca del piccolo vignaiolo garagista, fa storcere il naso. Troppe bottiglie di vino prodotte, troppa pubblicità, troppi premi ma, ricordiamoci sempre, che se oggi si parla di Sagrantino di Montefalco nel mondo, lo si deve alla visione di Arnaldo Caprai, imprenditore tessile, che nel 1971 fonda la sua azienda con l’obiettivo, a quei tempi sicuramente visionario, di valorizzare quell’uva autoctona poco conosciuta e coltivata spesso per uso famigliare chiamata Sagrantino.

Marco Caprai

L’arrivo nel 1986 di Marco Caprai, figlio di Arnaldo, ha segnato un punto di svolta grazie ad una nuova energia e una visione aziendale estremamente moderna puntando su innovazione e ricerca per rilanciare finalmente il Sagrantino tramite un miglioramento delle tecniche di coltivazione e vinificazione fino ad allora ancora ancorate a logiche da “vecchia” enologia.


Con alle spalle questa nuova filosofia di produzione, tipica degli anni ’90 dove la barrique era considerata il nuovo Messia, nasce il Sagrantino di Montefalco “25 Anni” di Arnaldo Caprai, un vino nato per celebrare, nel 1993, il quarto di secolo dalla fondazione dell’azienda e destinato, come la storia ci ha insegnato, a rivoluzionare il concetto di Sagrantino lanciando non solo Montefalco ma, in generale, tutta l'Umbria sulla vetta del mondo enologico.
Davanti a me, un po’ impolverata c’è l’annata 1998 del “25 Anni”, messa da parte da tempo immemore con un solo scopo che solo un nerd come me poteva avere: capire dopo tanti anni come evolve il Sagrantino di Montefalco, soprattutto quello di Caprai, verificando se questo benedetto tannino alla fine riesce ad integrarsi nel corpo del vino.


Lo apro senza problemi, il tappo non si distrugge, bene così, e già dal colore, rubino tendente al granato, capisco che il vino, nonostante tutto, nella mia cantinetta è stato ben preservato cedendo pochissimo al tempo e all’ossidazione visto che anche i profumi, ricchi di rimandi al tabacco da pipa, al ferro fuso e al sottobosco, non erano quelli (terribili) che mi aspettavo. Per parlarci chiaro non ho trovato assolutamente odori “marsalati” o tendenti al glutammato.


Le sorprese, positive, le ho soprattutto alla gustativa visto che il Sagrantino di Montefalco è ancora vivo e vegeto, per certi versi ancora scalpitante e, udite udite, con un tannino “abbastanza” fuso che per certi versi, ma prendete ciò che scrivo con le molle, simile come grana a quello di certi grandi Bordeaux. Il sorso, soprattutto nel finale, scappa via un po’ troppo velocemente ma rimane comunque ancorata al palato una interessante scia sapida che, almeno al sottoscritto piace tanto.


Insomma, vuoi vedere che, dopo questa bevuta, devo rivedere le mie valutazioni sul Sagrantino di Montefalco? Cari amici IGP tirate fuori le vostre bottiglie dalla cantina ed organizziamo una bevuta di “redenzione”?

Avincis – Cuvée Alexis 2023


L’amico Carmelo Sgandurra, grande esperto di vini internazionali, ogni tanto mi regala delle chicche niente male come questo rosato romeno (merlot e cabernet sauvignon) che alla cieca, per qualità ed energia, farebbe un figurone mettendo in difficoltà qualche rosato italico. 


W i nuovi territori del vino!

Tenuta Trerose – Rosso di Montepulciano “Salterio” 2022


La Tenuta Trerose, situata a Valiano, ai confini con l’Umbria e il Lago Trasimeno, nella parte sud-est dell’areale di produzione del Rosso e del Nobile di Montepulciano, è una delle realtà più affascinanti del panorama vitivinicolo toscano la cui storia affonda le radici nell’epoca romana, quando la tenuta si trovava lungo importanti vie di comunicazione come la Via Lauretana e il Canale Maestro della Chiana. In quello che oggi è il parco antistante la villa di Trerose, ancora si possono trovare testimonianze del passaggio attraverso queste vie di comunicazione come, ad esempio, i resti di una pietra miliare che indicava al tempo la distanza da Roma.


