Luca Leggero – Canavese Nebbiolo DOC “Maura Nen” 2021


I social, se utilizzati correttamente, restano ancora oggi un formidabile strumento per promuovere il proprio lavoro e creare relazioni che altrimenti sarebbe difficile immaginare. Questo lo sa bene Luca Leggero, vignaiolo classe 1990, che proprio grazie a Instagram sta facendo conoscere ai suoi follower la propria attività e il vino che produce sulle colline di Villareggia, alle porte del Canavese. In questo territorio rurale, a pochi chilometri dalla più industriale Torino, Luca — che ha iniziato a lavorare tra le vigne del nonno e del bisnonno già all’età di 15 anni — fonda nel 2011 la sua piccola azienda agraria con l’obiettivo di creare, col tempo, una cantina che riporti in vita due eccellenze locali, guardando al futuro: il Nebbiolo, ottenuto dai cloni di picotendro, e l’Erbaluce.


"Ci sono voluti tantissimi anni - mi confida Luca - ma con la realizzazione della mia cantina, inaugurata nel 2021. il mio progetto ha finalmente preso forma. Dopo aver sognato e immaginato tutto questo, sono davvero felice di poter comunicare il frutto del mio lavoro: dalla progettazione dei vigneti all’impianto, dalla produzione delle prime uve agli esperimenti, fino alla creazione dei nostri vini. Vini che, oltre a possedere qualità organolettiche ben definite e rappresentative del territorio, devono essere sostenibili, soprattutto dal punto di vista ambientale, rivoluzionando le teorie e le pratiche dell’agricoltura e della vinificazione adottate negli ultimi cinquant’anni."


Infatti, i sei ettari di vigneto di proprietà di Leggero, piantati a picotendro ed erbaluce, a cui va aggiunta una piccola parte di dolcetto proveniente da Murazzano (Cn) dove si sta sviluppando un progetto di agricoltura sociale, sono gestiti secondo i principi dell’agricoltura biologica e biodinamica grazie all'utilizzo di microrganismi e macerati autoprodotti per la difesa e la fertilità naturale dei terreni sciolti tipici del Canavese.


In cantina – spiega Luca – lavoro per tutte le mie etichette selezionando le migliori masse che, ovviamente, vanno nel Maura Nen e nel Red Nen ma gli altri vini, ovvero il La Vila e il Turciatura non posso dire che sono vini base perché l’idea alla base della mia enologia è che tutti debbano avere un potenziale di invecchiamento importante”.


A parte il Langhe Dolcetto “Retro”, che fa solo ed esclusivamente acciaio, tutti i vini di Luca Leggero, vengono affinati attraverso l’uso di anfore e botti grandi di rovere.


L’utilizzo delle anfore – afferma Luca – è un omaggio alle antiche tradizioni vinicole, ma non solo. Questo approccio, utilizzato sia per i vini bianchi sia per i rossi, permette al vino di respirare e maturare gradualmente, dando vita a un prodotto più complesso e ricco di sfumature, senza però andare ad alterare gli aromi tipici delle uve. Inoltre, le anfore offrono un ambiente stabile e a temperatura costante, che aiuta a preservare tutte le qualità dei vini nel tempo. Le botti grandi in rovere da 25 e 50 hl, utilizzate esclusivamente per i rossi, permettono sia di lavorare sulla complessità del vino, sia di conferire maggiore volume e persistenza in bocca. Si tratta comunque di un utilizzo dosato, in quanto il lavoro in botte può variare dai 4 ai 6 mesi e al resto ci pensa l’anfora. Per l’Erbaluce, invece, dal 2023 stiamo usando in affinamento anche tonneaux da 500 litri per donare maggiore profondità al vino ma, a differenza dei rossi, si tratta di passaggi molto veloci, per non segnare troppo il vino, pari al 20% della massa totale”.


Tra i rossi di Luca Leggero, quello che mi è rimasto più impresso è senza dubbio il “Maura Nen” 2021. Il nome, che in dialetto piemontese significa “non matura”, racconta bene tutta la difficoltà e l’austerità del legame tra il territorio canavesano e il suo vitigno tradizionale. 


Nebbiolo in purezza dal colore brillantissimo, svela un bouquet elegante e profondo: si apre con profumi di rosa e violetta, che si intrecciano a note mature di prugna e ciliegia, mentre sullo sfondo affiorano accenni di artemia, achillea, accanto a sensazioni scure di terra e spezie. Il sorso è bevibilissimo, più persistente che massiccio, con grana tannica solida ma fine, in un contesto di rara piacevolezza. Bravo Luca!

InvecchiatIGP: Castello di Nipozzano - IGT Toscana Mormoreto 2007


di Lorenzo Colombo

Nel 2007 cadevano i 25 anni dalla prima produzione di questo vino frutto di un blend tra Cabernet Sauvignon, Merlot, Cabernet Franc e Petit Verdot, questi vitigni erano già stati messi a dimora presso il Castello di Nipozzano oltre 150 anni fa. Per l’occasione l’azienda dei Marchesi de Frescobaldi ne ha quindi prodotta un’etichetta speciale che riporta la scritta 25 e l’anno d’inizio della sua produzione ovvero 1983 e quello della vendemmia 2007.


Le uve provengono dall’omonimo vigneto (Mormoreto) situto nel comune di Pelago e messo a dimora nel 1976, la prima annata, come già detto, è del 1983 e già l’anno successivo non è stato prodotto, com’è pure avvenuto negli anni 1987, 1989,1992, 1998 e 2002, annate non considerate all’altezza. Il vigneto è situato tra i 250 ed i 300 metri d’altitudine con esposizione sud, vi si trovano due tipi di suoli, i primi sono prevalentemente sabbiosi e ricchi di calcio, i secondi sono costituiti da alberese, ricchi di calcio e con molte pietre. Il sistema d’allevamento è a Cordone speronato con densità d’impianto di 5.800 ceppi/ettaro.


