Mario Macciocca - Monocromo #1 2016


di Roberto Giuliani

Qualcuno penserà di getto “ma 5 anni non sono mica tanti”, dipende! Non stiamo parlando di un grande Chardonnay in legno o per restare in Italia di un Fiano di Avellino o di un Verdicchio dei Castelli di Jesi. Questa è una Passerina del Frusinate, capace di alte produzioni in vigna, le cui origini non del tutto certe la fanno parente stretto del Trebbiano di Abruzzo e del Pagadebit. Non è certo conosciuta per la sua longevità!


La guida Vitigni d’Italia di Calò, Scienza e Costacurta, dichiara infatti: “Il vino presenta un colore variabile tra il paglierino e il giallo, di sapore asciutto, pieno, non adatto all’invecchiamento”. E più avanti “Può essere utilizzato fresco o dopo un breve appassimento. Solitamente in uvaggio con altre uve bianche, raramente in purezza”.

Mario Macciocca

Beh, dipende, in questo caso le mani e la testa di Mario Macciocca fanno la differenza, il Monocromo #1 è un’altra storia, è un vino che nasce dalla sua volontà di rispettare al 100% l’ambiente e l’ecosistema, di assecondare la vigna senza mai forzarla, tanto da essersi guadagnato un posto all’associazione VinNatur. In vigna solo rame e zolfo in quantità minime, in cantina fermentazione spontanea, niente solforosa aggiunta, insomma un bianco che per molti diffidenti è inconcepibile, rischia grosso, non è possibile che non vada alla deriva in tempi brevi.


Invece mi spiace deludere lor signori, il
Monocromo #1 2016 è semplicemente buonissimo, intenso, pulito, salmastro, profuma di aghi di pino ed erbe aromatiche, di uva passa e nespola, guizzi di nocciola, ricordi di ginestra.


Al palato un’acidità precisa rende il sorso asciutto, pieno, molto fruttato con cenni di confettura, non ha cedimenti, è lungo e rilascia le note di pesca gialla, nocciola e nespola, il finale è salino, avvincente, un esempio di come spesso si giudica male un vitigno, solo perché non è stato allevato nel posto e nel modo giusto. 
Peccato perché era l’ultima bottiglia in mio possesso…

Il Rosso Conero: il vino "marino" da rilanciare

Studio Marche, dopo essersi occupato di Verdicchio dei Castelli di Jesi, per la seconda puntata ha deciso di cambiare colore occupandosi di una delle DOC più rappresentative della Regione: il Rosso Conero.

Questa storica denominazione, che interessa i comuni di Ancona, Camerano, Numana, Sirolo, Osimo, Offagna Castelfidardo, ha come riferimento geografico il promontorio del monte Conero, unico promontorio della costa italiana Adriatica compresa tra Trieste ed il Gargano, che si erge sul mare e le colline che discendono dallo stesso verso l’entroterra.

Riviera del Conero - Foto: Turismo.it

Il territorio di produzione del Rosso Conero DOC, perciò, è un piccolo fazzoletto di terra di circa 350 ettari che, partendo ad est, ovvero dalla costa Adriatica, si inoltra per qualche chilometro verso ovest, all’interno delle colline retrostanti il rilievo montuoso del Conero, dove una morfologia dolce ed omogenea e un clima temperato creano condizioni ambientali uniche, caratterizzate da un’esposizione esemplare alla luce e alle brezze marine. La composizione dei terreni, in prevalenza calcareo argillosi a bassa fertilità, assicura inoltre la piena maturazione delle uve soltanto con un contenuto carico di grappoli per vite.

Territorio della DOC

Prima di addentrarci nella degustazione e nelle considerazioni finali, bisogna sottolineare che il disciplinare del Rosso Conero DOC prevede che questo vino sia prodotto con almeno l’85% di montepulciano al quale si può aggiungere a saldo un 15% di sangiovese.

Come sempre Alberto Mazzoni, direttore dell’Istituto Marchigiano Tutela Vini, durante la diretta zoom ci ha presentato sei vini, tutti montepulciano in purezza, e queste sono le mie brevi note di degustazione

Foto: Enzo Radunanza per Gazzetta del Gusto

Marchetti – Rosso Conero “Castro di San Silvestro” 2019: questa azienda storica, fondati ai primi dell’800 dall’Onorevole Giovanni Bonomi e ora seguita da Maurizio Marchetti (agronomo ed enologo), con il recente aiuto dell’amico Lorenzo Landi, ha presentato questo montepulciano in purezza dai caratteri fruttati e speziati. Peccato per una certa rusticità di fondo che toglio alla beva un filo di eleganza. Affinamento: acciaio e cemento.

Conte Leopardi Dittajuti – Rosso Conero “Fructus” 2018: l’Azienda Agricola Conte Leopardi Dittajuti è di proprietà dell’antica famiglia Leopardi Dittajuti ed è stata tramandata di padre in figlio per moltissime generazioni. Il vulcanico Piervittorio Leopardi, attuale proprietario assieme a Lidia, ci ha presentato il suo Rosso Conero dal naso giovanile e fruttato pur lasciando una scia di macchia mediterranea che ne prolunga la persistenza. Sorso vigoroso, con tannini ordinati e sostenuto da sensibile vena di freschezza sapida nel finale. Affinamento: barrique per due mesi.

