Vite in Riviera, vino ed olio nella Riviera Ligure di Ponente


di Lorenzo Colombo

La Riviera Ligure di Ponente è quella zona situata nella parte occidentale della Liguria che corrisponde alle province di Savona e di Imperia. Il suo territorio è a dir poco impervio, praticamente non esistono pianure, infatti per il 65% è montuoso ed il rimanente collinare, qui nelle numerose vallate che guardano il Mar Ligure si trovano vigneti e oliveti.


Con lo scopo di promuovere i prodotti tipici del territorio della Riviera Ligure di Ponente è nata nel 2015 la Rete d’Impresa Vite in Riviera, una rete di aziende vitivinicole ed olivicole che a tale scopo gestisce anche la sede dell’Enoteca Regionale Ligure situata ad Ortovero presso la cui sede abbiamo effettuato la degustazione di una ventina di vini delle aziende facenti parte di questa rete che attualmente sono 25 e che gestiscono 150 ettari di vigne per una produzione annuale di circa 1.300.000 bottiglie suddivise tra tre vini a Doc e due ad Igt:

Riviera Ligure di Ponente DOC (denominazione che comprende cinque sottozone e le seguenti tipologie di vini):

o Pigato

o Vermentino

o Moscato

o Rossese

o Granaccia

Rossese di Dolceacqua DOC

Pornassio o Ormeasco di Pornassio DOC

Terrazze dell’Imperiese IGT

Colline Savonesi IGT


I vigneti e gli uliveti sono coltivati su impervie colline a picco sul mare, questo fa sì che la maggior parte delle lavorazioni debbano essere svolte manualmente, senza la possibilità d’utilizzo di mezzi meccanici.
La viticoltura è presente in questi luoghi da moltissimi anni ed ultimamente s’è notato un notevole interesse da parte delle generazioni più giovani che stanno gestendo le nuove e vecchie aziende, buona parte di queste oltre ad offrire percorsi di degustazione ai turisti del vino, gestiscono anche agriturismi con camere e ristorazione.

La degustazione

Presso l’Enoteca di Ortovero abbiamo avuto il primo contatto coi vini del territorio tramite una degustazione di una ventina di vini, principalmente Pigato, altri vini li abbiamo poi assaggiati durante le visite nelle diverse cantine. Ecco quanto abbiamo maggiormente apprezzato, nella degustazione presso l’Enoteca.

I vini sono suddivisi per tipologia e sono elencati in ordine di gradimento:

Riviera Ligure di Ponente Vermentino

Vitigno tirrenico, il Vermentino è infatti diffuso sulla costa tirrenica dalla Liguria alla Toscana, ed ovviamente in Sardegna, lo troviamo anche in Corsica e nella fascia tirrenica francese più vicina alla Liguria. Entrambi i vini sono dell’annata 2021.

Cantina Viticoltori Ingauni

Si tratta di una cooperativa, nata nel 1976 ad opera di 13 soci e che attualmente ne conta 198 per una produzione annuale di oltre 4.500 q.li d’uva, il 60% delle quali di Pigato, la sede è a Ortovero. Il vino degustato appartiene alla linea Ho.re.ca.


Paglierino luminoso di discreta intensità. Media intensità olfattiva, erbe officinali, note floreali, fiori gialli, frutta a polpa gialla. Buona struttura, morbido, erbe officinali, buona vena acida, agrumi maturi, sapido, frutta a polpa gialla, buona la persistenza.

Azienda Agraria Anfossi

Fondata nel 1919 ha sede a Bastia, in provincia di Savona, la produzione principale è quella del basilico al quale sono riservati 10 ettari, mentre gli ettari di vigna sono 3,5 e due quelli dedicati agli olivi. La produzione annuale è di 50.000 bottiglie tra Pigato, Rossese e Vermentino.


Giallo paglierino di buona intensità. Buona intensità olfattiva, fiori gialli e frutta gialla, erbe officinali. Buona struttura, succoso, pesca gialla, leggeri accenni piccanti, sapido, lunga persistenza.

Riviera Ligure di Ponente Pigato

Inserito nel Catalogo Nazionale delle Varietà di Vite nel 1970 come vitigno a sé stante, anche se viene considerato una varietà di Vermentino, infatti quest’ultimo viene specificato come sinonimo unitamente alla Favorita, il Pigato è diffuso esclusivamente in Liguria, principalmente nella Riviera di Ponente.
Il vitigno viene utilizzato nella Doc Riviera Ligure di Ponente e in quattro vini ad Igt liguri. I Pigato sono i vini che ci hanno dato le maggiori soddisfazioni, se non espressamente indicato tutti quelli assaggiati sono dell’annata 2021

Azienda Biologica Bio Vio - Bon in da Bon

L’azienda è situata a Bastia dove si coltivano principalmente erbe aromatiche, mentre vigneti ed oliveti si trovano soprattutto in Val d’Arroscia. L’azienda, certificata BIO sin dal 1989, quanto l’agricoltura biologica era una mosca bianca, dispone di otto ettari di vigneti dai quali ricava annualmente 70.000 bottiglie, suddivise in otto etichette, da uve Pigato, Vermentino, Granaccia e Rossese.
Le uve utilizzate per il vino degustato provengono dalla Regione Marixe, situata nel comune di Bastia d’Albenga, frutto di una vendemmia tardiva viene vinificato in vasche d’acciaio dove matura per sei mesi prima d’essere messo in bottiglia.


Paglierino luminoso con riflessi verdolini. Bel naso, elegante, agrumato, frutta a polpa bianca, pesca, mela. Fresco, agrumato, accenni d'erbe aromatiche, lunga persistenza. Vino dalla notevole qualità.