La Tenuta Trerose, il cui nome e logo derivano dal blasone nobiliare raffigurante un orso con tre rose tricolori appartenente al vescovo Jacopo Vagnucci, proprietario del podere nel XV secolo, oggi conta oltre 100 ettari di vigneti, disposti ad anfiteatro e coltivati secondo i principi dell’agricoltura sostenibile, disposti su cinque colli ognun dei quali assume caratteristiche uniche di suolo, ricco di argille e sabbia, ed esposizione la coltivazione del Prugnolo Gentile, il vitigno principale utilizzato per la produzione dei vini aziendali.


Durante una bellissima degustazione organizzata all’interno della bellissima villa padronale del 1500 dal mio caro amico Raffaele Porceddu, hospitality manager del gruppo Angelini, ho degustato tutta la gamma dei vini della Trerose all’interno della quale il mio “coup de coeur” è andato al Rosso di Montepulciano “Salterio” 2022 (95% prugnolo gentile e 5% colorino).


Il vino, il cui nome deriva da un vecchio strumento musicale a corde risalente al 300 a.C., mi ha entusiasmato perché, dopo tanto tempo, ho trovato una versione moderna, scapigliata e scattante del Rosso di Montepulciano che finalmente, grazie a Trerose, ritorna alla sua funzione originaria: essere un ottimo vino quotidiano, un jolly a tavola. 


Come arrivare a tutto ciò? Semplice, si abbandonano certe inutili “zavorre” e si libera il vino che, grazie all’annata 2022, risulta essere un rosso arioso, leggiadro, dal carattere olfattivo puntellato da piccoli frutti rossi di bosco e sensazioni di agrumi rossi. La bocca, poi, è divertente, dinamica, dotata di sublime componente acido-sapida tanto che il sottoscritto, questa estate, freddando la bottiglia un paio di ore in frigo, ha abbinato il Salterio ad una strepitosa zuppa di pesce sarda. Provare per credere!

InvecchiatIGP: Dievole - Bianco Toscana IGT Campinovi 2017


di Stefano Tesi

In ambito enoico, e non solo, i cosiddetti “cambi di stile” sono un terreno tanto stimolante quanto scivoloso, perché spesso inducono ad assaggiare con molti preconcetti: quello che il vino per forza sia cambiato (il che è ovvio), quello che il prima sia peggio del dopo o viceversa, quello che la soluzione di continuità col passato sia troppa, o che, alla fine, nel bicchiere si trovino vini eccessivamente diversi per essere confrontati. E via dicendo. Perdendo così di vista quegli elementi che, invece, la continuità la danno: il vitigno, il territorio e il clima.


In quest’ottica, partecipare a una verticale di Campinovi, il Bianco Toscana Igt di Dievole, prodotto nel cuore del Chianti Classico con uva Trebbiano al 100% dalla cantina del gruppo ABFV Italia (Alejandro Bulgheroni Family Vineyards, di proprietà del magnate argentino), è stata un’esperienza interessante: nel bicchiere abbiamo trovato 5 annate consecutive (2017-2021) di questo vino, ricavato da particelle selezionate dello stesso vigneto di 10 ettari, impiantato in un’area di fondovalle nel 2014.


Annate caratterizzate ognuna – ha spiegato il direttore generale Stefano Capurso - da forti cambiamenti stilistici dettati da differenti usi dei legni e diverse macerazioni, frutto dalla nostra volontà di sperimentare le giuste vie per dare un’identità al vitigno toscano autoctono per eccellenza e di inserirci nel ristretto numero si aziende capaci, in Toscana, di scommettere su un Trebbiano di qualità, importante, adatto anche all’invecchiamento”. Con queste premesse, la nostra attenzione si è concentrata sul millesimo più vecchio, il 2017, caratterizzato da un andamento stagionale assai siccitoso. Il vino fu affinato, quell’anno, per 12 mesi in botti grandi di rovere francese non tostato.

Il risultato della degustazione è stato superiore alle mie aspettative.

Il tappo era ovviamente perfetto. Il colore è un oro rosso profondo, tendente al biondo-miele. Al naso spicca subito una marcata nouance varietale che sfuma poi in note evolute e penetranti di fiori appassiti, frutta ipermatura, pot pourri. 