Umani Ronchi – Rosso Conero “San Lorenzo” 2018: l’azienda, che non ha bisogno di presentazioni, ha portato in degustazione questo Rosso Conero che nasce da uve prodotte da un unico vigneto, il San Lorenzo, piantato nel comune di Osimo. E’ un vino molto complesso, vigoroso di aromi di amarena, prugna, mora, macchia marina e spezie orientali. Corpo robusto, sostenuto da tannini di razzza e adeguata verve acida. Invecchiamento: per 18 mesi in botti grandi (da 15 a 27 hl) di rovere francese e di Slavonia.

Fattoria Le Terrazze – Rosso Conero 2018: nella batteria dei sei vini presentati, lo anticipo, questo Rosso Conero prodotto da Antonio Terni è stato quello da me preferito, vuoi per la sua eleganza e leggiadria, vuoi per il suo grandissimo equilibrio, figlio anche di un tannino assolutamente cesellato, vuoi per un finale sapido che esalta la beva di questo montepulciano in purezza che berrei a secchi anche d’estate dopo un leggero passaggio in frigo. Il Rosso da pesce per antonomasia! Affinamento: 12 mesi in botti di legno 30 hl.

La Calcinara – Rosso Conero “Il Cacciatore dei Sogni” 2018: l’azienda, diretta dai fratelli Paolo e Eleonora, rispettivamente classe ‘81 e ‘87, prende il nome perché situata sul poggio più calcareo e aperto del paese di Candia. Questo Rosso Conero ha un naso ricercato e ricco di sfumature, con spunti di frutti di bosco ma soprattutto di resina, ginepro e iodio. La bocca è una vertigine di sensazioni articolate e territoriali che rendono questo montepulciano piacevolissimo e di grande sapidità marina. Affinamento: acciaio e botti grandi.

Moroder – Rosso Conero 2017: la nascita del complesso agricolo risale alla metà del ’700, quando i Moroder, originari della Val Gardena, si spostano ad Ancona e acquistano i terreni sui quali oggi sorge l’azienda. Questo vino, il primo e unico presentato del 2017, fa capire le grandi possibilità evolutive di un Rosso Conero in quanto ancora oggi, a tre anni dalla vendemmia, è assolutamente vivace e complesso nei suoi richiami olfattivi di more, mirtilli, corteccia, china, spezie nere e ritorni balsamici. Al gusto è carnoso, di grande equilibrio grazie ai suoi tannini morbidi supportati da una spina dorsale acido-sapida di grande potenza. Ottima la progressione gustativa. Affinamento: per 18 mesi in botti grandi (da 15 a 27 hl) di rovere francese e di Slavonia.

Considerazioni finali

Durante la degustazione con i sei vignaioli ed Alberto Mazzoni è uscita fuori la problematica circa l’identità attuale del Rosso Conero che andrebbe fortemente rilanciata anche per via del suo ottimo rapporto qualità\prezzo. Come fare? La mia proposta è abbastanza semplice ed è qualcosa che è stato attuato in passato anche dallo stesso Consorzio di Tutela ovvero agganciare fortemente la denominazione al terroir di riferimento rievocando l’incontro tra il mare Adriatico, con le sue splendide spiagge, e la viticoltura del Conero. 

Foto: La Stampa

Un terroir unico che può creare un brand tale da considerare il Rosso Conero come il vino rosso da pesce per eccellenza non solo per la costa Adriatica ma anche per tutta l’Italia. Come arrivare a questo risultato? Cercando di produrre meno, meglio, cercando di alleggerire il montepulciano da ogni orpello, magari evitando un sontuoso uso del legno, così come ha fatto, per esempio, Fattoria Le Terrazze col suo Rosso Conero. Bisogna puntare sulla piacevolezza di beva, su vini diretti e croccanti, lasciando al Conero DOCG l’ambizione di essere il rosso più importante e complesso delle Marche.

Podere Selva Capuzza - Garda Classico Chiaretto DOC “San Donino” 2020

Groppello, Barbera, Sangiovese e Marzemino, poche ore di macerazione, ed ecco il vino del Lago per eccellenza, un Chiaretto leggiadro e spensierato nei suoi effluvi aromatici di mandarino, pompelmo rosa e lampone su sfondo minerale. 


Il sorso è pura freschezza e bevibilità tanto che la bottiglia finisce in un amen. W il Chiaretto!

Barone Pizzini: l'anima verde della Franciacorta!

"Non chiamatelo Spumante". Sembra uno slogan, ma per Silvano Brescianini, direttore generale dell’azienda Barone Pizzini e Presidente del Consorzio Franciacorta, le parole sono importanti e tra uno spumante e un Franciacorta passa tutta la differenza del mondo che porta ad un solo termine: territorio. Se a quanto scritto si può ribattere che si tratti (anche) di marketing vi potrei rispondere, e lo farebbe probabilmente anche lo stesso Brescianini, che in Francia lo Champagne prende il nome dal suo territorio di origine e nessuno si azzarda a chiamarlo diversamente da oltre 300 anni.