L’annata 2007 è stata caratterizzato da una primavera e da un autunno temperato, con poche precipitazioni. Il mese di luglio è stato molto caldo nella sua prima metà poi le temperature si sono abbassate e ad agosto ha piovuto molto. La maturazione delle uve è avvenuta in ottime condizioni climatiche con giornate calde e soleggiate e notti fresche. Il blend nell’annata 2007 è così costituito: 60% Cabernet sauvignon, 25% Merlot, 12% Cabernet franc e 3% Petit Verdot. Dopo la fermentazione alcolica e la malolattica il vino è stato posto in barriques di rovere prodotte sia con doghe segate che spaccate in parte nuove ed in parte usate, dov’è rimasto per 24 mesi ai quali ne sono seguiti altri sei di sosta in bottiglia.


Ne abbiamo scovata in cantina una bottiglia, in realtà di tratta di una bottiglia da 375 ml che, se ricordiamo bene, ci era stata omaggiata in azienda durante una nostra visita di molti anni fa. L’abbiamo affrontata con un certo timore – era già pronta una bottiglia di riserva - poiché temevamo sulla sua tenuta nel tempo.
Le mezze bottiglie non sono infatti l’ideale per un lungo invecchiamento dei vini, il diametro del loro collo, e di conseguenza il tappo usato, sono gli stessi delle classiche bottiglia da 750 ml, di conseguenza il passaggio d’ossigeno rapportato al contenuto di vino è percentualmente il doppio e questo causa in genere un invecchiamento più precoce. Fatto sta che in questo vino questo fenomeno non ne ha assolutamente inficiato la qualità.


Il tappo, come potete notare dalla foto, è uscito integro e senza nessun segno di colatura, nonostante la bottiglia sia sempre stata conservata coricata.
Altra bella sorpresa l’abbiamo avuta dal colore, di un granato profondissimo, con unghia ancora viva e vivace che sfumava impercettibilmente su note aranciate. Ma è al naso che maggiormente ci ha colpiti, ampio, elegantissimo, senza alcuna sbavatura né impercettibile nota ossidativa, anzi.


Di discreta intensità olfattiva ha i suoi punti forti nell’ampiezza e nell’eleganza dei profumi, terziari ovviamente data l’età, anche se non mancano i sentori fruttati che rimandano alla prugna matura, quasi secca, e alla ciliegia matura, le note sono autunnali, con sentori di sottobosco e humus, balsamiche, con note di spezie dolci, vaniglia, accenni di caffè e cioccolato che ci hanno ricordato i pocket coffee, cogliamo inoltre leggerissimi accenni di liquirizia, pepe e salamoia e note mentolate.


Buona la sua struttura, il vino è asciutto, con tannino ancora vivo e graffiante, il caffè in povere emerge netto accompagnato da sentori di cioccolato e menta, ritroviamo inoltre sia le note di prugna che di ciliegia e gli sbuffi di pepe, buona la sua vena acida come pure la persistenza. In definitiva un gran bel vino.

San Lorenzo - Bergamasca Igp Moscato Giallo “Sentiero del Chignolo” 2022

di Lorenzo Colombo

Tra le numerose varietà di moscato il Moscato giallo è ben presente nella bergamasca spesso dando ottimi risultati.


Come nel caso di questo vino vinificato secco nel quale si colgono sentori d’agrumi e di pesca gialla e, nel fin di bocca, le tipiche note aromatiche del vitigno, soprattutto la salvia.

A lezione di "vini" a ridotto o zero contenuto alcolico


di Lorenzo Colombo

Con il decreto MASAF numero 672816 del 20 dicembre 2024 anche i produttori italiani avranno la possibilità di produrre e commercializzare vino dealcolato. Fino ad ora la produzione di questa tipologia di vini era consentita, ma gli operatori dovevano provvedere ad eseguire la trasformazione in Paesi terzi dove questo procedimento era già ammesso.


Ci siamo quindi accostati con molto interesse alla Masterclass che si è tenuta in apertura del 27° concorso enologico Le Mondial des Vins Blancs, svoltosi gli scorsi 5 e 6 aprile a Strasburgo, interessante lezione dal titolo “Les vins sans alcool” condotta da Bruno Marret, enologo e direttore dell’azienda Côte de Vincent, alla fine della quale abbiamo potuto degustare cinque vini dealcolati.

Bruno Marret

Bruno Marret vanta una notevole esperienza nella dealcolizzazione dei vini, ha infatti prodotto il primo vino (rosso) analcolico dell’azienda Côte de Vincent nel 2002, il motto di quest’azienda recita “Lasciatevi tentare da un nuovo stile di vita, libero dai rischi e dalle conseguenze dell’alcol.” Al di là di quanto assaggiato la lezione è stata decisamente interessante - anche se non abbiamo condivisa in toto quant’espresso - ed ha toccato numerosi aspetti relativi a questa tipologia di vini che ultimamente fa tanto discutere. Ecco un sunto da quant’espresso da Marret che ha iniziato la sua relazione elencando le tre diverse tipologie di vini a basso e/o ridotto contenuto alcolico e senza alcol, le loro caratteristiche e la loro posizione dal punto di vista legislativo.

1) Vini dal contenuto alcolico ridotto: diminuzione del livello alcolico (massimo 20%)
Nessun obbligo di menzione in etichetta (purché rientrino nei limiti minimi alcolici dati di disciplinari di produzione). Si tratta di vini leggeri con caratteristiche organolettiche vicine ai vini da cui derivano.

2) Vini parzialmente dealcolizzati (Low Alcol): la gradazione alcolica dev’essere compresa tra lo 0.5% ed il 9%. Forte impatto sul gusto e grande differenza rispetto ai vini d’origine. Subiscono una forte concorrenza dalle birre e da altre bevande a basso contenuto alcolico.

3) Vini dealcolizzati (no Alcol): gradazione alcolica inferiore allo 0,5%. Non possono rivendicare una denominazione. E’ vietato avere 0% d’alcol, avvero gli analcolici. Forte impatto sul gusto (il che richiede un’educazione). Subiscono la concorrenza con i succhi.

