InvecchiatIGP: Tenuta Il Corno - Vinsanto del Chianti DOC 2004


di Stefano Tesi

Ho un’età per la quale posso vantarmi (o lamentarmi) di avere una certa memoria storica. E, come accade spesso, il ricordo delle cose lontane risulta assai più vivido di quelle recenti. Parlando di vinsanto, quindi, rammento alla perfezione quelli che in Toscana si facevano fino a quarant’anni fa. C’erano i vinsanti di fattoria, più impegnativi ma comunque agili, vini da commiato e da benvenuto, un po’ da salottino, insomma, le chiavi della vinsantaia dei quali il padrone teneva in tasca come una reliquia, vietando l’accesso perfino alla consorte. E c’erano quelli più ruspanti del contadino, giovani, chiari, un po’ acquosi e acidini, fatti per essere bevuti a veglia nell’aia o dopo cena al tepore del focolare. Delle due categorie ce n’erano di ottimi e di pessimi, ovviamente, e anche in ciò stava il bello.


Le due tipologie erano molto diverse. Ma anche e soprattutto erano diversi i vini tra loro. Ognuno aveva un tratto caratteristico, che prescindeva pure dall’annata e dalla migliore o maggiore qualità e che quasi si identificava col produttore, finendo per esserne una sorta di ritratto, di profilo caratteriale parallelo.
Quasi nessuno dei vinsanti di allora era dolce come quelli di oggi. Più spesso era secco, al massimo abboccato (caso in cui lo si diceva “da donne”, sperando che negli odierni tempi di politicamente corretto nessuno si offenda) e la dolcezza non era a priori un parametro di bontà, ma casomai una precisa caratteristica e a volte un limite.


Poi i gusti si sono evoluti, le mode hanno fatto il loro corso e compiuto il loro effetto, lo zucchero e i cantucci della propaganda hanno prevalso sul resto e quindi oggi nella mente del consumatore medio gli standard del vinsanto sono diventati appunto la dolcezza e l’inzuppabilità.

Niente di male: così va il mondo e, per fortuna, le preferenze personali non sempre sono un’ideologia. Per tutte le ragioni dette finora, in ogni caso, i vinsanti di prima raramente venivano venduti se non localmente e in modeste quantità e comunque rappresentavano una voce irrisoria dei ricavi (nessuno si prendeva la briga o aveva il coraggio di calcolare, invece, i costi). Ancora più di rado venivano invecchiati oltre una certa soglia. E trovare quelli vecchi davvero era una rarità, una curiosità da centellinare in casa, più come esperienza da affabulazione serale che come una semplice, piacevole bevuta.


Tutto questo mi è tornato in mente quando, qualche settimana fa, alla degustazione di vini dolci toscani organizzata dalle Donne del Vino della Toscana alla fattoria del Colle, ho assaggiato il vinsanto 2004 della Tenuta Il Corno, storica azienda dei conti Frova in quel di San Casciano Val di Pesa. Tra i molti, a volte ottimi assaggi, questo si distingueva per una complessità e una personalità fuori dall’ordinario. E non solo in virtù di un’età – quasi vent’anni - abbastanza venerabile anche per un vinsanto. 

So che, per questa sua scarsa conformità al modello, alcuni colleghi non l’hanno apprezzato.

A me invece è piaciuto moltissimo proprio per il suo essere fuori passo.


Al di là del colore ambrato scuro e un po’ velato, mi ha colpito subito il potente, penetrante impatto olfattivo, con una sequenza cangiante e intrigante di caramelle al rabarbaro, china, liquirizia, Caffè Borghetti e toffees che non ti aspetti, capaci di provocare un tuffo nel passato e un immediato effetto madeleine. Tutte articolazioni che, poco a poco, ho ritrovato al palato, e a ondate anche nel retrogusto, con un finale pastoso ma niente affatto stucchevole, lunghissimo e lievemente amaro, suggeritore pure di un uso “da fumo”.


In un’ottica contemporanea si tratta un vinsanto senza dubbio inusuale, ma per questo ricco di una identità che non si dimentica e che riconcilia con l’idea della biodiversità del vinsanto, oggi spesso smarrita in modo troppo frettoloso nel nome di una qualità più tecnica e asettica, ma spesso banalizzante. 
La produttrice, Maria Giulia Frova, ci fa sapere che è prodotto con uve proprie di Trebbiano, Malvasia, San Colombano e Colorino, raccolte la prima settimana di settembre e lasciate sui cannicci fino a dopo Natale. Una volta torchiato, il vino resta in caratelli nel sottotetto della fattoria per cinque anni mantenendo la storica madre aziendale. Quindi avviene il primo assaggio, per valutarne l’ulteriore permanenza in caratello da 7 a 11 anni. Ne fanno mediamente 4mila bottiglie da 0,50 cl in vendita al prezzo di 18 euro l’una. Io ne ho prenotato un cartone, così potrò meditare tutto l’inverno…

La Tosa - Malvasia Colli Piacentini DOC "Sorriso di Cielo" 2022

di Stefano Tesi

Sulla Strada dei vini dei Colli Piacentini capita di imbattersi in questo bianco dalle note macerate e di marcata identità, che in bocca si traduce in lunghezza, profondità e screziatura.
 

Una Malvasia di Candia Aromatica che riflette la complessità del territorio e della doc (14 menzioni e 5 sottozone).


Il Mandanero della Pasticceria Bonci è la mia nuova ossessione golosa


di Stefano Tesi

In vernacolo toscano dicesi “arrivato tra capo e collo” ciò che ti giunge addosso all’improvviso, inaspettato, qualcosa che insomma ti becca colpendoti con una certa violenza, fisica o emotiva, come uno schiaffo secco dato sotto la nuca. Le cose che arrivano tra capo e collo possono ovviamente essere positive o negative.

Questa di cui sto per raccontarvi è positiva.

Premettiamo tre cose. La prima è che non accetto mai in assaggio campioni di vino o altro che non siano stati precedentemente autorizzati dal sottoscritto (cosa che non avviene sempre, anzi…). La seconda è che tantomeno li accetto se sono accompagnati da richieste di recensioni. La terza è che respingo in modo anche brusco le richieste sono petulanti. Poi qualche settimana fa mi arriva un’e-mail che, con modi invece assai carini e niente affatto insistenti, mi chiede proprio la disponibilità ad assaggiare il nuovo dolce di un antico laboratorio di pasticceria del Valdarno che conosco solo di nome: Bonci di Montevarchi (AR), azienda artigianale antica (quest’anno compiono 70 anni) e di ottima reputazione.