Silvano Brescianini

Lo stesso legame con la Franciacorta lo ha anche l’azienda fondata nel 1870 da Enrico e Bernardino Pizzini, eredi della casata asburgica Pizzini Piomarta von Thumberg, che fin da subito si sono distinti come agricoltori illuminati.
Giulio Pizzini Piomarta Von Thurberg. Da questa data, vari discendenti si susseguirono alla guida della cantina sino all’ultimo, il Barone Giulio Pizzini (1916-1995) che ebbe un ruolo determinante nello sviluppo della viticoltura in Franciacorta (nel 1967 fu tra i fondatori della DOC Franciacorta). Fu proprio lui, alla fine degli anni ’80, a coinvolgere nella proprietà un gruppo di imprenditori appassionati al mondo enologico, gettando così le basi dell’attuale azienda diretta oggi da Silvano Brescianini che, nel 1993, dopo un glorioso passato nel mondo della ristorazione (ha lavorato anche al San Domenico di New York col mitico Tony May) è stato uno dei soci fondatori della nuova Barone Pizzini che è stata la prima cantina a produrre Franciacorta da viticoltura biologica certificata, ovvero utilizzando per la coltivazione e il nutrimento delle viti solamente sostanze naturali o che l’uomo può ottenere con processi semplici, senza ricorrere a prodotti chimici, diserbanti, OGM, fertilizzanti o pesticidi di sintesi.


Essendo stato per tanti anni dall’altra parte della barricata – osserva Brescianini – ho sempre ragionato con un approccio da consumatore e permettere l’uso in vigna, ad esempio, di un diserbante o di un sistemico, che possono essere cancerogeni, ti porta con un minimo di buon senso a chiederti se è davvero necessario l’uso della chimica perché poi, inevitabilmente, questa roba ce la troviamo anche nel bicchiere di vino che beviamo a tavola”.
Questi ragionamenti hanno trovato concretezza grazie ad un incontro con Pierluigi Donna, il maggior conoscitore di tecniche agronomiche bio, al quale Brescianini rivolge la fatidica domanda: “In Franciacorta si può coltivare la vite in modo non invasivo e di maggior tutela della natura rispetto al sistema convenzionale?”. 


Dalla risposta, che fu ovviamente “Certo!”, è nata una collaborazione, che dura ancora oggi, e che ha portato Barone Pizzini a fare la prima prova di biologico nel 1998, e dal 2001 tutti i vigneti ottengono la certificazione A.B attraverso il solo uso di zolfo e rame nelle loro composizioni più semplici ed in quantità limitate e controllate mentre contro insetti nocivi si usano esclusivamente derivati naturali da piante o batteri.


Il concetto di sostenibilità ambientale in Barone Pizzini è anche questione di coerenza e Brescianini, durante l’intervista che mi ha concesso, mi ha regalato un aneddoto molto importante: ”Tempo fa il produttore di etichette col quale collaboravamo era molto in ritardo con la consegna perché, mi ha spiegato, l’inchiostro usato per stamparle non veniva più dalla Germania, dove era stato messo al bando per la sua tossicità, ma dall’Est Europa dove era ancora permesso produrlo. Da quel momento, era il 2001, presi la decisione ovviamente di cambiare fornitore perché non illogico produrre un vino bio e poi usare materiali non conformi alla nostra idea “green” che va ad abbracciare anche l’uso di bottiglie meno pesanti oppure l’uso di capsule meno spesse (circa 50 micron contro la media che si attesta attorno agli 80\100 micron) in modo da ridurre i materiali utilizzati e i relativi rifiuti”.


L’impegno ambientale dell’azienda franciacortina non poteva non riguardare anche l’attuale cantina che nel 2006 è stata costruita secondo i criteri dell’architettura ecocompatibile. Ogni scelta architettonica è stata progettata per avere un basso impatto ambientale e un limitato consumo energetico. I pannelli fotovoltaici, il sistema naturale di condizionamento, l’impiego di pietra e legno, la fitodepurazione delle acque, sono tutti accorgimenti che fanno della sede produttiva di Barone Pizzini una cantina BIO.


Oggi la Barone Pizzini si estende in Franciacorta, all’interno dei Comuni di Provaglio d’Iseo, Corte Franca, Adro e Passirano, su 54 ettari divisi in 29 particelle (con altitudine variabile dai 200 ai 350 metri s.l.m.) dove pinot nero, chardonnay, pinot bianco ed erbamat (antico vitigno, dalla spiccata acidità, che dal 2017 è stato inserito nel disciplinare del Franciacorta DOCG) sono piantati su suoli in parte morenici, arricchiti da deposizioni fluvioglaciali. Questa grande eterogeneità, che per una cantina rappresenta un grande potenziale di qualità, viene sfruttato anche in cantina dove, attraverso un minuzioso lavoro di selezione, si arrivano a gestire anche 70\80 vini ovvero frazioni di parcelle che poi andranno successivamente e sapientemente assemblati.


Grazie ad una diretta Instagram e ad una precedente riunione ZOOM col gruppo di Garantito IGP ho potuto recentemente degustare tutta la produzione di Franciacorta DOCG di Barone Pizzini e, di seguito, trovate le mie impressioni gustative:


Barone Pizzini - Franciacorta Extra Brut DOCG “Animante” (tiraggio 04\2018 – sboccatura 03\2020): questo vino, il cui nome è un chiaro riferimento all’anima e lo spirito aziendale, è frutto del blend di chardonnay (84%), pinot nero (12%) e pinot bianco (4%) provenienti da tutti i vigneti dell’azienda. Questo Franciacorta, vero e proprio biglietto da visita di Barone Pizzini, essendo il vino numericamente più prodotto, conferma le attese rivelando profumi di crosta di pane, gelatina di cedro, cenni di frutta secca ed echi minerali. Piacevole la bocca: quasi da manuale il tratto acido-sapido che ben si intreccia con una struttura vibrante dominata da una persistenza di buona lunghezza sapida.


