Hans Barth, “Guida spirituale alle osterie italiane da Verona a Capri”, a cura di Enrico Di Carlo


di Stefano Tesi

Dirò subito una delle cose che chi recensisce un libro non dovrebbe mai confessare: non l’ho letto. Non l’ho letto tutto, diciamo.
Ho però tre ampie giustificazioni. Innanzitutto, per arrivare da Teramo a Siena il volume ci ha messo un mese (grazie Poste Italiane!). Poi quando è arrivato non stavo così nella pelle che ho subito saltabeccato qua e là tra le pagine, senza dare una lettura lineare. E infine, non si tratta di un tomo da leggere in senso tradizionale ma semmai da compulsare, consultare, spulciare alla ricerca di luoghi, nomi, piatti, situazioni, note, spigolature.


E’ la ghiottissima – sotto tutti punti di vista – ristampa, con una ponderosa introduzione storico-critico-biografica del giornalista, scrittore e studioso dannunziano chietino Enrico Di Carlo, della “Guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri” riedita nel 1921 (ma già pubblicata nel 1908 in Germania e nel 1910 in Italia) da Hans Barth (1862-1928). Opera che, come dimostrano le varie riedizioni succedutesi da allora e come sottolinea oggi anche Di Carlo, ebbe un grande successo e inaugurò, ben centodieci anni fa, quello che è ancora un filone lucroso dell’industria editoriale: la letteratura di viaggio enogastronomico.
Già questo renderebbe il libro (Verdone Editore, 365 pagine, 17 euro) interessante agli occhi di qualunque appassionato di bere, di mangiare, di viaggiare e di storia del costume.
Ma lo è ancora di più perché l’autore non è, nè era, un personaggio qualunque: giornalista, per quarant’anni corrispondente in Italia del Berliner Tageblatt, importante quotidiano politico liberale tedesco, amico di D’Annunzio, che non a caso gli scrisse la prefazione, Barth fu anche uomo di mondo, di cultura, d’ironia e di “pancia”, nel senso che non fece mai mistero della sua passione per la cucina. Passione che potè appunto assecondare visitando in lungo e in largo il nostro paese, da lui molto amato, e utilizzando la chiave di conoscenza più diretta, sicura, affidabile e ovunque socialmente esplicita: la visita alle osterie. Regalandoci così un prezioso, curiosissimo spaccato di storia minore, di vita quotidiana, di un’Italia popolare con le gambe sotto il tavolo e a cavalcioni della Grande Guerra.


Da Verona a Capri, sono oltre trecento i locali passati in rassegna dal nostro tra osterie, bar, taverne e birrerie, con una miniera di informazioni su cibi, vini (serviti quasi sempre in carducceschi “fiaschi paesani”), sughi, clienti, atmosfere, usi, costumi, mobili, apparecchiature, tintinnar di bicchieri e frequenti, perfino ammiccanti sguardi al gentil sesso, senza disparità classiste tra procaci ostesse o nobilissime contesse.
Più che una guida gastronomica, come la potremmo intendere oggi, ne esce quindi, e anzi appunto, una sorta di guida spirituale, un excursus letterario lungo e gaudente, un diario di viaggio nei luoghi di tutti i giorni da cui affiorano in continuazione, però, spunti per note erudite, citazioni latine, descrizioni di vedute e di passanti, aneddoti dei più vari. In poche parole una lettura godibilissima, a tratti esilarante, a tratti appassionante.


Inevitabilmente ho cominciato a scorrere l’indice partendo dalle osterie senesi, che Barth definisce “un buon campo per un viaggio d’esplorazione”, visto che egli stesso attribuisce alla città di allora “più di trecento dispense di vino”. Di queste, l’autore ne cita per nome tre, tra le quali la Trattoria del Sasso del sanguigno Ghigo Tozzi, il padre del grande Federigo. Considerato che la guida uscì per la prima volta nel 1908 e che Ghigo morì l’anno dopo, non è escluso che il gaudente tedesco possa dunque averlo incontrato tra i tavoli del locale. E che poi, a Roma, sua residenza abituale, abbia magari potuto conoscere, viste le comuni frequentazioni letterarie, anche Federigo. Perdonatemi questa suggestione a cui sono giunto senza peraltro neppure seguire uno dei più acuti consigli di Hans. Il quale, riferendosi al vino gustato della trattoria tozziana, riporta espressamente come vi sia “un Chianti così tollerabile che se ne può bere facilmente un fiasco e mezzo senza risentirne danno, visto che una leggera esaltazione dell’anima non è pena, ma premio”.
Il che equivale e dà forza alla celebre massima di Hemingway: “Scrivi da ubriaco e correggi da sobrio”. Probabilmente anche Barth fece così.

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