Io traccheggio: in generale non amo i dolci e me ne sono sempre occupato poco. Quello in parola dovrei farmelo pure recapitare da un corriere, categoria con la quale come noto ho un rapporto, diciamo così, piuttosto conflittuale. L’ultima volta che mi hanno consegnato qualcosa di edule era una crostata alla frutta, ridotta in poltiglia dopo essere stata sottoposta a prove di schiacciamento meccanico degne della pubblicità degli orologi Timex degli anni ’70.

Alla fine, comunque, mi lascio convincere e dopo qualche traversia il pacco arriva: in ritardo, ma intatto.

Io, sempre un po’ perplesso, lo lascio un paio di giorni a candire sul tavolo di cucina. Si chiama Mandanero, nome di cui ignoravo il significato perché, onde evitare di farmi influenzare, volutamente non ho letto né comunicati, né la brochure inserita nella confezione: una bella scatola di cartone, istoriata, di colore marrone e arancione. Anzi, color mandarino, che ovviamente non è un caso. Apro. Il prodotto è confezionato con cura in un sacco di nylon trasparente. L’aspetto non è particolarmente invitante: un blocco abbastanza squadrato, piuttosto tozzo, di color cioccolata, dalla sommità del quale affiorano grossi canditi.


La cosa che però mi colpisce, prima ancora di aver aperto l’involucro, è la morbidezza del contenuto: preso in mano, il Mandanero è soffice come mai si potrebbe immaginare al solo sguardo. Una morbidezza che tradisce un’ampia alveolatura interna e una sapiente lievitazione, ciò che da un lato ti induce – ovviamente senza ragione – a maneggiarlo con grande attenzione come se si potesse rischiare di romperlo, dall’altro ne mette in rilievo, per contrasto, un peso che non ti aspetti. Aperta la busta, si scopre il primo arcano. Vengo investito da una suadente fragranza di mandarino, anzi di liquore al mandarino, penetrante ed etereo. Un altro punto a favore, penso tra me e me: viste certe mie infelici precedenti esperienze con le cose a base di agrumi, se, anziché fastidio, questo profumo mi dà piacere, la sorpresa è doppia.


Lo tocco e scopro che, al contrario di ciò che pensavo, la superficie non è affatto asciutta: il prodotto è imbevuto, anzi completamente impregnato in uno sciroppo che trasuda riccamente dalla superficie, come un babà, dando una sensazione di stuzzicante freschezza. Sempre più convinto, lo porto alle narici e assieme al profumo del frutto distinguo nettamente quello della cioccolata. Bene, penso sempre più incuriosito. Ormai sono pronto all’assaggio. Il coltello affonda facilmente nel Mandanero, anche se a causa dell’estrema sofficità del preparato occorre fare attenzione a non schiacciarlo.


Appena tagliato il primo spicchio, dall’interno si sprigionano sempre più distinti i sentori di una ricca bagna a base di sciroppo alcolico. L’aspetto è quello atteso: un impasto morbido, alveolatissimo, cedevole, da cui affiorano pezzi di mandarino candito e di cioccolata fondente cremosa. Come un velo, la bagna lo avvolge e lo impregna completamente, senza lasciare asciutta una sola briciola. Ottimo segno.

È il momento del morso, a cui l’aroma di agrumi fa da viatico: il gusto è deciso, ma ammorbidito dalla scioglievolezza prodotta dal cioccolato e dallo sciroppo. Nessuna nota stucchevole, nessuna sensazione appiccicosa. Il candito si sposa perfettamente al cacao e la consistenza dell’alveolatura crea una sorta di architettura interna che consente al boccone di tenersi su, cedendo con dolcezza solo alla pressione delle mandibole.

Il dado è tratto, il ghiaccio è rotto: mezzo chilo di Mandanero sparisce in pochi minuti e il vostro degustatore si fa sorprendere a grattare col coltello lo strato di impasto e di liquore rimasti attaccati alla base di carta.

In sintesi: è buonissimo.

Vinte le diffidenze, posso passare all’esegesi. Scopro così, leggendo la presentazione, che si tratta un lievitato artigianale lavorato a mano e realizzato con materie prime di qualità, partendo dal lievito madre conservato e rigenerato da oltre 60 anni. La lievitazione naturale dura 36 ore, totale assenza di additivi e conservanti. Scopro anche che la Pasticceria Bonci nasce nel 1953 con un piccolo negozio di Montevarchi e con la seconda generazione diventa una delle pasticcerie artigianali più importanti in Italia, con esportazioni in tutto il mondo. Scopro infine che tutti i prodotti Bonci (ne fanno tanti, compresi panforti, torte, cantucci e ovviamente dolci impregnati al liquore, specialità della casa) possono essere acquistati online sul sito aziendale o presso 1200 rivenditori in tutta Italia.


Io, però, il prossimo Mandanero lo comprerò nel negozio aziendale: mi hanno detto che i titolari sono sempre lì, in laboratorio, e mi è parso un buon segno.

BENVENUTO BRUNELLO TORNA DAL 17 NOVEMBRE CON 10 GIORNI DI DEGUSTAZIONI E 119 CANTINE


Centodiciannove cantine e 310 etichette pronte all’assaggio per una dieci giorni di degustazioni che decolla da Montalcino per atterrare anche in nove città internazionali. Sono i numeri della 32^ edizione di Benvenuto Brunello, l’evento capostipite delle anteprime italiane riservato al principe dei vini toscani, in programma dal 17 al 28 novembre. Un format autunnale ormai consolidato, quello organizzato dal Consorzio del vino Brunello di Montalcino, che per il secondo anno consecutivo dal Chiostro Sant’Agostino del borgo medievale vola prima a Londra il 21 novembre e poi in contemporanea a New York, Dallas, Miami, Toronto, Vancouver, Zurigo, Shangai e Tokyo il 28 novembre per celebrare il Brunello Day, appuntamento internazionale che vede più che raddoppiato il numero delle metropoli estere coinvolte. Al battesimo nei calici dell’anteprima, il Brunello 2019 e la Riserva 2018 affiancati nei tasting dal Rosso di Montalcino 2022 e dagli altri due vini della denominazione, il Moscadello e il Sant’Antimo.