Barone Pizzini – Franciacorta Brut Dosaggio Zero DOCG “Animante L.A.” (tiraggio 04\2014 – sboccatura 03\2020): in questo Franciacorta, blend di di chardonnay (78%), pinot nero (18%) e pinot bianco (4%), l’anima del terroir franciacortino di Barone Pizzini viene esaltato da un lungo affinamento del vino sui lieviti che arriva fino a ben 70 mesi. L’annata mediamente calda si fa sentire donando un olfatto molto intenso e ricco di sfumature che vanno dalla frutta matura fino a quella secca all’interno di un insieme elegante ed integro. Sorso bilanciato nonostante il volume del vino la cui persistenza lievemente salina dona al palato freschezza invogliando al prossimo bicchiere.

Barone Pizzini – Franciacorta Brut Dosaggio Zero DOCG “Animante L.A.” (tiraggio 03\2012 – sboccatura 07\2018): rispetto al precedente c’è un cambio deciso di passo grazie all’annata (2011) molto più fresca ed equilibrata della 2013. Grande finezza aromatica con note di fiori di campo, crosta di pane, agrumi, ananas, mandorla amara fino ad arrivare al miele e al pane all’uva. Complesso e profondo in bocca, sostenuto e slanciato da una lunga sinergia acido-sapida. Ancora giovanissimo. Ad avercene!


Barone Pizzini – Franciacorta Brut Nature “Naturae” 2016: questo Franciacorta (70% chardonnay e 30% pinot nero) nasce parzialmente dal vigneto più alto aziendale, denominato Pian delle Viti, denominato nel Medioevo la Valle Sospesa, e caratterizzato da un terreno prettamente calcareo. Naso molto algido solcato da sensazioni di gelsomino, pompelmo e melissa che riposano su uno sfondo minerale ben delineato. Teso all’assaggio, segnato da vibrante nota salina e un retrolfatto che sottolinea i ritorni di agrumi e fiori di campo.


Barone Pizzini – Franciacorta Satèn 2016: chardonnay in purezza che si fa apprezzare per la sua eleganza, sia nel perlage soffice e sottile, sia nel comparto aromatico dove si sviluppano delicatamente nuance di mandarino, mela annurca, caprofoglio, salvia e pompelmo rosa. Bocca fine, longilinea, di eccellente equilibrio e con un finale dove ritorna la prepotenza agrumata a pulire il palato.


Barone Pizzini - Franciacorta Extra Brut Rosé 2016: questo Franciacorta (70% pinot nero e 30% chardonnay) ha un coinvolgente apparato aromatico ricco di sfumature che richiamano le erbe aromatiche, il ribes, la melagrana, i mirtilli e la macerazione di rosa, il tutto all’interno di un climax di raro appagamento minerale. All’assaggio sorprende per sapidità setosa e vivace acidità, entrambe in grande equilibrio all’interno di una trama strutturata, golosa e dai richiami aromatici di frutta e mineralità rossa.


Barone Pizzini - Franciacorta Dosaggio Zero Riserva DOCG “Bagnadore” 2011: prodotto a partire da chardonnay (60%) e pinot nero (40%) provenienti da un’unica vigna di venti anni (Roccolo di Provaglio d’Iseo), questo Franciacorta rappresenta il top di gamma di Barone Pizzini grazie ad un affinamento sui lieviti di almeno 70 mesi (circa 6 anni) prima della sboccatura. La grande complessità donata dal tempo la possiamo percepire nettamente già al naso dove esplodono i fiori bianchi e i lieviti, la pesca bianca, la mandorla in pasta per poi proseguire su effluvi di torroncino, miele, distillato ed erbe officinali. Il sorso è sontuoso, aristocratico, pieno di decisa sapidità, vivace freschezza grazie anche ad un perlage armonioso ed avvolgente. Finale di notevole persistenza su ricordi di agrumi e variegata mineralità. Un grande Franciacorta senza se e senza ma!

Un vitigno famoso ma non troppo. Poderi dal Nespoli e il suo Rubicone IGT Famoso 2019


di Lorenzo Colombo

Sarà anche “Famoso” di nome, ma per la verità non è che questo vitigno a bacca bianca sia in realtà molto conosciuto e quindi “famoso”. 

Vediamo quindi di conoscerlo meglio.