Cantine Calleri – Pigato d’Albenga Saleasco

La storica azienda, condotta da Marcello Calleri, si trova in Regione Frati di Salea, frazione d’Albenga, vi si producono, oltre al Pigato, anche Vermentino, Ormeasco e Rossese. Il vino degustato viene vinificato in vasche d’acciaio, dove sosta per circa sei mesi e dove subisce anche la fermentazione malolattica.


Color giallo paglierino luminoso. Buona intensità olfattiva, sentori d'agrumi, frutta a polpa bianca, fresco, piacevole. Discreta struttura, fresco ed agrumato, sapido, verticale, lunga persistenza su sentori d'agrumi. Altro vino molto interessante.

La Vecchia Cantina (2020)

Gestita dalla famiglia Calleri l’azienda dispone di quattro ettari di vigne per un totale di 25.000 bottiglie all’anno, suddivise su sette etichette, la sede dell’azienda è a Salea, frazione d’Albenga. Il vino degustato viene vinificato in vasche d’acciaio dove subisce un breve batonnage.


Paglierino luminoso di media intensità. Buona intensità olfattiva, erbe aromatiche, accenni d'agrumi (chinotto). Buona struttura, sapido, accenni piccanti, note di chinotto, buona vena acida, buona la persistenza.

Azienda Agricola Enrico Dario

Nel 1968 Enrico Dario e la moglie Teresa decidono d’abbandonare la coltivazione d’ortaggi sinora perseguita per dedicarsi unicamente al la viticoltura ed alla produzione di vino. L’azienda, con sede a Bastia d’Albenga, dispone di cinque ettari di vigne per una produzione annuale di 40.000 bottiglie.


Paglierino luminoso di media intensità. Naso di buona intensità, note d'agrumi, frutta a polpa gialla. Buona struttura, succoso, morbido, bel frutto, sapido, buona la persistenza.

Azienda Agricola Bruna – Le Russeghine

Situata a Ranzo, in provincia d’Imperia, l’azienda Bruna produce sei vini, tre dei quali col vitigno Pigato. Le uve per la produzione del vino degustato provengono dalla Val d’Arroscia, principalmente dal vigneto storico “Russeghine” che gli dà il nome, situato a 230 metri d’altitudine e censito sin dalla fine del 1700.
Il sistema d’allevamento è a Guyot eh ha un’età d’oltre 25 anni. Fermentazione in vasche d’acciaio ed affinamento in acciaio ed in botti di grandi dimensioni per otto mesi.


Paglierino luminoso di media intensità. Discreta intensità olfattiva, accenni d'agrumi, pesca bianca, pulito. Fresco, agrumato, buona vena acida, note d'agrumi, buona vena acida, media struttura, buona la persistenza.

Azienda Agricola a Maccia

Fondata nel 1850 è un’azienda tutta al femminile da ben quattro generazioni, si trova a Ranzo (IM) e dispone di quattro ettari di vigne per una produzione che annualmente s’aggira sulle 25.000 bottiglie.
Il Pigato in degustazione proviene da un vigneto di 25 anni d’età media, situato su suolo prevalentemente argilloso ed alleato a Guyot, fermentazione ed affinamento si svolgono in vasche d’acciaio dove il vino sosta sulle fecce fini per quattro mesi.


Giallo paglierino di buona intensità, luminoso. Buona intensità olfattiva, macchia mediterranea, sentori di frutta gialla. Buona struttura, succo, bel frutto, pesca gialla, note tropicali, sapido, lunga la persistenza su sentori d'erbe officinali.

Podere Grecale

Azienda di recente costituzione, è infatti nata nel 2008 e si trova a Sanremo.
Sono quattro gli ettari di vigna e 20.000 le bottiglie prodotte ogni anno, suddivise su sette etichette. Il vigneto dal quale derivano le uve per la produzione del vino degustato è situato a 200 metri d’altitudine su suolo argilloso con presenza di calcare, il sistema d’allevamento è parte a Cordone speronato e parte a Guyot, fermentazione ed affinamento si svolgono in vasche d’acciaio dove il vino sosta sulle fecce fini per almeno cinque mesi.


Giallo paglierino luminoso. Discreta intensità olfattiva, erbe officinali, accenni floreali. Buona struttura, erbe aromatiche, accenni piccanti, buona la persistenza. Meglio alla bocca, lo abbiamo trovato più espressivo.

Granaccia

Sinonimo del Cannonau, che a sua volta fa parte dei Grenache, è nella Doc coltivato nell’imperiese e nel savonese dove viene utilizzato nella Doc Riviera Ligure di Ponente e nell’Igt Colline Savonesi.

Azienda Agricola Innocenzo Turco - Riviera Ligure di Ponente Granaccia 2020

Situata a Quiliano l’azienda dispone di 20 ettari, dei quali 4,5 a vigneto, la produzione è di 20.000 bottiglie/anno. Le uve che vanno a costituire questo vino provengono da 1,5 ettari di vigna situata su terreno rosso e argilloso, il sistema d’allevamento è a Guyot. Fermentazione ed affinamento del vino in degustazione s’effettuano in vasche d’acciaio dove sosta per 12 mesi.


Granato luminoso e trasparente di media intensità. Media intensità olfattiva, frutto rosso selvatico. Fresco, piacevolmente amaricante, buona vena acida, lunga persistenza, leggeri accenni affumicati.

Società Agricola RoccaVinealis - Colline Savonesi Igt Granaccia “Gublòt” 2020

L’azienda è nata dall’unione di quattro imprenditori che nel 2016 hanno acquistato 10 ettari di terreno con diritti d’impianto. Sono tre sinora i vini prodotti, tutti da uve Granaccia. Le uve per questo vino provengono da un giovane vigneto di 1,5 ettari situato a 520 metri d’altitudine, in località Broda, a Roccavignale, sia la fermentazione che l’affinamento avvengono in vasche d’acciaio dove il vino sosta per un anno.