Al palato il Campinovi è complesso ma ancora agile, lunghissimo, asciutto all’impatto e poi più morbido, con vaghi ritorni fruttati e una dominante amarognola che lo rende enigmatico. In definitiva: un vino ancora vivo, che sarebbe interessante lasciare ancora qualche anno in cantina “per vedere l’effetto che fa”.

Hofkellerei des Fürsten Von Liechtenstein - Ried Karlsberg Riesling Privat 2022


di Stefano Tesi

Dagli storici vigneti principeschi in Bassa Austria, un Riesling al contempo potente, delicato, ricco di sfumature: al naso emergono pietra focaia, mela, pesca, frutta matura che in bocca prendono corpo con l’acidità e assumono belle note citriche.


Equilibrato, lungo, soave, insomma una gran bevuta.

Il Morellino di Scansano protagonista a "Vinellando" 2024


di Stefano Tesi

Tirando le somme della 23° edizione di "Vinellando", l'evento-concorso dedicato al Morellino di Scansano che ogni terzo weekend di agosto si organizza a Magliano in Toscana, la prima domanda che verrebbe da farsi è: perché, su centinaia di produttori, solo qualche decina decide di mettersi in gioco partecipando a questo pur consolidato appuntamento pubblico (definito dagli stessi organizzatori “nazionalpopolare, ma di qualità”)?


Le risposte possono e potrebbero essere tante. E tutte legittime: sovraffollamento delle manifestazioni legate al vino, calendario incompatibile con altri impegni, esaurimento del budget, periodo feriale, scarsa fiducia nel potenziale promozionale dell’evento in parola o in questo tipo di eventi in generale, aspettative ed esigenze diverse rispetto alla tipologia di pubblico presente, questioni diplomatiche o politiche interne alla denominazione, strategia aziendali o chissà cos’altro.


Io, però, da presidente (ahimè, altrettanto “storico”) della giuria che da sempre sovraintende al momento-clou di Vinellando, ossia il concorso per “il miglior Morellino” e per il “Morellino più tipico” (quest’anno era di scena la vendemmia 2022), mi sono fatto una domanda parallela. E l’ho espressa anche pubblicamente, durante la premiazione. Chiedendomi: cosa ha spinto invece 23 produttori a iscrivere il proprio vino al contest, insomma a mettersi in gioco, in gara, diciamo pure a esporsi, in una circostanza giocata in casa, in un contesto familiare e pertanto, come tale, anche un po’ insidioso? L'ho trovato un gesto di coraggio niente affatto scontato, a ben pensarci. E a cui va dato il giusto riconoscimento.

Giuria

La risposta, o meglio le risposte le ho in buona parte trovate già negli assaggi. Tutti svoltisi ovviamente alla cieca, e sotto il vigile occhio di un notaio, dal sottoscritto e dai colleghi della giuria: Filippo Bartolotta, Aldo Fiordelli, Francesca Granelli, Richard Baudains e Riccardo Margheri. Una scelta, quella di un panel giudicante composto esclusivamente da critici, alla quale non ho contribuito direttamente, ma che ho condiviso, perché garante, rispetto al passato, di un’uniformità di metodo – condivisibile o meno che sia – capace di dare indicazioni coerenti. Le stesse indicazioni che, ed ecco la prima delle risposte, i vignaioli in concorso cercavano esplicitamente di ottenere per capire se e quanto la strada da loro intrapresa sia in grado di incontrare il gusto della stampa, quali ne siano invece i punti deboli, su quali le leve puntare per riscuotere riscontri positivi su guide e giornali. L’obbiettivo può apparire ovvio, ma non lo è affatto: primo, perché il criterio di degustazione dei giornalisti è diverso da quello di altre e pur qualificatissime categorie di assaggiatori. Secondo perché, al di là del risultato finale, era proprio l’approccio dei giornalisti ai vini, nel loro complesso e nei dettagli stilistici o tecnici, che ai vignaioli interessava conoscere. Mettendo a fuoco specificità che, in una giuria mista di professionalità diverse come in passato, rischiava di vedersi annullata per compensazione. E quindi di non poter dare indicazioni precise.
Intendiamoci bene: 23 campioni, qualunque sia la composizione di una giuria, non possono certo rappresentare l’intera denominazione e quindi offrire prove di alcunchè sulla medesima. Quindi nessuna velleità in tal senso. Ma alcuni indizi di tendenza forse, sì, li possono dare.