Si parte il 17 e il 18 novembre con il consueto weekend – già sold-out – dedicato alla stampa nazionale e internazionale. Sono oltre 70 i giornalisti di settore e non selezionati tra italiani ed esteri provenienti da Stati Uniti, Canada, Corea del Sud, Brasile e Israele mentre Inghilterra, Svezia, Danimarca, Norvegia e Olanda rappresentato il territorio europeo. A questi si aggiungono i circa 20 operatori tra giornalisti, wine expert, buyer e wine educator stranieri individuati dalla speciale attività di incoming in collaborazione con la Vinitaly International Academy. Nel fine settimana inaugurale spazio anche alla presentazione dell’annata agronomica 2023 e all’assegnazione del 32° premio Leccio d’Oro, in programma sabato 18 novembre (Teatro degli Astrusi, ore 11). A seguire, nella stessa giornata, la posa sulla costa del Municipio della tradizionale piastrella celebrativa dedicata alla vendemmia di quest’anno. Domenica 19 novembre è invece la data d’inizio delle degustazioni per gli operatori di settore a cui sono dedicate anche altre 6 giornate (dal 20 al 22 novembre e dal 25 al 27 novembre). Sono poi 6 i Master of Wine, i membri esperti della più autorevole e antica organizzazione mondiale dedicata alla conoscenza e al commercio del vino con sede a Londra, a darsi appuntamento il 20 novembre per la valutazione delle nuove annate, mentre agli enoappassionati è riservato il l’ultimo weekend di novembre (dal 25 al 27). Chiude infine il programma di Benvenuto Brunello il giro intorno al mondo del Brunello Day in calendario lunedì 28 novembre, anticipato dalla data londinese del 21 novembre.


Ufficio stampa Consorzio del Brunello di Montalcino – Ispropress:

Benny Lonardi, 393.4555590 – direzione@ispropress.it

Simone Velasco, 327.9131676 - simovela@ispropress.it

Sara Faroni, 328.6617921 – ufficiostampa@ispropress.it

InvecchiatIGP: I Favati - Taurasi Riserva Terzotratto Etichetta Bianca 2013


di Luciano Pignataro

Il progetto Etichetta Bianca in questa piccola azienda di Cesinali nasce, agli inizi degli anni 2000, con l’arrivo di Vincenzo Mercurio che si è concentrato sull’invecchiamento dei due grandi bianchi irpini e sul Taurasi che diventa riserva. Un salto di qualità che l’azienda, i cui primi documenti risalgono al 1915, pone in essere grazie alla tenace guida di Rosanna Petrozziello. Una piccola azienda, 16 ettari e circa centomila bottiglie, che regalano sempre grandi sensazioni a chi ha la pazienza di aspettare i vini.


Siamo in Irpinia, sulla riva sinistra del fiume Sabato, il corso d’acqua che nasce dal Terminio e che attraversa tutta la provincia ricongiungendosi con il Calore nel Sannio. Poco più di 2500 abitanti in un territorio da sempre vocato all’agricoltura alle porte di Avellino. L’azienda ha le sue proprietà sparse nei territori della docg.


Questo Taurasi 2013 Riserva, fermentazione in acciaio e maturazione in legno piccolo e grande di secondo e terzo passaggio, spunta dalla cantina della braceria La Baita in Valle di Maddaloni e innaffia un bel piatto di vacca vecchia galiziana oggi tanto di moda in Italia. La 2013 ha un andamento climatico abbastanza anomalo, una delle poche estati fresche dello scorso decennio che in Irpinia, territorio freddo, freddissimo, si traduce in un ritardo di circa dieci giorni sulla vendemmia in una annata complessivamente più favorevole alle uve bianche che alle rosse in questo territorio.


Eppure questo 2013 ci colpisce al punto da volerlo proporre in questa rubrica: la cura dimagrante imposta dalle circostanze e il protocollo non aggressivo nel legno pensato da Vincenzo Mercurio regalano un rosso fine e di eleganza, con i tannini levigati dal tempo, ancora molto fresco, ricco di frutta al naso che al palato viene riproposta con un ampliamento dei toni fumè. La pulizia del sorso, che scorre veloce e piacevole, è assoluta, il finale preciso, suadente, lascia il palato pulito. L’abbinamento con le carni alla brace è in questo caso assolutamente perfetto.

Rosanna Petrozziello - Foto: L'Arcante

Complessivamente il vino appare allo zenit, con ulteriori potenzialità evolutive perché tiene molto bene sia al naso che al palato, con una acidità vibrante e rinfrescante che mette in condizione di non sentire affatto l’alcol. Un bellissimo vino, ancora giovane a distanza di dieci anni.  Con l’Aglianico, e con gli irpini, ci vuole la pazienza di saper attendere.

Bonavita - Rosato Terre Siciliane Igp 2022


di Luciano Pignataro

Nerello mascalese, nerello cappuccio e nocera: le tre uve tipiche del territorio di Faro lavorate in acciaio e cemento regalano un rosato di carattere, molto fresco nonostante l’annata siccitosa, con rimandi gradevoli di frutta. 


Sapido, non stucchevole, lunghissimo il finale che invita a ripetere la beva fino a vuotare la bottiglia.

Taormina Gourmet incorona le Donne del Vino della Puglia con una degustazione di 10 vini


di Luciano Pignataro

A parte gli addetti ai lavori e ai grandi appassionati, la Puglia ha ancora una immagine poggiata sui suoi grandi rossi e, soprattutto negli ultimi anni, sul successo straordinario del Primitivo, un vino che in poche stagioni è passato dalle sensazioni di cotto e di ossidato alla potente eleganza fruttata pur nella diversità delle interpretazioni e del confronto fra Gioia del Colle e Manduria.
Una degustazione che ho avuto il piacere di coordinare a Taormina Gourmet, organizzata dalla sezione regionale delle Donne del Vino presieduta da Renata Garofano, ha avuto il merito di accendere i fari sulla poliedricità del sistema vitivinicolo pugliese, una regione che in termini di quantità, con i suoi dieci milioni e passa di ettolitri prodotti è seconda solo al Veneto che ne produce circa un milione in più. Naturalmente sappiamo che quantità non vuol dire qualità ma, soprattutto con le tecnologie moderne e gli studi sul comportamento dei vitigni autoctoni di cui sino a vent’anni fa non c’era quasi tracci, comunque è indice di un patrimonio ampelografico molto vasto a cui attingere. Circostanza questa che, se unita alla proverbiale anarchia italiana, offre non poche chicche e sorprese.


Ed è quanto è avvenuto nella selezione delle dieci etichette operata da Titti Dell’Erbe e Ilaria Oliva, competenti e appassionate sommelier, che ci ha consentito di percorrere i 400 chilometri di questa regione con una visione assolutamente inedita, almeno per me, e sorprendente.
Quale occasione migliore della rubrica Garantito Igp per lasciare una traccia scritta da cui magari poter prendere spunti, o anche semplicemente di conoscere, dieci volti della viticultura pugliese poco noti ai più.