Rubino-granato di media intensità. Media intensità olfattiva, frutto rosso selvatico, poco inteso. Media struttura, radici, buona vena acida, piacevolmente amaricante il lungo fin di bocca.

Ormeasco di Pornassio Doc

L’Ormeasco è un sinonimo del vitigno Dolcetto, di cui è una varietà, è coltivato esclusivamente nella Provincia di Imperia, nei territori dei Comuni di Pornassio, Pieve di Teco e in tutta l’Alta e Media Valle Arroscia dove trova il suo habitat ideale fino a 700/800 mt d’altitudine.

Cascina Nirasca – 2019

L’azienda, di recente costituzione, si trova a Pieve di Teco dove dispone di 3,5 ettari di vigneti la maggior parte dei quali situati tra i 400 ed i 500 metri d’altitudine.
Sono sei i vini prodotti, quello da noi degustato proviene da una vigna di 30 anni d’età situata tra i 550 ed i 780 metri d’altitudine nelle località Pornassio, Acquetico, Nirasca e Armo. Vinificato per metà con lieviti indigeni e per l’altra metà con lieviti selezionati s’affina per sei mesi in vasche d’acciaio.


Rubino intenso e luminoso. Intenso al naso, balsamico, frutto a bacca scura, more, prugne, legno dolce. Buona struttura, asciutto, succoso, buona trama tannica, lunga persistenza.

Tenuta Maffone – 2021

Situata in Val d’Arroscia l’azienda, nata nel 2009, dispone di vigneti che hanno un’età dai 60 ai 100 anni, situati tra i 500 ed i 700 metri d’altitudine, in frazione Acquetico nel comune di Pieve di Teco. L’azienda produce 11 vini, quello da noi assaggiato viene vinificato in acciaio.


Rubino luminoso di buona intensità. Intenso e fruttato al naso, ciliegia, more, pulito. Bel frutto, succoso, buon frutto, bella trama tannica, buona vena acida, frutto rosso, ciliegia, lunga persistenza.

InvecchiatIGP: Donatella Cinelli Colombini - Brunello di Montalcino 2003


di Stefano Tesi

Nel mondo del vino italiano, e non, Donatella Cinelli Colombini è nota per una intraprendenza e una determinazione che nel tempo le hanno consentito non solo di farsi largo con le proprie aziende sul mercato e nei giudizi della critica specializzata, ma anche di aprire vie nuove e pionieristiche, prima del tutto sconosciute, come la fondazione del Movimento del turismo del vino, del quale è ormai una sorta di ambasciatrice e di portavoce a trecentosessanta gradi. Nonché di rilanciare organismi come le Donne del vino, l’associazione di enologia al femminile più grande del pianeta, di cui Donatella è attualmente presidente. Brillanti e innovative, spesso, pure le sue idee in materia di marketing, capace di dar vita a un modello oggi molto emulato dalle nuove generazioni.


Chi la conosce da molto tempo, come chi scrive, è però ben al corrente anche delle tante difficoltà e degli ostacoli che hanno disseminato il suo cammino, mettendo in luce una virtù meno nota: il coraggio di cambiare, assecondando le proprie intuizioni.



Un percorso cominciato nel 1993, dopo il distacco dall’azienda di famiglia, e proseguito per quasi un decennio con quelli che Donatella definisce i suoi “gli anni eroici”, conclusisi con l’arrivo in cantina di Carlo Ferrini, rimasto fino al 2009 per lasciare poi il posto a Valerie Lavigne, l’enologa tuttora in sella. Uscì proprio dalle mani di Ferrini il Brunello di Montalcino 2003 che ho avuto recentemente modo di assaggiare.


L’opportunità mi incuriosiva moltissimo, per molte ragioni. Vedere quanto restava della mano dell’enologo, considerato il periodo storico. L’annata difficile, forse la più torrida di sempre, con una vendemmia fatta a cavallo tra settembre e ottobre. Alcune mie vecchie note di un assaggio di una decina di anni fa. E l’effettiva capacità di invecchiamento del vino, che le schede aziendali indicavano in vent’anni e oltre.


All’aspetto è di un colore rubino-granato scuro, compatto, con qualche accenno aranciato. Al naso è importante, quasi solenne, certamente non croccante ma profondo ed integro, ancora vivo, con note di prugna, ribes, un accenno di cacao e di tabacco, sottobosco e qualcosa di balsamico. In bocca è ricco e sorprende per vitalità e asciuttezza, con una rotondità un po’ neghittosa che dà nerbo e tensione.

Donatella Cinelli Colombini

In definitiva un Brunello equilibrato, suadente e perfino godibile, che sinceramente pensavo di trovare molto più evoluto e stanco. Me l’immagino a lungo sorseggiato su un bell’agnello arrosto durante un pranzo natalizio, o un accigliato, ruvido e profumato pecorino delle Crete Senesi bello stagionato.

Val di Suga - Rosso di Montalcino 2021


di Stefano Tesi

Molto di ciò che ruota attorno al Rosso di Montalcino e alle sue tante funzioni strategiche, ma questo vino fatto solo in cemento, dal profumo vivo, etereo, fragrante e gentilissimo e dalla bocca tanto elegante, quanto netta e profonda mi ha fatto oltremodo godere. 


Tutto il resto è noia.