Marret ha poi menzionato i principali momenti storici ed evolutivi di questa particolare tipologia di vini, spingendosi sino ad un ipotetico loro futuro:

1908 – Creazione del primo processo di dealcolizzazione

1970 – Creazione di vino liofilizzato (in polvere) analcolico

1988 – Creazione di due nuovo processi di dealcolizzazione

2002 – Importante lancio economico dei vini analcolici in Francia

2029 – Nuove cose da scoprire

2035 – Il vino analcolico diventa parte delle abitudini del consumo quotidiano

Si è quindi soffermato sulle principali bevande alcoliche preferite dai francesi nel 2024:

Vino - 60%

Birra - 58%

Champagne - 39%

Cocktails - 31%

Sidro - 22%

Altre bevande alcoliche -21%

I non consumatori di bevande alcoliche sono il 14%. I giovani dal 18 ai 25 anni sono il 23%. Ha poi evidenziato che nella maggior parte dei paesi il consumo d’alcol è diminuito, ecco i dati del 2000 e del 2021 in numero di bottiglie:

Francia da 96 a 61

Italia da 85 a 62

Portogallo da 71 a 69

Spagna da 54 a 32

Nota: i dati forniti sono piuttosto diversi da quanto si ritrova in altre pubblicazioni.

Ecco poi la situazione in Francia tra il 2022 ed il 2023:

Un francese su cinque non consuma alcol

E’ aumentato del 25% il numero dei bevitori moderati

Il 24% dei giovani tra i 18 ed i 25 anni non consuma bevande alcoliche

Il 52% dei francesi prevede che consumerà meno alcol

Marret fornisce poi i dati economici relativi al mercato mondiale del “senza alcol” che è di 11 miliardi di dollari.

Sono quindi stati descritti i tre metodi di dealcolizzazione attualmente utilizzati, il loro processo ed il risultato ottenuto

1) Distillazione sottovuoto a bassa temperatura

Evaporazione: Si parte dal concetto che quando un liquido viene scaldato ad un certo punto cambia il suo stato che diventa da liquido a gassoso

Sottovuoto: più si abbassa la pressione più si abbassa la temperatura d’evaporazione.

Cosa succede al vino: semplificando il vino è un mix tra acqua e alcol e le due sostanze hanno temperature d’evaporazione diverse.
Alla normale pressione atmosferica l’evaporazione avviene a circa 78°C per l’alcol e a 100°C per l’acqua.

La dealcolizzazione: ponendo il vino sottovuoto possiamo far evaporare l’alcol a 35°-40°C pur preservando gli aromi

Si ottengono così due prodotti:

· Vino dealcolizzato

· Alcol per produrre delle bevande alcoliche

2) Osmosi inversa

Il sistema permette di separare l’alcol dal resto del prodotto attraverso il passaggio in specifiche membrane. Da una parte di ottiene una miscela d’acqua ed alcol e dall’altra troveremo tutti gli altri componenti del vino molto concentrati.

Reidratazione: a questo punto si separa ed elimina l’alcol dall’acqua attraverso il processo sopra descritto di diversa temperatura di evaporazione dei due elementi oppure utilizzando un sistema ad osmosi a membrana.


Anche in questo caso si ottengono due prodotti:

· Vino dealcolizzato

· Alcol per produrre delle bevande alcoliche

3) Colonna a coni rotativi

Anche con questo sistema il processo prevede sia il sottovuoto come la bassa temperatura. I coni rotanti, creando una maggior superficie di contatto facilitano la distillazione dell’etanolo e della parte aromatica (che avviene e diverse temperature). La parte aromatica viene poi ricomposta con l’acqua.


Si è quindi passati all’assaggio di cinque vini, un bianco effervescente, un bianco fermo, uno rosa e due rossi, vini dei quali non andiamo a scrivere, non avendoli trovati particolarmente attraenti. Entrando più in profondità abbiamo trovato il vino effervescente e quello bianco accettabili “con riserva” mentre sulla qualità degli altri numerosi dubbi permangono, perlomeno questa è la nostra opinione.

InvecchiatIGP: Azienda Agricola Romeo - Vino Nobile di Montepulciano Riserva DOCG Riserva dei Mandorli 2001


di Stefano Tesi

Lo ammetto: mi sono quasi commosso quando dalla polverosa cantina ho tirato fuori questa bottiglia di un caro amico che, purtroppo, non vedo da molto tempo. Anche perché da anni ha ceduto l’azienda cui ha dedicato lunghi meritevoli energie e passione, fatto di cui sono stato testimone diretto. Per il Nobile erano altri tempi, in un certo senso ingenui, tutto pareva andare in una certa direzione e, francamente, stappando questa Riserva non sapevo che aspettarmi. C’erano fermento e tensione, all’epoca. Confidavo insomma nel vino e nel produttore, ma dopo 24 anni che avrei trovato? Temevo un vinone esausto, speravo in un vino vibrante. 
In retroetichetta leggo che fu fatto con Prugnolo Gentile, Mammolo e Colorino, “invecchiato il tonneaux e piccole botti di rovere”. Non restava che procedere.


L’ho aperto con un paio d’ore d’anticipo e ho trovato un tappo integro, quasi perfetto, che però si è spezzato a metà sul più bello per un difetto strutturale. 
Al momento clou, lo verso nel calice e vedo un rubino intenso, pieno e caldo, con un’unghia appena aranciata che certamente non tradisce la veneranda età. Nonostante l’ossigenazione, il naso è fatalmente chiuso all’inizio, ma dopo dieci minuti di permanenza nel bicchiere ed alcuni vigorosi scossoni si apre con un bel frutto maturo e una nota asciutta che solo alla fine concede qualcosa a note terziarie, ma non tracimanti, di liquirizia, terra, sottobosco, grafite e appuntalapis (sorridete pure, ma è così: chi ha fatto le scuole elementari nei tempi giusti sa di cosa parlo), per poi discendere di nuovo su accenni di frutta cotta e prugna.