1. Rosé Brut spumante Puglia Igt 2022, Caiaffa Vini

Il vino di Angela Caiaffa, prodotto a Cerignola in provincia di Foggia conferma la vocazione spumantistica di questa regione iniziata nel lontano 1979 ad opera di D’Arapri, unica azienda del Centro Sud dedita esclusivamente alla spumantizzazione. Un vino fresco, complesso, elegante, sapido. Uno Charmat molto ben eseguito.

2. Sumarè 30 Mesi 2019 Rosato Brut Metodo Classico, Tenute Rubino

Altro giro, scendiamo in provincia di Brindisi dove questa grande azienda rappresentata da Romina Leopardi, punta per la spumantizzazione con metodo classico sul Susumaniello con risultati a dir poco sorprendenti, a conferma che se si ragiona liberi da altri riferimenti territoriali, la proposta italiana da vitigni autoctoni regala belle soddisfazioni ai produttori e ai consumatori.

3. Theos Bombino Bianco 2022 Puglia Igp, cantine Merinum

Ci spostiamo adesso sulla punta dello sperone garganico, nella bella Vieste dove Cinzia Quitadamo propone una versione di Bombino sapida, gradevole, assolutamente fresca nonostante l’annata siccitosa. Da spendere subito sui crudi di mare.

4. Castillo Valle d’Itria igp Minutolo 2022, Cantine Cardone

Ecco un vitigno fuoriclasse al quale non si devono porre limiti nell’invecchiamento essendo un semiaromatico. Anche questo bianco di Marianna Cardone è molto fresco nonostante la terribile annata siccitosa, ma gode di ottime escursioni termiche in quello che forse è il miglior territorio pugliese vocato per i bianchi. Con grandi prospettive di invecchiamento.

5. Lumen in Aria, Bianco Ostuni 2021, Villa Agreste

Fatto con uve Impigno 75% e daldo di Francavidda: confesso la mia ignoranza, non le conoscevo. Il bianco di Silvia Scordino rivela una bella personalità e i due anni dalla vendemmia lo hanno completamente equilibrato regalando un sorso piacevole di frutta bianca. Anche questo, come tutti i vini di cui abbiamo parlato, è segnato da una piacevole sapidità.


6. Rosamora Rosato Malvasia Nera 2022 Salento igp, Cantina Paolo Leo

Inizia adesso la batteria dei rosati. Devo dire assolutamente non scontata: nessuna delle tre etichette scelte da Titti e Ilaria è da Negroamaro, ma una lettura in rosa di tre vitigni che in genere consideriamo solo in rosso. Come questa Malvasia Nera di Roberta D’Arpa, che di solito è in blend nella Salice salentino doc e che qui si conferma grande uva. Fresco, tonico, pimpante, un bell’esempio di rosato.

7. Tre Tomoli Rosa, Rosato 2022 Puglia igp Susumaniello

La prima etichetta con cui Flora Saponari è passata dall’altra parte del banchetto, ossia da brava degustratrice e brava produttrice. Un rosato che mi è sempre piaciuto per la eleganza, la sapiditò, la conferma di quanto questa uva sia valida anche quando viene lavorata in proprio.

8. Bisciù, Nero di Troia Rosato 2022 Puglia Igp, Mandwinery

Dopo il Negroamaro è proprio il Nero di Troia il vitigno utilizzato per i rosati pugliesi. In questa esecuzione da manuale voluta da Michela Manduano il rosato esprime tutta la sua poliedricità da vino a tutto pasto capace di coinvolgere tutti indistintamente.

9. Simpotica, Negroamaro 2016 Salento rosso igt, Garofano Vigneti e Cantine

Un rosso importante da uve Negroamaro con saldi di Montepulciano che dopo la fermentazione alcolica ha un affinamento in barrique per circa un anno. A distanza di sette anni il vino di Renata Garofano si presenta fresco, con i tannini ben risolti, in ottimo equilibrio e con una perfetta fusione fra legno e frutto.

10. Elegia, Primitivo di Manduria dop Riserva 2020, Produttori di Manduria

La più grande azienda di primitivo, rappresentata in associazione da Anna Gennari, presenta una etichetta molto famosa. Anche questo rosso viene affinato per un anno in barrique. Emerge con evidenza il carattere potente del Primitivo, tanta frutta, discreta freschezza, un finale lungo e appagante.


Al termine di questo viaggio cosa dire? Semplice: la Puglia ha fatto enormi passi in avanti negli ultimi vent’anni, sicuramente la regione tra le più dinamiche. Le grandi quantità e i luoghi comuni nascondono decine e decine di chicche che questa degustazione voluta e presentata dalla collega Annalucia Galeone è riuscita a mettere in evidenza. C’è ancora tanto da scovare, raccontare, provare e sperimentare in questa magnifica regione meridionale.

InvecchiatIGP: Andrea Arici - Merlot del Sebino IGT 2001


di Carlo Macchi

Voglio raccontarvi una bella storia. Circa 20 anni fa il giovane Andrea decide di produrre il suo primo vino. Le vigne ci sono ma vuole staccarsi un po’ dalla tradizione paterna e così, aiutato dall’ancor più giovane Anna che poi diventerà sua moglie, fa nascere un vero e proprio vin de garage, perché fatto nel garage di casa. Poche barrique, pochissime bottiglie (meno di mille) di un merlot in purezza vendute in qualche locale tra Bergamo e Brescia. L’annata era la 2001 e, vedi i casi della vita, una di quelle bottiglie capita sul tavolo di una grande persona e immenso giornalista, Gianni Mura. Lui l’assaggia, gli piace, si fa dare il numero di telefono di questo ragazzo dal ristoratore che gli ha proposto il vino e gli telefona per chiedergli se potesse andare a Milano per un’intervista.


Quel ragazzo, che di nome fa Andrea e di cognome Arici, prima rimane stupito ma subito dopo dice naturalmente di si. Pensate, la prima intervista con il primo vino fatto e per di più con un giornalista bravo e famoso come Gianni Mura. Andrea, che oggi è uno dei migliori produttori di Franciacorta, sarebbe andato a Milano anche a piedi, ma assieme ad Anna preferiscono prendere l’auto e così vanno, vengono intervistati ed esce, sull’Espresso, il primo articolo scritto su di lui. Andrea è quindi particolarmente attaccato a quel Merlot del 2001, di cui sono rimaste pochissime bottiglie, però ha voluto portarne una per la cena che abbiamo fatto assieme a lui e al gruppo di lettori di Winesurf che avevo “traghettato” in Franciacorta.