Dievole celebra Trent’anni di Chianti Classico Riserva "Novecento"


di Stefano Tesi

Adoro le verticali, perché consentono di capire molto non solo sull’evoluzione di un vino in sé (che non è poco, comunque), sulle aziende che lo producono e la loro storia ma, più in generale, anche sui mercati vinicoli, l’economia e le abitudini di consumo che una società, bevendo il vino, esprime nel tempo.


Quella che, alcune settimane fa, Dievole – storica azienda chiantigiana, dal 2012 parte del gruppo Abvf Italia facente capo al magnate argentino Alejandro Bulgheroni - ha allestito per il trentennale 1990-2019 del suo Novecento Chianti Classico Riserva è stata, nel senso detto sopra, illuminante.

La ricorrenza era, in qualche modo, tonda, visto che il Novecento fu creato per celebrare un altro anniversario, il novecentenario della prima attestazione storica del toponimo (“Diulele”), contenuta in un documento del 1090 conservato all’Archivio di Stato di Siena.

Si è trattato di una degustazione in due fasi.

La prima, più approfondita e commentata tecnicamente, ha riguardato le nove annate ritenute più idonee (“il che non significa le migliori in assoluto”, ha sottolineato l’ad Stefano Capurso, “ma quelle che abbiamo ritenuto più rappresentative dei periodi presi in esame”), a scolpire le principali fasi aziendali: dal 1990 al 1996, dal 1997 al 2006 e dal 2012 al 2019. E’ stato volutamente “saltato” l’arco di tempo 2007-2012, quando Dievole attraversò un difficile interludio gestionale. I millesimi prescelti sono stati il 1990, 1993, 1995, 2001, 2004, 2006, 2016, 2018 e 2019.


La seconda degustazione, libera, ha interessato invece tutte le venticinque vendemmie disponibili, le bottiglie della quale – diamo merito alla tenacia e al non indifferente impegno degli organizzatori - sono state reperite ad hoc dall’azienda sul mercato internazionale e con non poche difficoltà visto che, nelle cantine, non ne era rimasto neppure un esemplare. Alla fine sono mancate all’appello e al bicchiere solo la 1991, la 1992, la 1999, la 2000 e la 2002.

Unanimi e sorpresi consensi ha riscosso la 1990, un vino “antico” in tutti i sensi visto che, anagrafe e grande annata a parte, era prodotto ancora con una percentuale imprecisata di uve bianche: integro nel colore, con un bel naso cangiante che alle note terziarie fa precedere una discreta freschezza e vitalità, mentre in bocca appare una sorta di vino-manifesto dell’epoca, reattivo, elegante e senza cedimenti..

Un po’ meno convincenti, ma più che bevibili, il 1993, che conteneva anche un po’ di Trebbiano ed è risultato piuttosto evoluto, con accenni balsamici e un palato sapido, e il 1995, un vino più affilato, quasi tagliente, a tratti salino, con qualcosa di rosaceo al naso e un palato sobrio, composto e piacevole.

Molto coerente a se stessa anche la seconda batteria che, al netto dello stile molto muscolare e “parkeriano”, ha dato assaggi comunque interessanti e prodighi di reminiscenze. Dei tre ci ha colpito il 2006, ironia della sorte forse il meno chiantigiano e il più internazionale di tutti, con note terrose e di cacao al naso, sapori di ciliegie sotto spirito e Mon Cherie al palato. Non invecchiato benissimo, però.

Gli interessanti assaggi del periodo 2007-2012 hanno confermato le aspettative, con vini a volte buoni, a volte meno, spesso figli delle mode ma con scarsa continuità e coerenza, a testimonianza della sostanziale mancanza di direzione strategica.


E veniamo alla terza batteria, quella relativa al periodo che comincia col 2012 e il passaggio all’attuale proprietà e arriva fino al 2019. Il salto rispetto al passato è, ovviamente, netto ed evidentissimo. “Con la nostra gestione”, ha spiegato del resto Capurso, “il Novecento è diventato il frutto di una selezione delle migliori uve provenienti da diversi vigneti, che dal 2017 sono anche passati in regime biologico”.

Il 2016 è apparso pimpante, ancora giovanile sia al naso che in bocca, con in evidenza la gentilezza delicata del ribes e della viola, una bella freschezza e tanta sapidità. Vino di grande prospettiva, da aspettare con pazienza se si vuole berlo al meglio.

La difficile annata 2018 si è presentata un po’ scarica all’olfatto, con echi pungenti di melagrana e frutti acerbi, mentre al sorso è emerso un vino vivo, pronto, godibile e perfino invitante.


Forse è ancora troppo giovane per essere giudicato seriamente, il 2019, che tuttavia tradisce già da ora un’elegante potenza e dà continuità a uno stile aziendale improntato all’ampiezza e alla finezza, senza orpelli invasivi.

Nota finale senza piaggeria: è stata una celebrazione coi fiocchi e, siccome è vero, bisogna dirlo.

La Ribona dei Colli Maceratesi, due volte più buona, ma col giusto tempo di affinamento


Nelle Marche il maceratino, tradizionalmente chiamato anche ribona per sottolineare il fatto che fosse due volte buona (Ri-Bona), è il vitigno più importante piantato nella zona di Macerata. Le sue origini sono antichissime e pare risalgono al periodo della Magna Grecia - nel 387 a.C. - quando i greci di Siracusa fuggirono dal tiranno Dionisio insediandosi lungo la costa dell’anconetano e nella zona dei colli maceratesi. E’ a partire dal XIX Sec., soprattutto all’interno dei bollettini Ampelografici, che si inizia a parlare scientemente di questa uva autoctona tanto che il Santini, nel 1875, descrive i vitigni della zona di Macerata rilevando una netta prevalenza di quelli a “frutto bianco o giallognolo”. Tra questi ultimi vi è l’indiscussa importanza del montecchiese (conosciuto anche come uva stretta o greco maceratino di Recanati) e, a seguire, del verdicchio e del trebbiano.