Anche quest’edizione di Vinellando non ha infatti mancato di fornirli: dai calici sono emerse, ad esempio, minori estrazioni, più freschezza, più agilità e al tempo stesso, in modo a volte contraddittorio, il tentativo da parte di alcune aziende (non sempre riuscito, ma questo fa parte del gioco) di mantenere uno stile e una riconoscibilità propri, a volte anche a costo di inseguire modelli meno attuali, ma commercialmente più affidabili nei confronti della clientela consolidata. Il risultato finale è stato, nelle differenze a volte anche marcate tra le diverse etichette, la percezione di un trend condiviso e di un ulteriore rialzo della qualità media rispetto alle precedenti edizioni. Resa evidente non solo dai giudizi individuali, ma dalla classifica finale, dagli scarsi scarti tra i punteggi di noi giurati e dalla discussione di confronto sui campioni che - altro importante elemento di novità rispetto al passato – si è deciso di animare tra una batteria e l’altra.
Non credo sia un caso se, alla fine, si è riscontrata una convergenza piuttosto decisa verso i nomi dei vincitori: al primo posto come “Miglior Morellino 2022” si è piazzato il Podere Poggio Bestiale, al secondo posto la Fattoria dei Barbi, al terzo Il Forteto della soc. agr. Le Rogaie.


Ancora meno casuale il fatto che la palma di “Morellino più tipico” sia andata allo stesso vino vincitore, a riprova che, almeno per i sei degustatori in campo, l'idea della qualità e quella della "tipicità" (concetto volutamente sfumato e che di solito dà il "sale" al confronto) coincidono o quasi. Alla luce di questo, si torna alla domanda iniziale: perché, davanti a un'occasione di confronto come quella offerta da Vinellando e a prescindere dall'intrinseco valore promozionale della manifestazione, su centinaia di produttori di Morellino di Scansano, solo qualche decina decide di mettersi in gioco partecipando a un concorso organizzato sul territorio e quindi, in qualche modo, pure identitario?

Il dibattito è aperto: battete un colpo!

InvecchiatIGP - Paternoster: Aglianico del Vulture "Rotondo" 2008


di Luciano Pignataro

Non è certo una novità la predisposizione all’invecchiamento sano e gioioso dell’Aglianico in generale e del Vulture in particolare. Quando si lasciano dormire le bottiglie al riparo della luce, stese e a temperatura giusta non c’è bottiglia ben eseguita che possa ossidarsi. Naturalmente molto dipende dall’annata e dal protocollo di lavorazione, ma in generale possiamo dire che fra acidità e alcol e davvero difficile perdersi grandi bevute. Spinto da non so quale impulso infanticida ho allungato la mano verso la magnum di Rotondo di Paternoster, anno 1998, oltre un quarto di secolo fa. Il motivo che mi spinge a parlare di questo vino è il fatto che questa etichetta della storica cantina di Barile, che ebbi la fortuna di visitare quando ancora aveva la vecchia sede nel cuore del paese arbëreshe a quota 600 metri, parte proprio con questo millesimo spettacolare in Vulture.


Perché la decisione di affiancare al Don Anselmo, etichetta portabandiera dell’azienda un secondo vino? Bisogna ritornare con la mente a 26 anni fa, ossia alla fine degli anni ’80 quando l’uso della barrique, sotto la spinta di Parker nel mondo e di Veronelli in Italia, conobbe uno sviluppo incredibile. In pratica, nonostante la resilienza di alcuni produttori tradizionali che usavano botti grandi, non c’era cantina che non avesse il 225 litri da esibire al visitatore con la stessa foga con la quale oggi vengono nascoste in un doppio fondo sostituite dall’anfora o dagli antichi tonneaux. Moda che va, moda che viene, fatto sta che Paternoster decise di produrre una etichetta dall’uva di una tenuta appena acquisita fuori il paese dove poi sarebbe sorta la moferna cantina, utilizzando appunto la barrique per l’aglianico chiamando la bottiglia Rotondo. Fu, manco a dirlo, il primo tre bicchieri della Basilicata dopo anni di due bicchieri al Don Anselmo.