Arici con moglie e Carlo Macchi

Lui mette le mani avanti “Stappala ma credo non sarà buona!” La stappo, annuso il tappo che è vecchio ma ancora vivo e lascio la bottiglia così, senza nemmeno assaggiarla anche perché sarebbe stata l’ultima ad essere servita, arrivando dopo una lunga e buonissima serie dei suoi Franciacorta. Alla fine, assaggia di qui, assaggia di là, stavamo quasi per scordarci di berla, in primis Andrea che era quasi pentito di averla portata.


Considerate che era un vino fatto per essere bevuto giovane, messo in barrique (vecchia) perché era il contenitore più economico della misura giusta. Era anche, ripeto, il primo vino di Andrea.
Lo verso nel bicchiere e intanto guardo il colore: un rubino con i giusti anni sulle spalle che però mostra ancora segnali di giovinezza. Il naso è didattico: da una parte qualche sentore vegetale, specie paglia, dall’altro note di tabacco e di erbe officinali. Di ossidazione non c’è traccia, c’è invece una complessità matura che tanti merlot di vaglia vorrebbero avere dopo 22 anni. In bocca non è certo esplosivo ma il tannino è dolce, l’acidità rende il tutto fresco e l’alcol basso mette insieme un’armonia invidiabile. Una notevole bottiglia e stiamo parlando di un Merlot del Sebino del 2001!


Insomma, un risultato ottimo e insperato da Andrea, che confessa le sue paure iniziali dicendo che le due-tre bottiglie aperte in precedenza erano tutte con problemi. Però questa era perfetta e sono convinto che Gianni, ovunque sia, un sorriso sghembo e un po’ ruvido l’ha fatto.

Podere La Cappella - Toscana IGT "Oriana" 2020


di Carlo Macchi

Accattivante e un po’ opulento come l’etichetta di Manzi, questo Vermentino colpisce per la rotonda potenza e per il fatto che nasce in Chianti Classico, dove il vitigno non è di casa. 


Natascia Rossini mi assicura però che se lo fa assaggiare lo vende, sempre. Non ne dubito perché è proprio buono!

E se il Vin Santo si vendesse da McDonald's?


di Carlo Macchi

Una bella degustazione di vini passiti e vin santo per me è sempre attraente, se poi l’organizza la vulcanica Donatella Cinelli Colombini assieme alle Donne del Vino della Toscana l’attrazione è ancora maggiore e se poi è incentrata su 12 vini prodotti da altrettante produttrici come fai a non andarci?


Quindi, accompagnato da una giornata meravigliosa eccomi seduto ad assaggiare, alla Fattoria del Colle a Trequanda, dall’Aleatico al Moscadello, da passiti a base sauvignon-semillon fino al traminer aromatico, con il piatto forte di sette vin santo e un occhio di pernice. Questo il quadro generale, gestito in degustazione da Gianni Fabrizio che ha fatto capire come conoscere la materia porte sempre a fare domande giuste alle persone giuste. Devo proprio ammettere che i vini passiti nell’odierna proposta di vini, spesso di ottima qualità ma un po’ omologata verso l’alto, sono una ventata di meravigliosa diversità e non possono che lasciare indelebili sensazioni. Questo hanno fatto i 12 vini degustati, tutti di ottima fattura, molto diversi tra loro, con sfaccettature particolari e intriganti aromaticità.


Ma assaggiando vini passiti, in particolare Vin Santo, sento sempre a corredo gli stessi discorsi da decine di anni sul fatto che questa specifica tipologia di vino (preso ad esempio da ora in poi per tutti gli altri passiti toscani e italiani) si vende e si consuma sempre meno, anche perché a tavola non ha abbinamenti se non con formaggi a fine pasto, oppure (la scoperta degli ultimi 25-30 anni…) con un paté di fegato o fois gras, meglio se con i crostini neri toscani. Però dopo un Vin Santo cosa bevi?


Questo è un po’ un gatto che si morde la coda perché se è vero che i vini passiti si bevono sempre meno, provare a promuoverli abbinandoli a cibi che si mangiano sempre meno e magari solo in determinate zone porta inevitabilmente al punto di partenza. Per fortuna durante la degustazione alla Fattoria del Colle ho sentito spunti interessanti. Per esempio ci si è domandato cosa vuole veramente il consumatore (passiti molto concentrati o più beverini?) che comunque se ne vende più in azienda che sul mercato, che potrebbe essere (e spesso è) un ottimo regalo specie se venduto in astuccio, che questo settore potrebbe (magari portando i prezzi a valori più alti e reali, nonché proponendo invecchiamenti molto lunghi) toccare il ricchissimo mercato dei collezionisti di vino.


Molte buone idee, ma in questo articolo vorrei cercare di andare oltre e provare a fare alcune proposte forse iconoclaste, forse impossibili da mettere in pratica, ma che potrebbero essere il punto di partenza per dare una reale scossa a questo mercato, piccolo e sempre più asfittico.

Per prima cosa vediamo di mettere in fila alcuni punti

· Il Vin Santo (e qualsiasi altro vino da uve passite) è un vino della tradizione e spesso si parla di tradizione familiare.

· È di nicchia la produzione di ogni singola cantina, specie rispetto agli altri vini aziendali ed è di nicchia anche la produzione globale.

· Quindi è un vino che non ha una massa critica

Ogni produttore propone la sua bottiglia, ognuna di forma diversa, scomponendo quindi “l’atomo Vin Santo” in tanti “protoni o neutroni enoici” e rendendone quasi impossibile la conoscenza e la ricerca per un consumatore. La prima proposta che mi viene da fare è semplicissima: creare e utilizzare una bottiglia unica per il Vin Santo (per il Recioto, per lo Sciacchetrà, etc). Capisco che ogni produttore tenga al suo brand e che mettere d’accordo tante teste sia una cosa quasi impossibile, ma così il Vin Santo avrebbe una visibilità moltiplicata per il numero delle aziende produttrici, cioè decine e decine di volte maggiore.


Mille obiezioni: chi si prende l’incarico? Con quali soldi? Chi gestisce il tutto? Chi sceglie? Queste e mille altre, ma alla fine tutto sbatte sull’individualità che ogni produttore di Vin Santo, ogni famiglia produttrice vuole dare al suo micro-prodotto. Però così non si va da nessuna parte (fermo restando che ci si voglia andare…) e quindi smettiamola di discutere.

Proviamo comunque ad andare oltre.