In bocca, la sorpresa: preconizzavo un vino stanco, lo trovo invece sì solenne e ampio, ma più che vivo, ampio, con avvolgenti note affumicate e poi balsamiche, tutt’altro che seduto, anzi sorprendentemente pimpante, con accenni di freschezza, pienamente integro e un nerbo complessivo, un cipiglio quasi severo, che colpisce e spiazza. Il finale è lungo, con un vago retrogusto di caffè americano. Ed estremamente godibile sullo stracotto domestico ammannitomi dalla consorte per la circostanza. Promosso a pieni voti e con un po’ di amarcord.

I'M Winery - Amurg Zero Feteasca Alba Pas Dosè


di Stefano Tesi

M’era parso interessante già nel caos della tappa fiorentina di Proposta Vini. Risentito con calma questo Metodo Classico moldavo fatto con 100% Feteasca Alba, dai riflessi verdognoli, di marcata varietalità, piacevolmente acidulo e discretamente profondo, m’è piaciuto anche di più. 


Promosso

Pievi: il Nobile di Montepulciano tra ieri, oggi e domani


di Stefano Tesi

Inutile nasconderlo: il progetto “Pievi”, ossia la tipologia “top” di Nobile di Montepulciano creata nel 2020 con lo scopo di esaltare la territorialità del vino, era rimasto finora, agli occhi di stampa e osservatori, una sorta di oggetto misterioso. Non era facile coglierne la logica, i criteri e le prospettive, anche per le molte difficoltà concettuali e formali incontrate nel tempo da un disegno basato sull’articolata combinazione delle vocazioni geologico-storico-agronomiche-paesaggistiche dell’area e concepito suddividendola in dodici U.G.A. (Unità Geografiche Aggiuntive) facenti capo ad altrettante sottozone, individuate ricalcando l’antica scansione plebana del territorio poliziano.


L’unica certezza era che l’operazione mirasse ad essere la leva necessaria per risollevare le sorti di una denominazione sì prestigiosa ma in crisi di identità e in crescente difficoltà, aggravata da un’economia locale fortemente enocentrica (“circa il 70% è un indotto diretto del vino”, rimarca il presidente del Consorzio, Andrea Rossi) e con numeri non trascurabili: 1 mld di euro di valore totale, 65 milioni di euro di valore medio annuo della produzione, 1.200 ha di vigneto a Nobile, 390 a Rosso, oltre 250 viticoltori, 6,7 milioni di bottiglie di Nobile e 2,3 milioni di Rosso immessi annualmente sul mercato, con una previsione produttiva per il Pievi di circa 600 mila bottiglie all’anno ad un prezzo sul mercato (dice un sondaggio Nomisma) tra i 40 e il 100 euro. Ma se nemmeno oggi, in verità, possiamo garantire che sotto il profilo del successo commerciale e di immagine l’operazione sarà destinata a riuscire nell’intento, possiamo invece ascriverci tra quelli che ne hanno capito la filosofia. Filosofia complessa, ma a nostro giudizio lungimirante.


Il merito di averla resa finalmente comprensibile va all’accurata presentazione che (approfittando di una manifestazione allargata a due giorni nell’ambito delle ultime Anteprime toscane) il Consorzio è riuscito a organizzare in occasione dell’Anteprima 2025 del Vino Nobile, a seguito dell’ok sul testo del disciplinare dal Comitato Nazionale Vini del 10 ottobre 2024 e del conseguente decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 5 febbraio scorso, in base al quale la nuova tipologia è potuta andare in commercio quest’anno con l’annata 2021.


Diciamo subito che, per dare un giudizio qualitativo sui prodotti degustati, ci pare oggettivamente presto: le sedute di assaggio riservate ai giornalisti hanno avuto una funzione più che altro didattica, con un panel di soli 19 campioni che non poteva essere considerato significativo. In tal senso sarà molto più probante quello dell’anno prossimo, quando sulla carta potrebbero essere oltre 60 le etichette di “Pievi” sul mercato e, quindi, in preview. Si può comunque già dire che da un lato le differenze tra le diverse U.G.A. sono apparse all’assaggio piuttosto marcate e che, dall’altro, non si sono troppo avvertite certe sfasature stilistiche aziendali che da sempre rappresentano uno dei punti deboli delle altre tipologie di Nobile.


Al di là di questo, la parte più interessante della presentazione è stata quella teorica, allestita nel Tempio di San Biagio (chapeau per la location e l’organizzazione), che ha ripercorso la genesi concettuale del progetto attraverso l’approfondimento degli elementi geologici, storici e enologici.

L’idea di creare la nuova menzione nasce da un iter metodologico che ha visto la partecipazione di tutte le aziende produttrici”, sottolinea il direttore, Paolo Solini, “e che ha portato alla nascita di una visione univoca del nostro vino, supportata dalla ricerca di esperti e anche da evidenze geologiche e pedologiche. A questo reticolo tecnico si è poi sovrapposta, con sorprendente esattezza, la realtà storica emersa dalla consultazione di biblioteche e archivi storici. Da ciò nascono le U.G.A.: Ascianello, Badia, Caggiole, Cerliana, Cervognano, Le Grazie, Gracciano, San Biagio, Sant’Albino, Sant’Ilario, Valardegna e Valiano”.

Queste coincidono con le “comunità distrettuali” del territorio poliziano già individuate catastalmente nel 1823 e determinate dalla progressiva convergenza di fattori storici, geologici, topografici e toponomastici, capaci di determinare le caratteristiche generali del vino, anche a prescindere dai diversi stili aziendali. In questo senso il disciplinare è rigido: la corrispondenza al tipo del vino destinato a diventare “Pieve” deve’essere valutata, prima dei passaggi previsti dalla normativa, da una commissione consortile interna composta da enologi e tecnici. L’uvaggio è vincolato a un 80% di Sangiovese e ai soli vitigni autoctoni complementari ammessi dal disciplinare, con uve esclusivamente prodotte dall’azienda imbottigliatrice.