All’epoca la Guida Gambero-SlowFood era un vero Ipse dixit nel mondo del vino capace di orientare il mercato e svuotare effettivamente le cantine. I tradizionalisti continuarono a preferire il Don Anselmo ma fu il Rotondo il vino emblematico del rinnovamento del Vulture sino all’arrivo di Titolo di Elena Fucci a partire dal 2004.
A distanza di tanti anni cosa possiamo dire. Beh, in tutta sincerità che la scelta della Guida Ipse dixit era forse omolgante ai mantra dell’epoca ma che non era sbagliata: il Rotondo 1998, annata che Veronelli definì problematica in cantina nonostante i facili entusiasti da vendemmia del secolo che allora si portavano quanto le barrique, si è espresso con una perfezione didattica assoluta, senza sbavature, senza cedimenti, senza residui, con un naso maturo in cui frutto e legno appaiono assolutamente ben integrati e un palato bellissimo, elegante, fine, con una chiusura lunghissima e precisa che invoglia a ripetere il sorso. Non c’è stanchezza bnel berlo nonostante l’alcol e ben si è accompagnato ad ogni ben di Dio, da un erborinato cilentano di capra alla milza imbottita, dal cotechino irpino alla pasta e ceci e ai pecorini stagionati.


Una grande bevuta che ci ricorda una stagione di grande entusiasmo anche al Sud, atteggiamento ottimistico che ha avuto le sue difficoltà ma anche le sue conferme. Un vino assolutamente identitario, che conferma le potenzialità in credibili di questa regione vulcanica, dello stesso territorio di Barile, il paese che ha il lato nord-est della sua collina trasformato in una gruviera per le oltre cento cantine scavate nel corso dei secoli e che oggi compongono il cammino delle Sheshë.
Un territorio onirico, silente, sorvegliato dalle sette bocche del vulcano che esplose in modo devastante 700mila anni fa e dai castelli di Lagopesole e Menfi costruiti dal grande Federico II, un monarca decisamente più moderno e aperto mentalmente della nostra attuale classe dirigente.

Gravner - Rosso Rujno 2006


di Luciano Pignataro

Uno dei vini italiani mitologici in magnum con uve merlot e cabernet sauvignon di una vecchia vigna. La ricchezza al naso e la pulizia al palato hanno un valore assoluto, insuperabile. 


Ma quello che colpisce 
sono la modernità e la bevibilità di questo vino sacro, un privilegio averlo provato grazie a Simone Padoan.

Antonella Lombardo e i vini calabresi di Bianco


di Luciano Pignataro

Antonella Lombardo faceva l’avvocato a Milano quando, nel 2019, decise di invertire la direzione di marcia della propria vita tornando a Bianco, in Calabria, per fare vino. Uno dei numerosi casi di abbandono della grande città che non aveva retto allo stress dell’emergenza rivelando la propria debolezza strutturale con le immagini della grande fuga alle stazioni di migliaia di giovani del Sud.
Bianco è nella Locride, precisamente lungo la Costa dei Gelsomini e le tracce della cultura del vino risalgono sicuramente ai Greci che sbarcarono nell’VII secolo a Capo Zefirio. Fu così che la Calabria divenne una piattaforma di lancio dei vitigni coltivati dai coloni e la traccia di questa storia è nell’incredibile numero di varietà di uva, oltre cento, che ne fanno ancora oggi la regione italiana più ricca di patrimonio genetico.

Antonella Lombardo -  Foto: Reggiotoday

Le tracce di questa storia sono nelle centinaia di palmenti sparsi sulle colline della costa, circa 700 tra Bruzzano, Casignana e Ferruzzano dove ne sono stati catalogati ben 160: in pratica ciascuna famiglia lavorava in propri l’uva e aveva il suo personale, un po’ come noi oggi abbiamo in tutte le case il frigorifero! Il nome Bianco viene dai calanchi argillosi che costituiscono, insieme ai venti dello Jonio e dell’Aspromonte, al clima e alla luminosità, le condizione pedoclimatiche favorevoli alla viticoltura la cui importanza viene sottolineata dalla dop Greco di Bianco. Uva è in realtà una Malvasia chiamata Greco, termine usato in tutto il Sud per uve molto differenti fra loro.