Il Vin Santo (e tutti gli altri passiti) abbiamo detto è un vino di tradizione spesso familiare. Ogni produttore e ognuno di noi che ha una certa età, quando pensa ad un Vin Santo lo mette assieme a momenti particolari, a ricordi, a pranzi o cene con abbinamenti ipertradizionali. Questo è l’errore che facciamo tutti! Quello di vederlo sempre e comunque legato a matrimoni spesso infelici per il mercato cioè, come detto sopra, con prodotti tradizionali e di nicchia, tipo formaggi erborinati o molto stagionati, paté, crostini etc.

Credit: prodigus.it

Inoltre, questi prodotti, oltre ad essere “da centellinare” non vengono spesso utilizzati dai consumatori giovani o di altri paesi, che però amano altri piatti che, guarda caso, potrebbero essere abbinati benissimo con un vino passito. Vogliamo parlare delle molte varianti speziate-piccanti-dolci-umami della cucina asiatica? Ma soprattutto, scusate, quell’insieme di dolce-salato-hamburgerato-salsato-insalatato-informaggiato-impaninato che è un hamburger delle grandi o piccole catene fast food planetarie, non pensate possa andare bene con un sorso di Vin Santo? Del resto, quando lo mangiamo (anch’io, lo ammetto) ci beviamo assieme una bevanda dolce e allora perché non provarlo con un vino dolce?
Più terra terra, ad un po’ di ristoranti dove l’hamburger viene proposto come prodotto di qualità non si potrebbe consigliare l’abbinamento con un Vin Santo? Oppure alla tanta e variegata cucina fusion o alle tante proposte “stellate” che spesso uniscono gusti e sensazioni diverse e opposte, non si potrebbe avvicinare un Vin Santo? “Però se parti da un Vin Santo, dopo cosa bevi?” Potrebbe essere la prima opposizione. Certo, se uno ingurgita tre-piatti-tre nell’arco di 10 minuti non si può bere altro, ma se uno pranza in tempi normali, dopo 10 minuti la bocca è pronta per un bianco o un rosso o una bollicina.


Inoltre, bisogna smetterla, se si vuole ampliare le possibilità per questi vini, di vederli come abbinamenti canonici. Violante Gardini, la figlia di Donatella, mi ha detto che il loro Vin Santo negli Stati Uniti viene servito e bevuto a 4-5°, praticamente alla stessa temperatura di un vino spumante. Mercati diversi hanno regole diverse, dove un vino dolce potrebbe veramente sfondare, inoltre tanti piatti amati dai giovani (il famoso Big Mac, tanto per fare un nome) sarebbero abbinamento perfetto per tanti Vin Santo. Ma noi continuiamo a parlare di vino da meditazione (e in effetti in questo mondo ci sarebbe tanto su cui meditare…) o di abbinamenti rari, costosi, o difficili da reperire. 40-45 anni fa il Barolo era un vino che non si beveva perché era “da grande occasione” o “da lungo invecchiamento”. Se i barolisti fossero rimasti fermi su queste posizioni oggi la Langa sarebbe molto diversa.


Va bene! Ammetto che molte delle mie proposte sono provocazioni, ma volte a far capire che il futuro del Vin Santo e dei vini passiti italiani è legato più alla cultura gastronomica di paesi lontani che non alla nostra, che la sua possibilità di sviluppo sta nel passare il guado mentale che ci separa dal parlare per abbinamenti “Artusiani” e di vedere anche nel fast food e in generale nei cibi che tante giovani generazioni preferiscono un logico mercato, che attende solo il primo che varcherà queste Colonne d’Ercole.

Credit: Cantina Ravazzi

Insomma, cari produttori di Vin Santo (e di tutti gli altri vini passiti) alzate la testa, guardate oltre la vostra comfort zone e seguite il consiglio di Verdone, quel “Famolo strano” che adesso sembra impossibile ma potrebbe essere veramente l’uovo di Colombo.

Invecchiato IGP: Col d’Orcia - Brunello di Montalcino Poggio al Vento Riserva 1990


di Roberto Giuliani

Nel gennaio del 2016 Stefano Tesi lo aveva degustato in una bellissima verticale che abbracciava 50 anni e lo aveva trovato in ottime condizioni. Sono passati altri 9 anni e siamo a 33 dalla vendemmia, un tempo che può mettere in ginocchio parecchi Brunello, c'è da dire però che questo cru che Francesco Marone Cinzano custodisce con cura ha dato ripetutamente dimostrazione di una classe rara e di una longevità notevole.
Tutto questo però non è così importante, perché quando passano così tanti anni ogni bottiglia fa storia a sé, conta moltissimo come viene conservata e la tenuta del tappo, ma in ogni caso è quasi impossibile trovare due vini con le stesse caratteristiche evolutive e nelle stesse condizioni di salute.


Mi accingo, quindi, ad aprire la mia ultima bottiglia di questo prezioso nettare per la rubrica "InvecchiatIGP", dedicata appunto ai vini che hanno sulle spalle un buon numero di anni. Estraggo il tappo senza particolari difficoltà, lo trovo decisamente in ottimo stato, la parte umida non arriva a mezzo centimetro, evitando rischi di frantumazione; l'odore è normale, richiama la vinaccia.

Francesco Marone Cinzano

Per un vino del genere ci vuole un signor calice, uno Zalto Bourgogne è perfetto, lo verso delicatamente evitando di portarmi appresso eventuali depositi. Il colore è promettente, un granato luminoso con pochi cedimenti verso l'aranciato (la foto fatta con il mio vecchio cellulare purtroppo non è fedelissima).


A questo punto accosto il naso per una prima perlustrazione e... capperi! Sembra già maledettamente espressivo e senza segni dell'età. Lo lascio respirare, 5, 10, 15 minuti e riprovo: il bouquet è in continuo movimento, da fermo il vino esprime note di funghi, sottobosco, goudron, cuoio, tabacco e molto altro; lo faccio roteare per alcuni secondi poi inspiro di nuovo: si apre a confettura di frutta rossa, arancia sanguinella, susina, ciliegia, poi arrivano incenso e cardamomo, mallo di noce, torna il fungo, secco ma non troppo, il frutto ringiovanisce, c'è un guizzo agrumato.
Non resisto oltre e assaggio: mon dieu! Incredibile! È stratosferico, finissimo, balsamico, salino, la parte terziaria la devi andare a cercare perché ha ancora freschezza ed energia da vendere, tannino setosissimo e un finale che ingannerebbe chiunque tanto è vivace, neanche dieci anni gli darei. 