La parte meno tecnica ma forse più affascinante dell’intera vicenda è però un’altra.

A un certo punto delle ricerche condotte negli anni dalla Società Storica Poliziana per ricostruire la vicenda del Vino Nobile e delle sue articolazioni sul territorio, infatti, nell’archivio della curia arcivescovile ci si è imbattuti in un paio di documenti tanto inediti quanto di fondamentale importanza, entrambi risalenti alla fine del ‘600: il taccuino con cui lo scrivano Niccolò Barbieri riportava, sotto dettatura del priore del convento di Sant’Agnese, Alessandro Mucotti, le tecniche agronomiche ed enologiche usate per produrre il vino di Montepulciano e il libretto “Rubri Apud Politianos Vini Confectio” (“L’Arte di preparare il vino a Montepulciano”) scritto dal celebre gesuita Rodolfo Acquaviva, Rettore del Collegio Poliziano tra il XVII e XVIII secolo.


Si trattava, in entrambi i casi, di veri e propri vademecum enologici destinati ai conventi, o meglio a chi, in questi, sopraintendeva alla produzione di uva e vino. Ruolo importantissimo, considerato che all’epoca agli enti religiosi era affidato il compito di produrre vino destinato ai nobili e che ai religiosi medesimi facevano capo realtà produttive importanti e strutturate. “Quelle annotazioni così approfondite e dettagliate, sebbene basate su osservazione empiriche, prive cioè di qualsiasi fondamento scientifico, dimostrano che nella realtà della Montepulciano dell’epoca già sussistevano una maestria, un’attenzione alle tecniche, una consapevolezza delle differenti vocazioni e consuetudini di zone, climi e suoli del comprensorio assolutamente sorprendenti. I due testi costituivano anche, senza saperlo ovviamente, una sorta di zonazione ante litteram la cui bontà è stata riconfermata dal fatto che le scansioni territoriali tracciate nei manoscritti sono passate, quasi immutate, nei catasti successivi”, spiega con passione il vicepresidente del consorzio, Luca Tiberini. “Barbieri infatti – insiste – scriveva sotto dettatura del suo priore, il quale a sua volta veniva sollecitato dal potere ecclesiastico, destinatario dei benefici economici derivanti dal commercio del vino di qualità. Ecco perché il vescovo raccomandava di raccogliere e trascrivere le esatte tecniche agronomiche e enologiche a cui si ricorreva nelle singole pievi facenti capo ai diversi conventi. Il tutto in conseguenza dell'indirizzo “filosofico” indicato da Acquaviva e sfociato nella necessità per la chiesa di avere norme ed indirizzi codificati che permettessero un prosieguo sicuro ed efficace alla produzione di vino nelle proprietà condotte dalle varie congregazioni. Il tutto nel quadro di ricco ed efficace commercio che a quel tempo si faceva in tutta Europa con il vino Nobile”.

La storia, insomma, continua.

InvecchiatIGP: Tenuta del Cavalier Pepe - Irpinia Coda di Volpe DOC "Bianco di Bellona" 2005


di Luciano Pignataro

“Ciao Milena, sto bevendo il tuo Coda di Volpe di vent’anni fa sulla cucina di mare di Alessandro Feo a Casal Velino nel Cilento. Perfetto!”. 

“Il 2005? E’ la mia prima vendemmia, sono contenta!!!".

Caspita, è il caso di dire, come vola il tempo. E il vino è uno dei suoi marcatori che possono declinarsi in presente, passato e trapassato remoto. Nel senso che bere i vini prodotti prima della tua nascita (ormai evento rarissimo) ti regala un senso di stupore e di immortalità. Bere i vini del passato da quando hai coscienza di cosa significa bere il vino matura un esercizio di memoria e di compiacimento tali da renderli contemporanei. Bere vini che misurano il tempo di un presente che ritenevi tali ma che è invece è misura del tempo che tu, oltre al vino, hai trascorso mette un po’ di ansia.


Sembra ieri, infatti, di quando scrivemmo di una giovane ragazza con l’accento francese declinato in musicalità irpina veniva mandata dal papà Angelo a creare l’azienda di famiglia. Sembra ieri quando Milena ci parlò del Coda di Volpe piantato in grande quantità perché bianco tipico del territorio taurasino (ricordiamo l’Alopegis di Molettieri) e invece, cacchio, sono passati venti anni, venti. E il bianco che avevamo conservato sta in una forma sicuramente migliore della nostra che lamentiamo i primi veri acciacchi della vecchiaia umana.

Milena Pepe

Invece questa cazzo di Coda di Volpe si, è uscita con un colore giallo paglierino carico, vivo ma non spenti, ma si è presentata all’appuntamento perfetta, integra, a cominciare dallo stappo, con ancora l’acidità vibrante che manteneva il ritmo del sorso, il naso ricco di idrocarburi come sempre avviene con i bianchi irpini che superano i dieci anni, in una cornice di cedro candido e di miele di castagno, la beva lunga, corposa, entusiasmante, piacevole.


Cosa dire? Certo non è la prima volta che parliamo di Coda di Volpe in grado di sfidare il tempo e di evolvere bene negli anni. Lo stesso Bianco di Bellona di cui parliamo lo avevamo degustato in una verticale del 2017 e già allora eravamo rimasti stupiti dalla tenuta magnifica. Immaginate allora la sorpresa dopo vent’anni.
Soprattutto in considerazione di due fattori: il primo è che avrebbe potuto sicuramente tenere botta per almeno quattro, cinque anni per quanto era vivo e vegeto nel bicchiere. Secondo, se pensiamo ai nostri primi passi nel mondo del vino quando questa uva era usata per abbassare l’acidità di fiano e greco, allora capiamo come sia evoluta la viticultura negli ultimi anni in grado di fare esprimere vitigni meno commerciali in un modo stupendo. 