Nel passato, in Romagna, c’erano due vitigni che venivano chiamati “Famoso”, uno, coltivato principalmente nel Cesenate era abbastanza simile all’Albana, l’atro invece, più diffuso nel Riminese e nel pesarese (quindi anche nel nord delle Marche), era più simile al Trebbiano. Entrambe erano utilizzate principalmente come uve da tavola. Il luogo d’origine del vitigno parrebbe però essere la Toscana, e precisamente la Val di Pesa. La Rambella viene citata dal Marzotto nel 1825 ed in seguito compare in numerosi bollettini ampelografici dell’ottocento. Nella sua relazione sui vitigni romagnoli, il prof. Alessandro Pasqualini, direttore della Regia Stazione Agraria di Forlì, nel 1889 scriveva al proposito del Famoso “Il Famoso di Cesena ha grappolo grande serrato e alato, acini medi rotondi, ricoperti di velo cereo: tralcio a internodi assai lunghi: sembra potersi classificare nel gruppo delle Albane; è dissimile dal Famoso di Pesaro”.


Nell’Ampelografia dei vitigni romagnoli, Antonio Bazzocchi nel 1923 forniva una descrizione dettagliata del vitigno “Vitigno Cesenate di pregio discreto ma pochissimo coltivato. Matura nella seconda decade di settembre. Media delle misurazioni glucometriche: 15,64%. Tralcio robusto, color cannella chiaro, internodi molto lunghi, gemme medie color ruggine. Foglia quinquolobata a dentatura irregolare; pagina superiore verde scuro, inferiore lanugginosa: picciolo breve, sottile e roseo, nervature robuste. Grappolo grande, serrato ed alato: acini medi, rotondi, color verdastro, ricoperti da pruina cerosa: polpa a sapore dolce, vinaccioli in numero di due”.


Più recentemente, siamo infatti nel 1977, il Manzoni va più a ritroso nel tempo e scrive in merito alla Rambella “uva da tavola venduta anticamente fresca sulle piazze. Elencata nella Tabella del Dazio Comunale di Lugo del 1437”.
L’attuale Famoso, che ha come sinonimo principale “Rambella”, ma anche Uva rambella, Valpeisa, Valdoppiese, è stato inserito nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite nel Marzo del 2009 ed è ammesso nella produzione di cinque vini ad Igt dell’Emilia-Romagna. Lo stesso vitigno è attualmente in “osservazione” per quanto riguarda la regione Marche.


Gli ettari vitati, secondo l’ultimo censimento agricolo, che risale al 2010, risultavano essere solamente 6 (sei), anche secondo la più recente pubblicazione dell’Università di Adelaide “Which Winegrape Varieties are Grown Where”, revisione della prima edizione -risalente al 2013-, edita nel 2020 e che prende in considerazione la superficie vitata nel mondo, paese per paese, di oltre 1.700 vitigni, la superficie vitata della Rambella risulta essere di 6 ettari, ma pensiamo che abbiano preso i dati dal famoso censimento del 2010. 



Questi dati però non corrispondono assolutamente a quanto scrive l’enologa Marisa Fontana in occasione della pubblicazione di “Tre vitigni tra tradizione ed innovazione”, editato il 23 marzo 2019 in occasione della Mostra Mo.Me.Vi. (Mostra Meccanizzazione in Viticoltura), tenutasi a Faenza, parrebbe infatti che gli ettari vitati siano molti di più, oltre 70 nel 2018 (vedi grafico). Quest’ultimo dato viene confermato anche dall’articolo pubblicato il 26 luglio del 2020 su Settesere dove si parla di 80 ettari. 
Anche i dati forniti dalla Regione Emilia-Romagna, nella sua pubblicazione “IL FUTURO DELLA VITIVINICOLTURA DELL’EMILIA ROMAGNA TRA CAMBIAMENTI CLIMATICI E INNOVAZIONE” riferiscono di circa 67 ettari, nel 2018. Pare piuttosto strano che in così poco tempo la superficie vitata del Famoso si sia così ampliata, quindi, come ultimo dato forniamo la produzione di barbatelle nel corso degli anni, a partire dalla data di pubblicazione del vitigno nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite ad oggi (vedi tabella).

Ora non ci rimane che andare a degustare il vino, e precisamente il Rubicone IGT Famoso 2019 di Podere dal Nespoli.

Podere dal Nespoli

L’Azienda Poderi dal Nespoli dal 2010 fa parte del Gruppo Mondodelvino, grossa realtà con sede a Priocca, nel Roero, della quale avevamo scritto nel luglio dello scorso anno in occasione della presentazione di Wine Experience, un innovativo Museo didattico dedicato al vino (vedi).


La sua storia però parte da molto lontano, dal 1929, quando Attilio Ravaioli - che una decina d’anni prima aveva aperto l’Osteria Da Tilio- per far fronte alle richieste di vino della casa inizia i lavori di ampliamento della cantina. Antonio e Amleto, figli di Attilio, decidono di cedere la gestione della trattoria e di dedicarsi unicamente alla produzione di vino, per questo motivo acquistano il Podere Prugneto ed iniziano a produrre Sangiovese da uve di proprietà. Si aggiungono poi vigneti di Albana e Trebbiano e nasce la F.lli Ravaioli. 
Negli anni sessanta è Valerio, figlio di Amleto a dare nuovo impulso all’azienda, puntando sul Sangiovese e sul concetti di Cru, nasce il Prugneto, Sangiovese Superiore da singolo vigneto.