Ok, dopo oltre venti anni di assaggi di vini prelevati dal mio mobile cantina posso dire con fermezza che li conserva alla grande, le delusioni non superano le dita di una mano, segno che era tutta colpa dei vini. Questo Brunello di Montalcino Poggio al Vento Riserva 1990 è davvero magnifico e già mi vengono le lacrime per avere stappato l'ultima bottiglia :( Ma ne valeva proprio la pena!

Di Bella - Sicilia Esperides Rose dello Jato 2022


di Roberto Giuliani

Prima che arrivi il freddo e qualcuno, erroneamente, si disinteressi ai vini rosati, vi propongo questo siciliano biologico dai profumi di rosa canina, pompelmo rosa, ciliegia e fieno fresco. 


Bocca vivace, nervosa, agrumata, si beve che è un piacere, con o senza cibo, ma con i crostacei si gode…

Grandama Arte della Luce Rosso 2012, il vino benedetto da Dio


di Roberto Giuliani

Quando ho conosciuto Anna Mercandelli e Mimmo Capeto dell’azienda Sacrafamilia, sita nel comune di Godiasco Salice Terme (PV), sono rimasto seriamente in difficoltà. Non mi ero mai trovato, nel mondo del vino, ad avere a che fare con una coppia profondamente religiosa che ha un rapporto con la vigna unico al mondo, così meticoloso da conoscere a menadito ogni acino di ogni singolo grappolo (nessuno, che io sappia, porta in cantina 3 quintali d’uva da un ettaro di vite). La loro non è un’ossessiva ricerca della perfezione, che pure c’è, ma l’esigenza di ottenere la massima purezza possibile, tanta è la loro fede nel lavoro contadino. Un rapporto che va ben oltre gestire un vigneto per ottenere vini eccellenti, per me comune mortale, peraltro ateo, è davvero difficile comprendere tanta abnegazione, tanto convincimento.


Illuminante il loro commento riportato da Gabriella Grassullo in un suo articolo del 2014 su Viniplus: “Sognavamo di fare un vino che riuscisse ad accarezzare il pensiero, la cultura e i sentimenti, per risvegliare il senso primordiale del gusto. Un prodotto sensibile e puro che potesse svelare il carattere del terroir e la spiritualità del produttore nel contesto unico e irripetibile di ogni vendemmia. Abbiamo creato questo vino senza compromessi, perché nessun prodotto chimico o biologico potesse influenzarne la purezza, il carattere ed il destino sensoriale. Un prodotto che nasce dal rapporto sacro e vitale che abbiamo con le piante, con l'energia del Cielo e il respiro della Terra. Un vino spirituale ed archetipo che migliora, anno dopo anno, il gusto del proprio tempo per diventare piacere, salute e ispirazione umana”.


Avrei potuto parlare di questo vino nella rubrica Invecchiato IGP, ma non mi sembrava il contesto giusto, perché ciò che ho potuto appurare va ben oltre il concetto di “invecchiamento” e mi lascia davvero senza parole. Dovete sapere che stappai questa bottiglia (sì, proprio quella di cui vi sto scrivendo) ben 7 anni fa, sufficienti per trasformare in aceto (nella migliore delle ipotesi) qualsiasi vino semplicemente ritappato con il suo sughero e messo in cantina, senza neanche aspirarne l’ossigeno. La quantità presente nella bottiglia era elevata, mancava solo quello che mi era servito per la degustazione fatta nel 2016, ma comunque di ossigeno ne è entrato abbastanza e sette anni sono davvero un’infinità di tempo.


Bene. Diciamo intanto che l’elevata alcolicità (16 gradi dichiarati in etichetta) può avere dato un leggero contributo alla sua stabilità, ma di certo non basta, ho dovuto buttare fior di Amarone dopo poche settimane dall’apertura, che di alcol ne avevano di più. L’unica ragione possibile per cui il vino che ho davanti è tutt’altro che defunto, è dovuta, ne sono certo, a quella attenzione certosina, a quel trattare pianta per pianta come figlie, al non avere mai usato chimica in vigneto, neanche rame o zolfo (quest’ultimo, proveniente da miniere in Polonia, è stato utilizzato fino al 2008), ad aver preferito vinificare in vetroresina, con macerazioni lunghissime che arrivano al totale dissolvimento del frutto; non so, non sono né agronomo né enologo, ma di fronte a me c’è qualcosa di inspiegabile, perché questo 2012, ottenuto da cabernet sauvignon e croatina, si è evoluto magnificamente, è tutt’altro che stanco, conserva un brio e una voglia di vivere ammirevoli, insomma lo sto bevendo con grande emozione. 


Scandagliandolo al microscopio sensoriale c’è sicuramente la percezione ossidativa (che però in parte era presente sin dall’inizio), ma questa sembra averlo esaltato in ogni sua particella, rendendolo unico nel suo genere, potremmo avvicinarlo, per vaga approssimazione, a un porto di trent’anni, per profondità e lunghezza, ma in realtà viaggia su un binario del tutto personale che mi lascia davvero sbalordito, fuori da qualsiasi canone vinoso.

Modena si conferma capitale italiana dello Champagne


La passione per le bollicine d’oltralpe non si ferma e Champagne Experience si conferma punto di riferimento a livello europeo per tutti gli operatori del settore e i wine lovers che desiderano conoscere le novità che animano la produzione del vino più famoso del mondo. Si è chiusa con un bilancio ancora una volta positivo Champagne Experience, manifestazione giunta alla sesta edizione e organizzata da Società Excellence, realtà che riunisce ventuno tra i maggiori importatori e distributori italiani di vini e distillati d’eccellenza.


Superano nuovamente quota 6000 gli accessi registrati all’ingresso dei padiglioni di ModenaFiere durante i due giorni di manifestazione, confermando i numeri dello scorso anno. In aumento i visitatori professionali che raggiungono il 78% del totale, confermando la vocazione e la missione di Champagne Experience, manifestazione che si rivolge principalmente agli operatori del mondo Horeca e del dettaglio specializzato. I visitatori, che sono giunti come di consueto da tutta Italia, hanno approfondito la loro conoscenza dello Champagne grazie alla presenza di 176 aziende, tra grandi Maison e piccoli vigneron, che hanno messo in degustazione più di 900 vini.

L’obiettivo era, come al solito, quello di mettere i tantissimi cultori dello champagne presenti in Italia nelle condizioni migliori per poter approfondire la conoscenza di questo magnifico vino” commenta Luca Cuzziol, Presidente di Società Excellence. “L’Italia è uno dei mercati di riferimento a livello mondiale per il consumo di Champagne, il più importante per quanto riguarda le cosiddette cuvée de prestige. Oggi possiamo dire che il nostro Paese, e Modena in particolare, ospita anche la manifestazione più importante d’Europa per quantità e qualità di aziende espositrici appartenenti al mondo dello Champagne”.