C’è bisogno di raccontare le belle esperienze fatte con il Coda di Volpe di Perillo in Irpinia e di Fattoria La Rivolta nel Sannio? Che dire? Bisogna crederci fino in fondo, perché è un peccato usare il petrolio solo per accendere candele e non per far correre una Ferrari. Cazzo!

Tenuta Cobellis - Paestum Greco IGP Thumòs 2024


di Luciano Pignataro

Il Greco del Cilento non ha la mineralità esasperata di quello irpino ma non per questo ha meno carattere e potenzialità di abbinamento.


Coltivato su terreno argilloso a 300 metri alle falde del Monte Gelbison dall’azienda Cobellis, il 2024 si presenta energico, buon frutto al naso, beva lunga e gratificante.

Tenuta San Francesco - Costa d'Amalfi doc Rosato 2021


di Luciano Pignataro

Il tiepido solo primaverile accentua la tendenza degli appassionati verso i bianchi e i rosati. Purchè, aggiungo, abbiate dato il tempo a queste bottiglie di maturare e di riequilibrarsi. Oggi agli amici di questa rubrica storica ho deciso di proporre una delle mie ultime fisse: i rosati evoluti per qualche anno sul modello Lopez de Heredia che in Italia, almeno per quel che conosco, non esistono ancora. Ci sono però degli esperimenti, non so se voluti o casuali come avveniva sino a qualche anno fa con i bianchi che vanno in questa direzione.


Il rosato che allunga il passo nel tempo diventa qualcosa di etereo, elegante, fine e al tempo stesso accentua la sua predisposizione ad abbinamenti molteplici e, anche, ad una accoglienza più ecumenica in una tavola dove non ci sono solo appassionati. Facevo queste riflessioni di fronte a questo bicchiere prodotto da Tenuta San Francesco, un piccola azienda di Tramonti, l’anima contadina della Costiera amalfitana dove sino agli anni ’70 la gente scappava per non morire di fame, che ha avuto il grande merito di recuperare una viticoltura eroica grazie alla testardaggine del suo fondatore, Gaetano Bove, medico veterinario e grande appassionato.


La sua collaborazione con Carmine Valentino, enologo irpino di grandissima esperienza e poco mediatico, ha regalato in questi anni una batterie di vin indimenticabili, da È iss, un tintore da viti giganti a piede franco, al Per Eva, una vigna di falanghina, pepella e ginestra a 600 metri che regala un bianco immortale. I suoi rosati per alcuni anni si sono adeguati allo storico delle aziende della Costiera Amalfitana, territorio che vantava una certa tradizione grazie ai Vini Gran Caruso degli anni ’60 adorati dal jet set che frequentava le rocce bagnate dal mare navigando sui Riva in legno.


Lo stile di questo rosato di quattro anni fa è diverso, il colore vira sul colore cipolla, il naso premia le note balsamiche e mediterranee lasciando il fruttato in sottofondo, ma soprattutto colpiscono l’eleganza al palato, la finezza, il tono sapido, senza concessioni piacione, con un finale amarognolo che ripulisce bene la bocca. Viene da uve tintore e piedirosso coltivate fra i 300 e i 600 metri di altezza vinificate in acciaio dove sostano circa otto mesi prima di essere messe in bottiglia altri due mesi.


La bevuta di questa bottiglia così gratificante dimostra una grande evoluzione e soprattutto un tono giovanile, vigoroso, che non ha alcun cedimento ossidativo e neanche segnala stanchezza sul colore. Il vino, così equilibrato dalla giusta quanto inaspettata attesa nella mia cantina, ha sposato una aragosta di Palinuro accompagnata da verdure dell’orto di Maria Rina, la patron del ristorate il Ghiottone, dal 1978 riferimento sicuro nel Golfo di Policastro, lì dove si incontrano l’ultima Campania, la Basilicata e la Calabria con montagne a picco sul mare.
C’è tanto da lavorare, ma siamo sicuri che i risultati saranno pazzeschi.

Origine Number 1: il primo cognac della collezione privata Maze Churchill è pura delizia per il palato


Nel panorama esclusivo dei distillati di pregio, poche storie catturano l'immaginazione con la forza e la singolarità di quella della famiglia Maze Churchill. Radicata nel cuore della regione di Borderies, l'area più piccola e considerata uno dei "cru" più pregiati di Cognac, la loro produzione di "eaux-de-vie" di alta qualità trascende la semplice tradizione; è la celebrazione di un incontro storico e di un'eredità tramandata con passione attraverso generazioni.


La narrazione si apre in un contesto inatteso e drammatico: le trincee della Prima Guerra Mondiale. Fu in questo periodo di sconvolgimenti e sofferenze indicibili che Paul Maze, figura di spicco della pittura post-impressionista, incontrò Winston Churchill. Le prime linee del fronte occidentale, teatro di orrori inimmaginabili, divennero così il luogo di nascita di un'amicizia, cementata dalla condivisione non solo delle difficoltà della guerra, ma anche di un amore profondo e condiviso per l'arte pittorica. 


Questo legame, forgiato nel fuoco della storia, era destinato a perdurare oltre il conflitto, unendo indissolubilmente le due famiglie che il destino volle far incontrare di nuovo anni dopo quando Robert, nipote di Charles Spencer-Churchill, nono Duca di Marlborough e cugino di Winston, incontrò Jeanne, nipote di Paul Maze, e figura di spicco della pittura post-impressionista. 


In questo incontro, si riconobbe un'eco potente delle eredità dei loro nonni, un'affinità profonda che li unì in un nuovo, significativo percorso familiare e imprenditoriale. Oggi, Jeanne e Robert, insieme ai figli Jack e Ivor, custodiscono e perpetuano questo straordinario patrimonio nel Domaine de Montplaisir, situato proprio nel cuore della regione francese del Cognac dove, grazie ad un terreno argilloso-calcareo, si producono raffinati distillati di grande eleganza floreale.