Bianco -  Calabria

L’arrivo di Antonella e l’incontro con l’enologo toscano Emiliano Falsini hanno acceso la miccia del cambiamento, un po’ a Cirò una quindicina di anni fa o come sta avvenendo in provincia di Cosenza sul Pollino e lungo nella provincia di Reggio Calabria dalla Costa Viola a Bivonci. Emiliano Falsini sta lavorando molto al Sud, citiamo i vini Fontanavecchia nel Sannio, Francesca Fiasco negli Alburni in Cilento, Girolamo Grieco sull’Etna. Interpreta il vino, soprattutto i rossi, in maniera decisamente moderna, a sottrarre piuttosto che aggiungere per usare due termini in voga della critica gastronomica. Rossi bevibili ma non banali, direi essenziali.

Emiliano Falsini

Ed è quello che riesce ad ottenere anche in questo luogo, dai circa cinque ettari di vigna di Antonella Lombardo che deve combattere con rese basse, bassissime: a stento raggiunge le 15mila bottiglie perché non si superano i 20 quintali per ettaro negli ultimi anni soprattutto per la carenza di acqua che stressa le viti ormai dal lontano 2003, prima vera annata calda italiana con i suoi 40 giorni pazzeschi che allora sembravano una eccezione e che adesso sono la norma. I vini di Antonella hanno personalità, carattere, possono piacere o meno ma sicuramente si ricordano. Sono ottenuti da uve allevate in regime biologico dove si pratica solo sovescio. La fermentazione viene sollecitata da lieviti indigeni. Noi li abbiamo provati in cantina, ricavata dai capannoni di una cooperativa vitivinicola che ha chiuso i battenti tanti anni fa.

Charà Rosato Nerello Mascalese IGT Calabria 2023 

Siamo di fronte alla Sicilia e dobbiamo dire che di Nerello qui ne abbiamo tanto con grandi risultati. Il vino viene affinato per cinque mesi sulle fecce. Qui il rosato si esprime alla grande, ricco di personalità, piacevole, sapido.

Cheiras Greco di Bianco DOC 2022

Qui siamo in una tradizione rivisitata come diremmo a tavola, via il caramello e i datteri, avanti con note suadenti di pesca, sentori di macchia mediterranea. Il vino affina sulle proprie fecce per oltre un anno.

Greco Calabria IGT 2022 

La conferma della mia teoria per cui i bianchi andrebbero bevuti tutti almeno dopo due anni dalla vendemmia. Da una sola vigna, Fresco, polposo, lunghissimo e dissetante.


Autoritratto Mantonico Calabria IGT  2022 

Questo vitigno bianco rilanciato da Nicodemo Librandi insieme a Donato Lanati alla fine degli anni ’90 potrebbe giocare un ruolo importante su questo fronte grazie alla incredibili capacità di invecchiamento. Il nome rivela l’ambizione di Antonella di farne un grande vino. Lavorato in acciaio, affina per cinque mesi.

Particella 58 Calabria IGT 2022

Vino certificato biologico, il bianco viene lavorato in acciao dopo una macerazione di 24 ore a freddo. Il risultato è un bianco elegante, di ottimo spessore, decisamente piacevole.


Aoristo Gaglioppo Calabria IGT  2020 

Siamo lontani da Ciro, 202 chilometri sulla famosa 106 jonica che rappresenta uno dei gravi ritardi che abbiamo in Italia. Aqui la mano di Falsini è evidente: il vino è leggero, freschissimo, si aggancia ai grandi rossi dei Cirò Boys e di Librandi (Duca Sanfelice). Affina in legno grande e barrique dopo la fermentazione in acciaio per 15 mesi e poi altri sei in bottiglia prima di essere commercializzato.

Ichò 2020 Calabria IGT rosso

Un vino di vigneto che mette insieme nerello mascalese, gaglioppo e calabrese nero. Lunga macerazione a contatto con le bucce e affinamento in legno grande e barrique per 15 mesi, poi altri sei mesi in bottiglia. Il risultato è un vino scattante, dal frutto piacevole e preciso. Dalle ottime prospettive di invecchiamento.