Bisogna aspettare la fine gli anni ’60 del secolo scorso, con la fine della mezzadria e il rinnovamento della viticoltura locale, affinchè questo vitigno, spesso confuso con greco, trebbiano e verdicchio, acquisisca finalmente unicità grazie agli studi del Professor Bruno Bruni, importante ampelografo marchigiano, che dopo averlo identificato nell’areale di Macerata, lo ha catalogato nel registro nazionale delle varietà di uva con il nome di maceratino o ribona che, successivamente, ha caratterizzato i vini bianchi della DOC “Colli Maceratesi” (min 75% di ribona anche nella tipologia spumante e passito) e della seguente "Maceratesi DOC Ribona" (min 85% di ribona anche nella tipologia spumante e passito).

Il territorio riferibile alla DOC "Colli Maceratesi Ribona"

Con soli 150 ettari rivendicati da 39 produttori per oltre 4 mila ettolitri di vino imbottigliato, sicuramente oggi questa DOC - nella tipologia Ribona - rappresenta oggi uno dei prodotti marchigiani più interessanti sul mercato anche perché, come vedremo successivamente, il vino grazie alle sue caratteristiche intrinseche possiede interessanti doti di poliedricità e longevità e la modifica approvata del disciplinare con l’introduzione della tipologia Riserva, a partire dalla vendemmia 2023, va sicuramente in questa direzione.
Grazie all’IMT diretto da Mazzoni, qualche settimana fa ho potuto visitare il territorio di Macerata e mi sono fatto una bella full immersion di Ribona prodotta dalle principali aziende della denominazione. 


Prima di passare al particolare della degustazione, quello che io ed altri amici e colleghi abbiamo notato è che questo vino, nell’annata corrente, risulta mediamente ancora troppo “scomposto” e di difficile interpretazione soprattutto per il consumatore medio italiano abituato a vini bianchi spesso “piacioni” ed immediati.


Il discorso cambia nettamente quando, invece, si degustano Ribona con almeno un anno di affinamento perché ci si rende subito conto che il giusto tempo di riposo dona a questo vino una armonia di insieme simile a quando tanti pezzi di un puzzle trovano la giusta collocazione svelando finalmente una immagine nitida e completa di ciò che ricercavamo. Passando alla degustazione vera e propria, dopo l’assaggio di 25 «Colli Maceratesi DOC Ribona» di varie annate, anche nella tipologia spumante, i migliori vini, a mio parere, sono stati i seguenti:


Boccadigabbia – Le Grane 2021: come riportato dallo stesso produttore, le uve utilizzate per questo vino sono coltivate nella antica contrada Montanello di Macerata, dove Pietro Paolo Floriani, uomo d’arme e architetto militare famoso per aver progettato la rocca Floriana di Malta, fece piantar vigne fin già dal 1626. Il miglior 2021 assaggiato per il semplice fatto che il vino, ancorchè giovanissimo, risulta assolutamente già godibile ed equilibrato esprimendo sbuffi aromatici di pera, tiglio e mandorla e, a seguire con la degustazione, una beva succosa attraversata da vivida sapidità.


Villa Forano – Monteferro 2020: le uve provengono dal vigneto di Appignano (MC) situato su una collina chiamata Monteferro dalla quale il vino prende il nome. Vino estremamente piacevole che con un anno di affinamento in più regala una complessità olfattiva giocata su toni di nespola, pesca gialla, mango, biancospino, erbe aromatiche. Sorso invitante, fresco, dagli sprazzi minerali e dalla lunga scia sapida.


Saputi – Camurena 2019: l’azienda, a conduzione familiare, è alla quarta generazione ed oggi è gestita da Alvaro Saputi con i suoi 2 figli, Leonardo vignaiolo specializzato in viticultura e Andrea responsabile commerciale. Rispetto ai ribona fermi prodotti, tutte con uve provenienti dalla zona di Colmurano, questo vino effettua una sosta sui lieviti per 8 mesi e questo gli dona sicuramente una marcia in più sia a livello aromatico, il cui ventaglio olfattivo spazia dalla pesca noce, alla rosa bianca fino ad arrivare al timo e alla selce, sia a livello gustativo dove il sorso risulta intenso con belle rispondenze fruttate arricchite da eleganti richiami erbacei.


Andrea Giorgetti – Flosis 2019: fondata nel 2015, questa nuova cantina potentina è diretta da Andrea Giorgetti, il proprietario, e dall’enologo Nicolò Marchetti che gestiscono i loro vigneti in contrada Monte Priori, sul crinale di San Girio. Il loro Flosis, che è l’antico nome del fiume Potenza che una volta alimentava i vigneti della zona, è stato per me una sorta di odio e amore perché se il millesimo 2021 è stato il Ribona più scontroso ed enigmatico degustato tra tutti, il 2019 è stato didatticamente illuminante perché ti fa capire, con tutte le differenze dell’annata, come questo vino possa evolvere e migliorare nel tempo soprattutto per quanto riguarda la definizione e l’accordo sia aromatico che palatale. La 2019, nello specifico, profuma di fiori di acacia ed agrumi e ha nella spinta sapida, quasi salmastra, la sua forza a livello gustativo.