È in questo contesto che nasce il progetto "Les Étapes de L'Esprit", l'esclusiva collezione di Cognac presentata nei giorni scorsi con orgoglio dalla famiglia Maze Churchill. Questa collezione, prodotta in edizione limitata, sarà composta da cinque bottiglie, una per ogni anno a partire dal 2025, ed ogni Cognac ha il compito di rappresentare una fase del ciclo vitale della vigna: germogliamento, fioritura, allegagione, invaiatura e, infine, vendemmia.


Il primo atto di questo percorso è rappresentato "Origine Number I", un Cognac di assoluto livello prodotto tramite un blend di due eaux-de-vie invecchiate in media 35 anni, che racchiudono gli aromi senza tempo caratteristici dei Cognac di altissima qualità prodotti nella zona delle Borderies a partire da uve Ugni Blanc.


La degustazione di "Origine" è un'esperienza che coinvolge tutti i sensi. Il colore ambrato con riflessi ramati anticipa un bouquet complesso, dove si intrecciano note di nocciola, caramello, noce moscata, cannella, vaniglia e un tocco di agrumi. Al palato, si rivela rotondo e ricco, con un complesso gioco di frutta candita e spezie. Il finale speziato, secco e deciso aggiunge vivacità e luminosità, rendendo questo Cognac adatto sia ai palati classici che a quelli più moderni.

InvecchiatIGP: Oddero Poderi e Cantine - Barolo Vigna Rionda 2005


di Carlo Macchi

Da pochi giorni è scomparso Giacomo Oddero. Aveva quasi 100 anni ed è stato uno dei personaggi che ha dato una grossissima mano a costruire la Langa che noi oggi conosciamo. Grazie a lui sono state realizzate molte opere, tra cui l’acquedotto che oggi porta l’acqua in Langa e che 50 anni fa era ancora un sogno. L’ho intervistato pochi anni fa, durante il periodo del Covid, e sicuramente è stata una delle più belle interviste che abbia mai fatto.


La mia storia nel vino si è incrociata molte volte con il dottor Oddero ma ricorderò sempre la prima, quando ebbi la fortuna di assaggiare uno dei vini che mi hanno fatto amare in maniera incondizionata il nebbiolo: sto parlando del Barolo Vigna Rionda 1990. Così per ricordarlo sono sceso in cantina alla ricerca di una sua bottiglia e mi sono imbattuto in un altro Vigna Rionda, quello del 2005.


La 2005 non è certo passata agli annali con la stesso curriculum della 1990: siamo di fronte ad un’annata difficile, con due settimane di pioggia all’inizio di settembre e una ad inizio ottobre. Da gennaio a ottobre a Serralunga ci furono 42 giornate di pioggia ma comunque una sommatoria termica gennaio-settembre poco inferiore a 2000 parla di una vendemmia difficile ma con buone possibilità per chi aveva saputo lavorare in vigna e intervenire nei momenti giusti. Per quanto riguarda Winesurf, dopo gli assaggi dei Barolo 2005 parlammo di annata equilibrata e abbastanza pronta, che avrebbe potuto dare in alcuni casi ottimi risultati in invecchiamento grazie ad un equilibrio che già si intravedeva al momento dell’entrata in commercio. Serralunga è considerata la terra del Barolo con più “tannoni”, ma sinceramente c’ho sempre trovato vini con un equilibrio invidiabile, specie quando si parla di Vigna Rionda e in particolare quando si affianca il Nnome Oddero (Oddero Poderi e cantine) a questo vigneto.


Questo 2005 mi ha confermato al colore che siamo ancora in piena giovinezza, dimostrandolo anche al naso dove accanto a note di china e rabarbaro troviamo ancora frutto rosso e un alcol indubbiamente importante ma ben bilanciato. In bocca i tannini sono fitti e ancora in parte da domare, ma accanto a una incredibile freschezza la beva è sostenuta, piacevolissima e di notevole persistenza. Il corpo non è certo imponente ma nel complesso il vino si dimostra dinamico e ancora giovanissimo.

Caro dottor Oddero, non dico che questo 2005 arriverà alla veneranda età in cui ha deciso di lasciarci, ma sono convinto che darà grandi soddisfazioni per almeno altri 20-25 anni.

Galliussi - Friuli Colli Orientali Sauvignon Portis, 2021


di Carlo Macchi

Ennesima dimostrazione lampante che nei Colli Orientali si producono grandi Sauvignon! 


Naso praticamente perfetto con gli aromi classici del vitigno, ben maturi e complessi. Bocca fresca, ampia, profonda. Una goduria assoluta che viene da una nuovissima azienda partita con “entrambi i piedi giusti”.

Il Belvedere a Montegrotto Terme è una piccola perla enogastronomica sulla strada dei Colli Euganei


di Carlo Macchi

A prima vista sembra il classico locale da banchetti: posto panoramico, grande parcheggio, sala molto grande ben apparecchiata ma senza sfarzi inutili, grande terrazza panoramica per il periodo estivo. In effetti il Belvedere a Montegrotto Terme E’ (anche) un locale da banchetti, ma con una sorprendente anima gourmet che dal 1962, anno della sua nascita, è rimasta praticamente intatta. Lo si capisce strada facendo, anzi “pranzo facendo”, ma la dimostrazione arriva alla fine, quando ordini il dolce e ti arriva un millefoglie con una crema pasticcera da urlo, a cui anche Iginio Massari avrebbe fatto l’applauso. Chiedi quale pasticceria faccia quella bontà e ti rispondono che la fanno loro da sempre, è un dei vanti del locale.


Siamo sulle colline di Montegrotto Terme, nei Colli Euganei, e dal belvedere del Belvedere si può spingere l’occhio fino al mare, oppure spingere il naso verso la cucina per capire cosa “bolle in pentola”. Dal 1962 la famiglia Fornasiero si occupa, con successo, di quello che “bolle in pentola” e il menù è improntato a piatti classici del territorio con due piccoli segreti, l’ottima materia prima e una mano ormai abituata a trattarla nel migliore dei modi. In più su alcune preparazioni si sente il piglio delle ruspanti osterie venete. 