Celine

Negli anni ottanta l’azienda viene ampliata e rimodernata ed a guidarla, a Valerio si affianca Fabio, figlio di Antonio, viene inoltre cambiato il nome dell’azienda, che diventa Azienda Agricola Poderi dal Nespoli. Nel 2004 per la prima volta è Celine, figlia di Valerio a fare il vino e a quanto pare molto bene, ne è la prova l’ottenimento nel 2006 del prestigioso riconoscimento dei Tre Bicchieri da parte della Guida Vini d’Italia del Gambero Rosso a “Il Nespoli Sangiovese Riserva”. Siamo infine ai giorni nostri, quando a fine 2009 Poderi dal Nespoli entra a far parte del gruppo MGM, fondato da Alfeo Martini nel 1991, la parte produttiva rimane comunque nelle mai di Celine, quarta generazione della famiglia Ravaioli.

Il vino

I vigneti si trovano nella Valle del Bidente, nel forlivese, i suoli sono limosi ed il sistema d’allevamento è a Guyot, la vinificazione (in bianco) viene effettuata in vasche d’acciaio dove il vino poi s’affina.


Color verdolino scarico. Intenso e fruttato al naso, fresco e pulito, frutta a polpa bianca fresca, mela, pesca bianca, pera, note d’agrumi, pompelmo, leggeri accenni aromatici. Fresco alla bocca, con spiccatissima vena acida, quasi tagliente, sapido, agrumato, lime e pompelmo verde, leggero di corpo, vi ritroviamo la frutta bianca, mela in primis, buona la sua persistenza.

Benvenuto Brunello OFF 2021: il mio report sull'annata 2016 e i vini da acquistare!

Al ritorno da Benvenuto Brunello “OFF” 2021 sono tante le sensazioni e le emozioni che devo cercare di analizzare col giusto distacco e, credetemi, non è per nulla facile sia perché questa edizione sarà ricordata per essere la prima, e speriamo anche ultima, ad essersi svolta in piena emergenza pandemica, sia perché i Brunello in degustazione, annata e selezione 2016, e Riserva 2015, appartengono a due annate osannate soprattutto dalla critica internazionale anche perché eccezionalmente consecutive.


Prima di parlare specificatamente delle annate e dei migliori vini degustati, vorrei anzitutto fare un plauso all’organizzazione di questa manifestazione che si è svolta nel Chiostro del Museo di Montalcino con sessioni aperte sia agli addetti ai lavori sia ai wine lovers per un massimo di 25 ingressi.

Come enoblogger e critico di settore sono stato invitato a partecipare alla sessione del 20 marzo dove i partecipanti, una volta espletati i controlli anti-Covid, sono stati accompagnati a postazioni già assegnate e ben distanziate l’una dall’altra per avere al tempo stesso comfort e massima sicurezza. Altra particolarità di questa edizione “pandemica” è stata la presenza in sala di tanti sommelier AIS dotati di mascherina e visiera facciale che, con grande impegno e professionalità, hanno esaudito ogni mia richiesta di degustazione con estrema precisione e velocità. Un plauso a loro perché lavorare così non è semplice e ci vuole tanta, tanta passione!


Fatti i giusti complimenti al Consorzio del Vino Brunello di Montalcino per la gestione complessiva della manifestazione, e prima di entrare nel merito dei sangiovese degustati, vorrei fare una premessa che ritengo importante: non ho assolutamente provato i Brunello di Montalcino di tutte le aziende presenti, impossibile farlo in un solo giorno, figuriamoci in cinque ore (la mia sessione era dalle 10 alle 15) dove solo i Brunello “annata” 2016, escluse le selezioni e le Riserve 2015, erano oltre 140 campioni. Contento per coloro che sbandierano ai quattro venti di esserci riusciti alla grande ma, per rimanere lucido nelle valutazioni, ho dovuto fare delle scelte preliminari concentrandomi solo ed esclusivamente sui Brunello 2016 annata e selezione\vigna.

2016: una annata a cinque stelle a Montalcino


Se volete capire perché questo millesimo ha preso il massimo dei voti, su Youtube è presente un video di qualche minuto dove tre grandi enologi, Paolo Vagaggini, Carlo Ferrini e Maurizio Castelli, spiegano le caratteristiche di questa vendemmia che in questo caso, per rapidità, cerco di riassumere con le parole di Cecilia Leoneschi, enologa di Castiglion del Bosco:” La vendemmia 2016 è stata caratterizzata da un inverno e una primavera piuttosto miti con temperature minime più elevate della media. Questo ha portato ad un leggero anticipo nel germogliamento e una bella espressione vegetativa delle viti. L’estate è stata fresca e mite rallentando le maturazioni che si sono protratte lente e molto equilibrate. Tannini maturi, ricchezza in colore e buone acidità hanno quindi caratterizzato il Sangiovese di questa eccellente annata. La vendemmia è iniziata con un leggero anticipo ed è terminata però intorno alla metà di ottobre come spesso accade nelle grandi annate. Si registra un ottimo equilibrio nelle maturazioni del Sangiovese, questo dovrebbe portare a vini ricchi ma anche molto eleganti.”

Quelli più bravi di me parlano perciò della 2016 come di una annata finalmente “classica” ovvero caratterizzata dalla mancanza di quegli eccessi climatici (troppo caldo, troppo freddo, troppe piogge) che spesso e volentieri in questi ultimi anni, causa cambiamenti climatici in corso, hanno segnato i profili organolettici del vino nel bicchiere.