Sant’Isidoro – Pausula 2014: questa bellissima cantina, situata all’interno di una antica dimora signorile delle colline maceratesi, gestisce i suoi 13 ettari vigneti di proprietà nel comune di Corridonia e dal 2016, partendo proprio dalla Ribona, ha avviato un progetto di agricoltura sostenibile. Dei vari vini posti in degustazione ho amato fin da subito questa 2014 che, nonostante tutto ciò che si è scritto su questo millesimo, è ancora assolutamente piacevole nonostante la sua essenzialità e qualche nota evolutiva che inizia a scorgersi. Al naso profuma di frutta estiva matura, di camomilla essiccata, fieno e zenzero. In bocca è ancora fresco, vitale, e lascia trapelare una pungente mineralità insieme ad una sensazione ossidativa che sfocia nel finale su ritorni di agrumi canditi e cotognata.


Il Pollenza – Angera 2012: la cantina, di proprietà del conte Aldo Brachetti Peretti, è una delle realtà più importanti e dinamiche delle Marche con i suoi 250 ettari di vigneti piantati all’interno dell’areale di Tolentino (MC) dove troviamo sia vitigni internazionali sia vitigni tradizionali ed autoctoni come la ribona che l’azienda, con la consulenza enologica di Ferrini, ha iniziato a produrre dal lontano 2010. Questa 2012, versata da bottiglia magnum, ha fatto strabuzzare gli occhi a tutti i fortunati degustatori che sicuramente erano inconsapevoli di trovarsi nel calice un grandissimo vino bianco italiano. Naso sfaccettato con imprinting salino abbracciato presto da sensazioni di ginestra, miele millefiori, mango, bergamotto e terra rossa. Bocca importante, elegante, ancora vivissima nella pienezza del corpo perfettamente bilanciato da freschezza e tenore sapido. Persistenza da tempo di record con bellissima chiusura su toni agrumati, leggermente salmastri.

InvecchiatIGP: Perillo - Taurasi DOCG Riserva 2008


di Luciano Pignataro

A dire il vero non so se un Taurasi, vino eterno, possa essere considerato invecchiato dopo appena 14 anni, ma diciamo pure di si. Almeno rispetto alla media dei rossi italiani. Questa longevità lo iscrive tra i vini strutturati che rendono spesso il bere indimenticabile e irrinunciabile. Michele è assistito adesso dal figlio Felice che ha studiato enologia e insieme curano la vigna di nove ettari, aglianico, coda di volpe e in piccola parte qualche altra varietà autoctona come la coda di volpe rossa. Lui stesso procede "cuoncio cuoncio", piano piano con attenzione: alle guide ha mandato quest'anno il Taurasi riserva 2010 e il Taurasi 2011: viaggia, insomma, con una media di dieci anni.


Questo dedicare il tempo giusto al vino lo rende unico nel panorama degli autentici vignaioli, tra i pochi insieme a Mastroberardino e Di Meo a rispettare l'Aglianico senza forzarlo in alcun modo. Siamo su un territorio irrorato dal Vesuvio, il suo è argilloso, calcareo ma anche tufaceo, a circa 500 metri, quasi sul tetto della denominazione, ma in questo caso possiamo dire che il global warming favorisce questa viticultura che è sempre stata abituata a combatte con il freddo più freddo e le escursioni termiche più incredibili se ci sistemiamo con la testa a Sud. Lento pede, fra un travaso e un assaggio, Michele caccia i suoi vini nonostante l'enorme pressione commerciale: poco meno di 20mila bottiglie per nove ettari sono il risultato di un anno in vigna, mentre nella cantina quasi non si cammina per lo spazio occupato dalle diverse annate oltre che dalla squisita Coda di Volpe.


Questa bottiglia era dimenticata a casa, dentro l'anta di un mobile, protetta dalla luce e dai colpi di calore. La tiriamo fuori volentieri perché abbiamo ospiti non campani e la accompagnano a un sartù di riso fatto a mestiere, ossia con ragù e piselli, e un pollo che ha camminato molto avanti e indietro fra le vigne degli Astroni prima di finire al forno. Il Taurasi riserva appare subito pronto, non ha sentori di ridotto, il tappo è perfetto, neanche residui in fondo alla bottiglia e non abbiamo bisogno di fare sceneggiate con il decanter. Lo versiamo a inizio pranzo in bicchieri empi e tanto basta per farlo respirare.

Michele Perillo

Colpisce la frutta matura, l'amarena, immersa in piacevoli note balsamiche e segnata da un tono fumè. al palato i tannini sono vivaci ma ormai domati, la freschezza si sente e si percepisce subito come prima sensazione, prima del ritorno al palato delle promesse del naso La chiusura è lunghissima, piacevole. Un vino di potenza, magari oggi un po' fuori moda, ma assolutamente coerente con il suo progetto, in perfetto equilibrio nelle sue diverse componenti, con un legno magico che fa da comparsa senza sgomitare ne al naso e tanto meno in bocca.


Il tocco magico di Michele fa la differenza, una sensibilità innata che solo chi conosce le proprie uve può vantare. 
Il 2008, annata perfetta, scorre adagio in un pranzo che si protrae sino al tardo pomeriggio. Fuori piove. Tutto perfetto.

Ippolito 1845 ha presentato a Roma il progetto “Taste the Art”


Taste the Art, il nuovo progetto di responsabilità sociale d’impresa della storica azienda Ippolito 1845, è stato presentato questa settimana in anteprima a Roma.
La città eterna, per la naturale bellezza e per il legame ancestrale con la cultura, simbolo universale di arte e storia, è stata il palcoscenico per il lancio dell’ambizioso progetto che unisce vino, arte e territorio.


Un progetto a cui teniamo molto, nato durante la pandemia, quando di fronte alle difficoltà del periodo abbiamo voluto rispondere con una visione positiva ed energica, attraverso una voglia di spensieratezza che si è concretizzata in una linea di sei vini in edizione limitata, i più iconici dell’azienda, che presentiamo al pubblico per la prima volta in un’elegante ed inedita cassa in legno” racconta Gianluca Ippolito, uno dei tre titolari dell’azienda.