Antipasti

Tra i classicissimi antipasti, che vanno dalla soppressa veneta con polenta ad un più ricercato tortino alle verdure su fonduta di parmigiano mi sono buttato su un mix di polentina morbida, funghi e soppressa. La cosa che mi ha stupito di più è stata la qualità veramente alta della soppressa, morbida, saporita ma equilibrata. Fermi tutti! A questo punto potreste dire “Ma checcefrega di un posto dove si mangiano cose così semplici e scontate”. Prima di essere tacciati di snobismo gastronomico voglio dirvi che fare bene piatti semplici, anche per numeri importanti è una delle cose più difficili in ristorazione, specie se, come vedremo alla fine, il prezzo del pranzo o della cena è veramente corretto.

Tagliolini al sugo d'anatra

Tra i primi vi consiglio, in stagione, il risotto al radicchio trevigiano o il risotto di zucchine e miele mantecato al moscato mentre tutto l’anno troverete i bigoli o i tagliolini al sugo d’anatra. Tra i secondi molto equilibrata e saporita la faraona ripiena e si può andare sul sicuro anche sul baccalà alla vicentina. Del dolce vi ho già detto ma ve lo riconfermo perché un millefoglie così buono non lo mangiavo da decenni.

Millefoglie

Tutto questo con un servizio corretto, preciso, amicale ma non appiccicoso. La carta dei vini non è certamente vasta ma comprende interessanti etichette del territorio e alcuni “fuori regione” di buon livello.


Per un pranzo completo, dall’antipasto al dolce, arriverete al massimo a spendere 50 Euro più i vini, ma con un menù di tre portate non supererete i 40 Euro. Una cifra più che adeguata per un buon pranzo sui Colli Euganei.

Ristorante Belvedere
Via Montenero, 1 Montegrotto Terme (PD)
Tel. 049793423

Anghiari Compie 50 Anni: La Mostra dell’Artigianato Celebra L’Uomo, la Creatività e il Futuro del Made in Italy


La Mostra dell’Artigianato di Anghiari festeggia quest’anno il suo 50° anniversario, un traguardo che segna non solo il lungo percorso di una manifestazione storica, ma anche l’evoluzione di un’idea che ha messo sempre l’uomo al centro. Da 50 anni, Anghiari è il palcoscenico dove tradizione, creatività e innovazione si incontrano per raccontare la bellezza dell'artigianato italiano. Un evento che, da sempre, ha celebrato il "saper fare" manuale, ma che oggi, più che mai, diventa uno spazio di dialogo per custodire e far crescere la creatività come risorsa fondamentale per il futuro.


La 49ª edizione della Mostra ha aperto un nuovo capitolo, adottando un linguaggio fresco e dinamico per attrarre i giovani verso l’artigianato, un settore che ha sempre affascinato per la sua capacità di raccontare storie di passione e competenza. Con il 50° anniversario, la Mostra si fa ancora più forte nel suo messaggio: il cuore dell’artigianato è l’uomo, di qualsiasi età, chiamato a trasformare la propria creatività in una risorsa concreta e sostenibile per il futuro, un contributo fondamentale al consolidamento del nostro Made in Italy.

Paola De Blasi, direttore artistico della Mostra, afferma: “Con questa edizione speciale vogliamo celebrare non solo il nostro passato, ma anche il futuro dell’artigianato, mettendo al centro le persone, giovani e adulte, che con la loro creatività sono pronte a continuare a scrivere la storia dell’artigianato italiano.”

Quest’anno, infatti, la Mostra si arricchisce di numerose iniziative, come le masterclass tenute dai maestri artigiani, che condivideranno la loro sapienza e le loro tecniche in vari settori: dalla liuteria alla sartoria, dalla gioielleria alla creazione di calici in vetro per la degustazione del vino, passando per la preparazione di pasta e pane artigianale, un simbolo della nostra cultura gastronomica.

Inoltre, un’attenzione particolare è rivolta alle nuove generazioni, con il Premio Leonardo da Vinci, che incoraggia gli studenti degli istituti tecnici superiori a portare innovazione e freschezza nell’artigianato, dando nuova vita alla tradizione. “In questa edizione speciale, vogliamo che ogni partecipante senta di essere parte di qualcosa di grande, che va oltre l'esposizione: è un'occasione per valorizzare il talento, l’innovazione e la passione di chi guarda al futuro con occhi nuovi”, sottolinea Paola De Blasi. “Con il 50° anniversario, la Mostra dell’Artigianato di Anghiari si conferma come un evento che celebra la bellezza del fare a mano e l’importanza di continuare a investire nella creatività e nella manualità. Un’occasione per promuovere l’artigianato come uno degli asset più importanti del nostro patrimonio culturale e per affermare, ancora una volta, che l’uomo, con la sua creatività, è la forza che rende l’artigianato una ricchezza senza tempo”.

Dal 1° dicembre 2025, i prodotti artigianali e industriali potranno ottenere la registrazione dell'Indicazione Geografica Protetta (IGP) in tutta l'Unione Europea, estendendo la tutela già prevista per il settore agroalimentare. Questo nuovo regime di protezione valorizza le produzioni locali e regionali, promuovendo la qualità, l'autenticità e la reputazione dei prodotti legati a un territorio specifico. Tra i prodotti che potranno beneficiare dell'IGP ci sono pietre naturali, gioielli, tessuti e cuoio, sostenendo lo sviluppo delle economie locali e favorendo l'internazionalizzazione delle eccellenze artigianali e industriali europee. “In un momento delicato come quello attuale”, aggiunge Paola De Blasi “è fondamentale proteggere il nostro Made in Italy, simbolo di eccellenza e autenticità, e rafforzare il valore della qualità del nostro artigianato, che rappresenta un patrimonio culturale e un motore per lo sviluppo economico delle nostre comunità”.