Fabrizio Bindocci - Presidente Consorzio Brunello di Montalcino

Se siete arrivati fino a qua nella lettura sarete sicuramente curiosi, almeno lo spero, di sapere finalmente quali sono i vini che mi hanno emozionato di più durante le cinque ore di degustazione del Brunello di Montalcino “OFF” 2021.

Ecco a voi la classica dei migliori 10 vini degustati….più cinque!

Agostina Pieri – Brunello di Montalcino 2016: era la prima azienda in degustazione (numero 1) e come tale poteva soffrire il fatto di poter essere “schiacciata” dai tanti assaggi successivi. Ed invece il Brunello di Agostina Pieri, con vigne a sud situate sotto Castelnuovo dell’Abate, mi e rimasto in testa anche dopo oltre 50 vini. Il suo sangiovese in purezza è l’emblema che la 2016, anche nelle zone meno fresche di Montalcino, ha dato vita a Brunello espressivi, succosi e ben dosati in tutte le componenti strutturali che in questo caso sono cesellate da mano di vignaioli sapienti.

Canalicchio di Sopra - Brunello di Montalcino 2016: da sangiovese proveniente dai due cru aziendali (Canalicchio 40% e Montosli 60%) nasce questo Brunello che durante l’anteprima mi ha sorpreso per il suo impatto aromatico di spezie orientali che per un attimo mi hanno riportato all’interno di un suk di Marrakesh. Poi, col tempo, arrivano sensazioni rarefatte di ciliegia e rosa. In bocca ho riscontrato una intrigante sapidità che ben si amalgama ad un tannino levigato.

Castello Tricerchi – Brunello di Montalcino 2016: gli Squarcia, che da qualche anno hanno ripreso in mano le redini dell’azienda di famiglia, si stanno impegnando tremendamente per cercare di ridare la giusta dimensione qualitativa ai loro vini. Seguo da sempre il loro percorso lavorativo e penso che questa 2016, finalmene, sia pura sublimazione del loro sangiovese da Brunello che è pura commistione tra leggerezza floreale ed eleganza agrumata che in questa annata hanno avuto una impuntatura più profonda e varietale. Sorso pieno, equilibratissimo, di piacevolezza infinita. Vino squisito.

Castello Romitorio – Brunello di Montalcino “Filo di Seta” 2016: per onestà intellettuale devo ammettere che i vini di questa azienda non sono quasi mai stati nelle mie corde, li ho trovati sempre leggermente “eccessivi” per i miei gusti. Pertanto, trovarmi il loro Brunello di Montalcino segnato sul Moleskine come uno dei migliori per me è stata una piacevolissima sorpresa e non poteva essere altrimenti visto che, in particolare, la loro Selezione esplode bel bicchiere con un caleidoscopio di profumi che vanno dalla marasca alla violetta fino ad arrivare agli agrumi freschi e alla macchia mediterranea. Capace all’assaggio di accelerazioni spaventose, delizia soprattutto il finale di bocca con ritorni agrumati e di radici. 

Fattoi – Brunello di Montalcino 2016: non capisco come questa piccola azienda famigliare, che da anni sta producendo Brunello di Montalcino di stile e territorialità impeccabili, sia ancora sottovalutata e fuori da certi radar. Vabbè, ci provo io ancora una volta a consigliarvi il loro Brunello di Montalcino che nel 2016 potrebbe essere preso come campione didattico da mandare a tutte le scuole di vino per far comprendere a a tutti gli appassionati quale sono le caratteristiche non solo del sangiovese toscano ma, soprattutto, del sangiovese di Montalcino prodotto in annate baciate da Bacco come questa. Vibrante, di impatto, giustamente tannico, profondo e con un pizzico di austerità, il Brunello di Montalcino di Fattoi scala tutte le posizioni per espressività.

Il Poggione – Brunello di Montalcino 2016: se nella letteratura mi chiedessero di nominare un grande classico probabilmente citerei la Coscienza di Zeno di Italo Svevo. Stessa cosa per il cinema dove, probabilmente, proporrei Colazione da Tiffany, con la grande Audrey Hepburn, icona di stile ed eleganza senza tempo. Tornando al vino, a Montalcino per me una delle poche aziende che incarna classicità, finezza e sobrietà è Il Poggione che da sempre produce sangiovese viscerale e profondo. Ennesima prova questa 2016 che sa di viola, muschio e di una letterale macedonia di piccoli frutti rossi. Una delizia così come lo è la bocca, elegante, setoso, coinvolgente e dalla grande persistenza floreale e fruttata.

Pietroso – Brunello di Montalcino 2016: non so è se il vino più buono degustato all’Anteprima ma sicuramente è uno di quelli che tutti noi critici abbiamo premiato. Naso classico e didattico su sensazioni di ribes, ciliegia, rosa, radici, sfumature di ruggine e un tocco di erbe balsamiche. Profilo gustativo sicuro, autorevole, ricco eppure coordinato e vibrante. Procede in perfetto equilibrio fino ad un epilogo che lascia senza fiato per purezza fruttata, carisma e incredibile persistenza. Uno tsunami emozionale.