Ogni vino è un racconto, un sogno, l’espressione di una donna che ama la sua terra in maniera viscerale e che è pronta a sacrificare tutto per portare avanti questo progetto. Antonella ed Emiliano sono una coppia micidiale che ci farà divertire molto, intanto vi dico che questi vini sono antichi e moderni. Non è un ossimoro, perché la radici e il territorio hanno tanto da raccontare, ma l’impostazione segue proprio il gusto moderno del momento, soprattutto sui rossi nei quali si rivela meglio la mano. E bianchi? Se si lascia libera un po’ di acidità senza averne paura ci si può davvero divertire. L’equilibrio non fa per noi!

InvecchiatIGP: San Felice - Vino da Tavola Vigorello 1990


di Carlo Macchi

Narrano le storie chiantigiane che tra la fine degli anni ‘60 e inizio degli ’70 a San Felice, all’ora ancora borgo dove abitavano gli operai dell’azienda e non signori che possono permettersi i costi di un Relais chiantigiano, le cose dal punto di vista enoico non andavano tanto bene: le molte uve rosse (sangiovese in gran parte, ma anche colorino, canaiolo), che mescolate al trebbiano e alla malvasia portavano al vecchio uvaggio per il Chianti, si vendevano male. Forse si sarebbero vendute meglio le uve bianche da sole e così Enzo Morganti, allora fattore e responsabile della cantina pensò, assieme a Giulio Gambelli, di togliere le uve bianche dalle rosse per fare un vino bianco con maggiori possibilità di vendita.


Il loro bianco, assieme a quello di altri che fecero la stessa pensata, venne chiamato Galestro ed ebbe un discreto successo, però le uve rosse senza le bianche dettero risultati incredibili e da quella “pensata al contrario” nacque il Chianti Classico moderno e soprattutto i primi Supertuscan chiantigiani.
Uno dei primi in assoluto, tanto da essere messo temporalmente quasi alla pari col Tignanello, fu il Vigorello la cui prima annata è la 1968. Naturalmente ci sarebbero voluti almeno altri 15 anni per far capire le potenzialità della tipologia denominata Supertuscan, che venne osannata nel mondo e servì a far conoscere il vino toscano.


La 1990, annata di altissima qualità, fu una di quelle nate nel momento migliore e dalle uve migliori. Rispetto ai primi anni il Vigorello aveva cambiato uvaggio, passando nel 1979 dal sangiovese e altre uve autoctone a quello per cui venne conosciuto negli anni d’Oro dei Supertuscan, cioè sangiovese e cabernet sauvignon. Approcciarsi ad una bottiglia del genere non è mai facile, sia per la sua storia che per le aspettative, specie poi se arriva da una vendemmia così importante come la 1990.


Stappo e…bestemmio! Infatti il tappo sa di tappo da fare schifo e l’assaggio successivo sembra essere solo una formalità per confermare ed ampliare il fronte dei peana ai vari dei presenti nel mondo. Invece il dio Bacco, che probabilmente era molto interessato alla bottiglia, fa il miracolo! Non solo il vino non sa di tappo (l’abbiamo finita dopo ore e nessuno dei commensali ce l’ha trovato) ma fin dall’inizio quell’amalgama aromatica che parte dal balsamico, passa per la macchia mediterranea, punta verso note leggermente vegetali, curvando anche su sentori di liquirizia e china, si presenta in perfetta forma.


Il naso è quindi più che a posto e anche il colore, un rubino leggermente scarico è quello che ci aspettavamo. In bocca c’è l’apoteosi: tannicità vellutata, equilibrio, giusta freschezza e corpo importante ci fanno esclamare una serie di “ Ohhhhhhhh” accompagnate da altre esclamazioni positive ma pecorecce che è bene non riportare. Un vino semplicemente superlativo, tra l’altro condiviso con tecnici non toscani che non riuscivano a rendersi conto di come fosse potuto nascere e arrivare fino lì un vino del genere. Se devo dirla tutta, anche io sono rimasto profondamente colpito dalla sua freschezza e assolutà bontà: uno dei vini più buoni che abbia mai bevuto.

Cantina Tramin - Alto Adige Doc Gewürztraminer Epokale 2016


di Carlo Macchi

Il Gewürztraminer senza se e senza ma! Un infinito campo fiorito, un bancone immenso di frutta secca e candita, potenza, armonia e rotondità incredibile al palato. Zucchero residuo?


Si, ma chissene! Se avete la mappa delle miniere di Ridanna Monteneve, dove per 6 anni matura l’Epokale, usatela!!!