Una considerazione, quest’ultima, ormai riconosciuta anche dai tanti produttori che di anno in anno aumentano sempre di più la loro presenza – quest’anno sono state 35 le aziende in più rispetto all’edizione 2022 – e dai tanti osservatori sia nazionali che esteri. Tra questi anche Michel Bettane, uno dei critici più influenti di Francia, presente a Modena per la prima volta come conduttore di una delle master class in programma. “Sono stato inizialmente sorpreso e poi particolarmente entusiasta durante la mia permanenza a questa edizione di Champagne Experience. Frequento da sempre manifestazioni dove lo champagne è uno dei protagonisti, ma questo è stato certamente l'appuntamento più importante, dedicato alle bollicine francesi, al quale io abbia mai partecipato”. Particolarmente numerosa anche la partecipazione dei produttori francesi alla esclusiva cena di gala preparata dallo chef tre stelle Michelin Massimo Bottura, che si è svolta presso il Palazzo Ducale di Modena, sede dell’Accademia Militare.


Quest’anno il programma di masterclass è stato particolarmente ricco di appuntamenti, andati esauriti giorni prima della manifestazione. Molti gli approfondimenti tematici, come quello condotto da Geoffrey Orbán - "L'uomo che assaggia la terra" - che ha proposto un intenso viaggio tra i terroir della Champagne, con sorprendenti dimostrazioni basate su analisi tattili e olfattive.

Siamo molto soddisfatti dei grandi apprezzamenti che ogni anno Champagne Experience riceve da un po’ tutti i protagonisti, a partire dai produttori. Sono il frutto di un lavoro figlio di un modello imprenditoriale preciso, vale a dire quello portato avanti da Società Excellence e quindi dalle principali realtà nazionali che operano nel mondo della distribuzione dei vini e dei distillati di pregio. Siamo un esempio che non ha eguali in Europa, perché riesce a far coesistere insieme realtà che sono concorrenti sul mercato quotidianamente. Le migliaia di visitatori, per la maggior parte operatori professionali, che anche quest’anno sono giunte a Modena certificano la bontà del nostro progetto e la volontà di andare avanti con ancor più forza e determinazione” conclude Pietro Pellegrini, vicepresidente di Società Excellence.

InvecchiatIGP: Cantina Colacicchi Anagni – Torre Ercolana 1980


Ci sono gli inviti e poi ci sono gli Inviti, sì quelli con la i maiuscola, quelli a cui proprio non puoi dire di no soprattutto se ad inviarteli è la famiglia Trimani, storici enotecari che hanno fatto la storia del vino qua a Roma. L’occasione, imperdibile, riguarda la degustazione di una piccola verticale di Torre Ercolana, un vino del Lazio, per certi versi unico nel suo genere, del quale noi sommelier in erba ci siamo innamorati solo leggendo le bellissime parole di Armando Castagno sul numero 32 della rivista Bibenda. Il Torre Ercolana nasce ad Anagni attorno alla metà degli anni 40’ dall’intuizione del maestro Luigi Colacicchi, compositore ed etnomusicologo molto conosciuto in quel periodo, che, innamoratosi dei vini di Bordeaux, dopo la Seconda guerra mondiale decise di piantare in zona Romagnano, una fascia collinare che dalla città dei Papi va verso Ferentino, barbatelle di merlot e cabernet sauvignon accanto al vitigno principe del territorio ovvero il cesanese di Affile. Il vino, la cui prima annata fu il 1947, era talmente buono e talmente fuori gli schemi di allora che, qualche anno più tardi, entro nei “radar” di Marco Trimani, proprietario dell’omonima enoteca storica romana, tanto che questi decise di commercializzarlo inserendolo nelle carte dei vini dei più importanti ristoranti italiani dell’epoca.


Dopo la morte del Maestro Colacicchi, avvenuta nel 1976, l’attività agricola fu condotta per un breve tempo da suo nipote Bruno Colacicchi Caetani fino a quando, nel 1984, la famiglia Trimani decise di acquisire definitivamente l’azienda con l’intento e l’esigenza, grazie anche all’aiuto di Giacomo Tachis, di rinnovare profondamente sia i vigneti (aumentando la quota di cabernet sauvignon sostituendo i porta-innesti) che la cantina dove il parco legni è stato gradualmente sostituito con barriques e botti di rovere da 480 litri. La prima annata di Torre Ercolana prodotta dalla famiglia Trimani è stata la 1990 ma bisogna aspettare il 2014 affinché il progetto agricolo attorno all’azienda Colacicchi trovi nuovo impulso grazie alle energie di Carla, Francesco e Paolo Trimani, figli dell’indimenticato Marco, grazie ai quali, pochi mesi fa, ho avuto la fortuna di degustare una indimenticabile 1980.


La prima cosa che salta agli occhi, già dal colore, è la quasi totale assenza di cenni di ossidazione il che la dice lunga sulla vivacità di questo taglio bordolese “made in Anagni” la cui lucentezza trasuda i segni di una gioventù che stenta ad arrendersi cromaticamente.


Appena metto il naso nel bicchiere arriva la scossa, intensa e viscerale e penso che no, non può essere vero, non nel Lazio. Lo so, erano altri tempi, forse c’era un altro clima o una spensieratezza diversa, chissà, ma ciò che ora è nel mio bicchiere ha a che fare con qualcosa di immaginifico, impalpabile, la cui stratificazione aromatica ha nelle mille declinazioni odorose del viola il suo comun denominatore. Il tempo nel bicchiere non fa che arricchire ulteriormente il vino che, grazie all’ossigenazione, inizia a sprigionare sensazioni di scorza di arancia, erbe officinali essiccate, felce, canfora.


Lo degusti è da subito capisci la grandezza di questo vino grazie ad una bocca ancora armonica, elegante, profonda, dotata di tannino ancora vivo e fittissimo e ricco di sapienti richiami floreali. Come già scritto in passato, il Torre Ercolana 1980 è un vino che ti fa ripartire da capo, ti convince che forse nel Lazio si può giocare un’altra partita e, probabilmente, la famiglia Trimani, oggi, già sta affrontando la sfida.

Sergio Mottura – Latour a Civitella 2020


L’ultima annata con questo nome (dal 2021 il vino si chiamerà La Torre a Civitella per porre fine ad un contenzioso con Château Latour) è forse la miglior versione degli ultimi 10 anni.


Profluvio di agrumi, mandarino, erbe campestri e sensazioni minerali giocano con un sorso di rara definizione ed armonia.