L’idea prende vita dall’incontro con il talento artistico di Enrico Focarelli Barone, in arte Frelly, giovane e promettente illustratore calabrese in grado di reinterpretare in maniera nuova e originale i vini dell’azienda mediante raffinate illustrazioni in cui passato e futuro si fondono in una visione creativa, scanzonata e surreale.

La sfida per me è stata riuscire a coniugare all’interno delle etichette modernità e tradizione” racconta Frelly. “Ho voluto creare delle illustrazioni che nascessero dalle etichette dell’azienda, che ne mantenessero la riconoscibilità, ma che al contempo la reinterpretassero attraverso il linguaggio dell’arte e veicolassero elementi simbolici del nostro territorio per far conoscere ancora di più la bellezza e la straordinarietà della Calabria”.

Il valore culturale del progetto però non si ferma qui ma ha come punto fondamentale la finalità sociale e territoriale. La vendita delle bottiglie, infatti, contribuirà alla raccolta di fondi a sostegno del restauro di opere artistiche e storiche del territorio calabrese. “Vogliamo restituire qualcosa al territorio nel quale la nostra azienda opera e lavora da più di 170 anni. Una forma di sostenibilità sociale mediante la restituzione di una parte dei profitti alla comunità nella quale viviamo” spiega Paolo Ippolito.

Gianluca Ippolito, Enrico Foscarelli Barole e Paolo Ippolito

Proprio durante la presentazione è stata resa nota l’opera artistica oggetto di restauro. “Abbiamo ricevuto il consenso dall’amministrazione comunale per poter procedere al restauro di un’opera storica situata a Cirò Marina. L’opera è la Fontana del Principe, appartenuta ai principi Spinelli, una fontana monumentale con 3 archi, oggi abbandonata e in completo stato di degrado” rivela Vincenzo Ippolito. “Vogliamo creare intorno a questa fontana un’oasi verde aperta al pubblico ma soprattutto dare un segnale forte, dimostrare che la sinergia tra pubblico e privato può e deve cambiare la mentalità del territorio e che questo cambiamento porterà a benefici non solo economici ma soprattutto sociali e culturali”.

Ippolito 1845

Con oltre 170 anni di storia, la cantina Ippolito rappresenta la più antica realtà vinicola oggi esistente in Calabria. Ubicata nel centro storico di Cirò Marina, cuore della viticoltura calabrese, l’azienda include una tenuta agricola di oltre 100 ettari, distribuita tra dolci colline e soleggiate pianure a ridosso del mar Ionio, situata nella zona classica del Cirò. Da sempre la mission aziendale è il recupero e la valorizzazione dei vitigni autoctoni quali il Gaglioppo, il Greco Bianco, il Calabrese, il Pecorello ed in ultimo il Greco Nero. Attraverso la costante ricerca, l’impiego di tecniche innovative, il diretto controllo di tutti i processi produttivi, l’azienda ricerca nei suoi vini l’eleganza, l’esclusività e l’identità con il suo territorio; luoghi di rara bellezza in Calabria, come la tenuta a Cirò Marina, la tenuta Feudo, la tenuta Difesa Piana e la tenuta Mancuso.



Enrico Focarelli Barone - Frelly

Enrico Focarelli Barone, alias Frelly, è un illustratore freelance di origine catanzarese. Laureato in Illustrazione all’Istituto Europeo di Design di Roma(IED) si è specializzato in character design e disegno editoriale. Lavora da molti anni sia nel campo dell’editoria che in quello della pubblicità. Colori pastello, linee semplici e mondi surreali, sono il filo conduttore delle sue illustrazioni concettuali dove sogno e realtà si incontrano. Collabora con agenzie, magazine, quotidiani nazionali e non, tra cui: il Corriere della Sera, Il Foglio, Food editore, Kiplinger’s Magazine, The Good Life Magazine Italia.

Terre de La Custodia - Sagrantino di Montefalco 2016


di Luciano Pignataro

Cosa meglio di un Sagrantino nel pieno della sua forma dopo sei anni, vigoroso e fresco, su un pollo arrosto podista e vegetariano? 


Legno e frutto ben integrati al naso, tannini presenti ma setosi che rendono 
piacevole la beva. Chiusura lunga e precisa. La bottiglia finisce troppo presto.

Alla scoperta dei vini biologici della Cantina della Collina!


di Luciano Pignataro

La voglia di conoscere questa azienda ci è venuta assaggiando il suo Piedirosso, il vino che per me resta emblematico della regione. Sin dal primo sorso comunica leggerezza e voglia di stare insieme attorno a una tavola, i profumi di geranio e di frutta rossa fresca esplodono al naso: insomma un rosso sottile e leggero, proprio come la moda sta richiedendo in tutta Italia dove siamo stanchi di sovraestrazioni e surmaturazioni più che delle stesse barrique usate oltre misura.


Scopriamo così che il Turci, questo è il nome, è una delle tre etichette della piccola azienda. Le altre due sono l’Aglianico, non a caso chiamato Cerzeta che in dialetto vuol dire quercia, e il bianco da uve Greco, Scorza. Tutti. Tre sono Campania igt.
Si tratta di due vini di prodotti nell’agriturismo Terranova, un vecchio casale del ’70 appollaiato su una colina a circa 450 metri di altezza fra i comuni di Solofra e di Montoro, lì dove inizia la Valle dell’Irno. Siamo ancora in provincia di Avellino, ma assolutamente fuori dalle storiche docg, a due passi dalla provincia di Salerno in un’area sconosciuta dal punto di vista vitivinicolo ma molto famosa in passato prima per l’industria tessile avviata da imprenditori svizzeri nell’800, poi dalla industria delle pelli che è ancora viva nonostante i periodi di crisi e che fa sentire la sua presenza quando si attraversa il comune di Solofra dalla superstrada che collega Salerno ad Avellino con il suo tipico odore di Zolfo.

