di Roberto Giuliani
Che l’Italia sia un Paese con una ricca quantità di vitigni
autoctoni è cosa risaputa, meno facile è conoscere quelle varietà che
appartengono ad aree molto ristrette, la cui esigua produzione non consente a
tutti di poterne apprezzare i vini ottenuti. Mariuccia Borio di Cascina
Castlet, rappresentativa azienda di Costigliole d’Asti, ha da sempre un amore
profondo per la ricerca di uve rare e dimenticate del suo territorio come
l’Uvalino; un lavoro iniziato più di 30 anni fa, con passione e tenacia, frutto
anche delle sue esperienze di vita. Infatti, come racconta lei stessa “Questo
vitigno ha sempre fatto parte della mia vita. Per noi bambini, la vendemmia di
quest’uva, che avveniva nell’estate di San Martino, era una festa”.
In passato l’Uvalino veniva appassito e utilizzato per dare
maggiore carattere ad altri vini, oppure, vinificato in purezza, veniva
regalato alle principali personalità del paese, come il medico, il farmacista o
il parroco, ma anche proposto per le grandi occasioni come matrimoni e battesimi.
Nel 1992 Mariuccia piantò il suo primo filare, oggi dispone
di un ettaro e mezzo di questa particolare varietà. Dalla vendemmia 1995 si è
avvalsa della collaborazione dell’Istituto Sperimentale per l’Enologia di Asti,
con cui ha portato avanti un progetto presentato nel giugno 2003, in occasione
del VII International Symposium of Oenology di Arcachon, organizzato
dall’Università di Bordeaux, dove vennero presentate le più importanti ricerche
europee in campo vitivinicolo.
Dopo alcuni anni di inevitabile iter burocratico per
ottenere il riconoscimento del vitigno, il 16 luglio 2002 viene pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto n.32011 del 6 dicembre 2000 che sancisce
l’ingresso dell’Uvalino fra le varietà di vite riconosciute e inserite nel Registro
Nazionale, con codice n. 370.
Grazie a questo, l’Uvalino è entrato a pieno diritto fra le
uve consentite per la produzione del vino DOC Monferrato Rosso.
Nel 2009 esce finalmente in commercio la prima annata di
Uvalino, 2006, oggi Mariuccia Borio ha raggiunto quota 5.000 esemplari annui.
Il vino è stato battezzato con il nome “Uceline”, la
scritta serigrafata sulla bottiglia è stata ideata per rappresentare
simbolicamente un volo di uccelli, il colore vuole richiamare la terra sabbiosa
dove cresce questa varietà. Il nome ha origini antiche, infatti nell’Astesana
già nel Seicento venivano chiamate così le uve rosse di quello che
probabilmente era l’antenato dell’attuale Uvalino; essendo le uve raccolte più
tardi di tutte le altre, diventavano una ghiotta attrazione per gli uccelli.
Le uve dell’Uceline sono state raccolte a fine ottobre, a
piena maturazione, trasferite in fruttaio ventilato e a temperatura
controllata, dove sono rimaste per più di un mese a subire un leggero
appassimento.
Dopo la pigiatura e una parziale diraspatura, si è avviata
la fermentazione, durata circa 3 settimane a 22-25 °C con frequenti rimontaggi.
La fermentazione malolattica e la successiva maturazione si sono svolte in
tonneaux di rovere da 5 hl.
Dopo un anno di affinamento in bottiglia eccolo nel calice,
con un colore rubino intenso e profondo venato di riflessi porpora; al naso si
coglie facilmente l’effetto dell’appassimento in un frutto ampio che richiama
la confettura, ma solo a tratti, nulla di eccessivo bensì aspetti di maggiore
complessità, privi di stucchevolezze. La mora, la visciola, l’amarena, sono
affiancate da sfumature vegetali mature e delicati rintocchi speziati, dalla
cannella al ginepro, dal cacao alla liquirizia.
La bocca si offre avvolgente, succosa, con un tannino molto
levigato, la freschezza compensa molto bene il frutto in confettura e confina
in buona parte gli effetti dati dalla forza alcolica (15,5 gradi).
Un vino che, nonostante la significativa gradazione e le
note di appassimento, si distingue per una materia equilibrata e non pesante,
sebbene richieda inevitabilmente piatti di carattere, ideali quelli di carne,
con sughi lungamente cotti e speziati.
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