Maria Buonanno

L’azienda è di proprietà della famiglia Buonanno e al timone c’è Maria che ha subito impostato la conduzione delle viti seguendo il protocollo della certificazione biologica attestandosi su una resa che oscilla fra i 50 e il 60 quintali per ettaro.
Per la zona è una novità, perché sino nessuno aveva imbottigliato secondo criteri moderni, l’avventura è iniziata con il nuovo impianto nel 2007 che circonda a terrazzamenti il casale con l’inizio della produzione nel 2010. L’antica casa colonica, ampliata nel rispetto della sua storia, accoglie diverse attività: una spaziosa soffitta ospita mostre fotografiche, workshop e spettacoli musicali; la sala al piano terra accoglie grandi o piccoli eventi. Quanto alla cucina, è quella rigorosamente contadina del Sud dove hanno un grande ruolo soprattutto le patate e la cipolla ramata di Montoro, ottima per cucinare la Genovese, tipico piatto napoletano.


L’agriturismo si chiama Terranova, l’azienda vitivinicola la Cantina della Collina per evitare confusione. Si tratta di una controtendenza rispetto ad una delle pochissime aree del sud con cui si è registrato un processo di industrializzazione autoctono e non indotto con i fondi pubblici. Nell’immaginario collettivo locale, per capirci, non è un luogo dove si può immaginare questa oasi di pace e di tranquillità convinta. La vinificazione di tutti e tre i vini avviene senza lieviti selezionati, l’unico materiale usato è l’acciaio. Del Piedirosso abbiamo detto. Anche l’Aglianico garantisce una croccante freschezza al palato, ha naturalmente un peso diverso sul palato e lo consigliamo direttamente su piatti strutturati. Buono anche il Greco fuori denominazione: fresco, con una grande spinta.


Insomma una piccola chicca facile da raggiungere perché vicina al raccordo autostradale che si rivela come una bella sorpresa per chi ama la verità dei prodotti e delle persone senza troppe pippe mentali.

InvecchiatIGP: Contrada Salandra - Falanghina dei Campi Flegrei 2010


di Carlo Macchi

Non so se Giuseppe Fortunato, deus ex machina di Contrada Salandra, sia fortunato, ma sicuramente è una di quelle persone che unisce il machiavelliano dettato di “Virtù e Fortuna”. La sua virtù è stata quella di abbandonare la laurea in ingegneria in un cassetto e farsi portare dalla passione, prima per il miele e poi per la vigna. La sua fortuna è stata quella di “ritrovarsi tra le mani”, assieme a sua moglie Sandra, Contrada Salandra. 


“I vini di una terra non sono merci ma racconti di vita”
questo è l’inizio del bellissimo cammeo riportato in retroetichetta (che vi consiglio di leggere in toto)  e la falanghina dei Campi Flegrei 2010 che ho aperto, regalatami da Giuseppe alcuni mesi fa, racconta la storia di un uomo virtuoso e di un vitigno che nel tempo è cresciuto, e da uva  per vini facili e immediati è divenuta mezzo per misurare quanto possa essere bello e complesso lavorare questo vitigno in un terra particolare, vulcanica, instabile ma di una stabilità storica ineccepibile, come i Campi Flegrei. 
“Falanghina vino da bersi giovane” era quasi un luogo comune fino a poco tempo fa, ma mentre questo luogo comune nasceva e si fortificava Giuseppe produceva questo incredibile 2010.


L’ho avvicinato con curiosità e rispetto, ma con la sicurezza di aver già degustato diversi ottimi vini di Giuseppe con molti anni sulle spalle.

Il risultato è andato aldilà delle previsioni.

Colore dorato brillantissimo, quasi a voler subito mettere le carte in tavola sul fronte della tenuta. La vera sorpresa è stato il naso: come ritrovarsi in montagna e annusare l’aria fresca e pungente, ma piena di aromi balsamici, di erbe, di fiori. Una serie di sensazioni che unite a note di pietra focaia presentano chiaramente le possibilità di invecchiamento della Falanghina nei Campi Flegrei. 


La bocca ha bisogno di un attimo per aprirsi: non punta certo sulla freschezza ma sull’equilibrio e sulla sapidità e più resta nel bicchiere e più si fortifica, si concentra, si assesta. Lo stava facendo perché sicuramente, di sottecchi, aveva visto che le stavo preparando una prova di quelle terribili, abbinandola a delle bruschette di pane toscano (con tanto aglio…) e con sopra del cavolo nero sbollentato e condito con olio extravergine d’oliva appena franto. 


Un piatto che potrebbe distruggere qualsiasi vino, ma la finezza aromatica ha prevalso anche sull’aglio e la paciosa ma decisa profondità e persistenza al palato è andata oltre l’olio nuovo. 
Quindi non solo una Falanghina di 12 anni che regge il colpo, ma che è talmente cazzuta che va oltre un abbinamento cibo-vino ammantato di sadismo gastronomico. Insomma, questa volta fortunato sono stato pure io!

Rosso Toscano "Il Lupinello": meno di un litro non lo bevi!


di Carlo Macchi

Il nome poteva essere “Vedi che si fa con sangiovese, canaiolo e trebbiano?” ma l’hanno chiamato Il Lupinello. 


Ma che si fa con queste uve? Un concentrato di profumi fruttati e vinosi, nonché di fresca piacevolezza, un corpo leggero ma teso e netto. Bottiglia da un litro, perché meno non ne bevi.