Le Ragnaie – Brunello di Montalcino 2016: se c’è a Montalcino un sangiovese etereo, sospeso tra terra e cielo, questo è quello di Riccardo Campinoti che in attesa di far uscire le sue Selezioni, sorprende ancora una volta con un vino “base” i cui profumi esibiscono un flusso flebile di ribes, buccia di pesca, arancia rossa, fioritura estiva, mirra e terra rossa. Al momento dell’assaggio si è appagati per la pienezza e la misurata struttura. Emerge una acidità dal ricordo di agrume che sostiene una struttura di suprema eleganza e tensione sapida. Finale adamantino, da emozioni violente.

San Lorenzo – Brunello di Montalcino 2016: Luciano Ciolfi, come suo nonno Bramante, è un artigiano del vino a Montalcino per cui conosce ogni centimetro delle sue vigne. In una annata come questa Luciano, col pragmatismo agricolo che possiamo riconoscere solo a chi vive le sue vigne 365 giorni all’anno, 24 ore su 24, ha giocato facile portando in cantina sangiovese di qualità eccelsa così come lo è il suo Brunello 2016 dal bouquet di splendida articolazione aromatica dove ritrovo il pot-pourri di rose e viole che introduce uno sfilare di note di marasca, corteccia, felce, erbe aromatiche, il tutto impreziosito da chiaro-scuri minerali. Sorso disteso ed elegante, compiutamente armonico, in cui l’apparire del tannino, appena aristocratico, prelude ad un finale di nobile trama fruttata, leggermente salina. Non so se è il miglior Brunello “base” prodotto da Ciolfi ma poco ci manca. Chapeau!

Celestino Pecci – Brunello di Montalcino 2016: l’azienda guidata da Tiziana Pecci, sotto lo sguardo di suo papà Celestino, si trova a pochi passi dall’Abbazia di Sant’Antimo. Il loro Brunello di Montalcino lo potrei inserire senza dubbio nella categoria “gioielli nascosti” perché, diciamocelo chiaramente, Pecci è una piccola realtà che ancora in pochi conoscono. Grazie al suggerimento di Carlo Macchi, sangiovesista fino al midollo, ho finalmente apprezzato il loro vino che sa di erbe officinali, terra battuta, violetta, mirtillo con lieve sensazione salmastra sul fondo. Bocca di classe e di magnifica austerità; pieno equilibrio e finale lunghissimo. Un fuoriclasse per adesione territoriale


Altre segnalazioni sparse di grandi Brunello di Montalcino 2016

Tiezzi – Brunello di Montalcino “Vigna Soccorso” 2016: l’assaggio di questo sangiovese in purezza rivela ancora una volta che Vigna Soccorso è, per dirlo alla borgognona, uno dei Grand Cru di Montalcino. Quest’anno sembra leggermente più domato del solito ma non meno profondo.

Poggio di Sotto - Brunello di Montalcino 2016: come sempre il vino prodotto da Claudio Tipa incanta per luminosità e assenza di peso specifico.

Salvioni La Cerbaiola - Brunello di Montalcino 2016: molto classico ma tutt’altro che austero: viola, ciliegia ed eucalipto si intrecciano assieme ad un tocco minerale per un vino dall’assaggio toccante che si scioglie in straordinaria persistenza.

Mastrojanni – Brunello di Montalcino “Vigna Loreto” 2016: leggermente più contratto del solito, rimane un grande sangiovese ricco di sfumature speziate e fruttate. Bocca di impatto, piena, dotata di veemente spinta sapida.

Le Chiuse – Brunello di Montalcino 2016: puro di ciliegia e viola, struggente il sorso con un tannino levigatissimo e una chiusura salina e floreale.


Conclusioni

La 2016 è stata davvero, come ho letto, l’annata del secolo per il vino di Montalcino?

Prima di rispondere partiamo da un presupposto importante: questo millesimo, grazie al suo equilibrio climatico generale, è stato davvero importante per il vino italiano. Ho degustato dei 2016, a partire dal Trentino fino ad arrivare alla Sicilia, davvero emozionanti per cui a Montalcino, dove si respira vino 365 giorni l’anno, bisognava impegnarsi tanto per dar vita a prodotti meno che buoni.

Gli assaggi effettuati durante Brunello Off hanno confermato, almeno dal mio punto di vista, che la qualità media dei vini, in passato magari altalenante a seconda delle diverse zone di produzione, è stata davvero alta tanto che, anche confrontandomi con i giudizi dei colleghi, le valutazioni più basse partivano da almeno 85 punti con una media di oltre 90.

I vini, almeno quelli da me degustati, sono assolutamente espressivi, profondi, capaci, soprattutto le selezioni di vigna, di leggere in maniera minuziosa le sfumature del terroir di riferimento (nord\sud Montalcino, etc..) e ricchi di profumi tipici del grande sangiovese.

Quello che salta all’occhio o, meglio, al palato, è che i Brunello di Montalcino 2016 sono gustativamente lo specchio di questa annata ovvero di grande equilibrio. Già, scordatevi vini dalle durezze sferzanti come, spesso, accadeva negli scorsi anni. Scordatevi, mediamente, i classici Brunello di Montalcino da tenere in cantina per almeno 10 anni prima di poterli degustare al meglio.

No, i Brunello 2016 sono qui per farsi bere e per essere goduti ora. Regalano emozioni immediate per cui non mi sorprendono gli altissimi voti della stampa anglosassone perché, in questo millesimo, il Brunello di Montalcino è diventato un vino di respiro internazionale rimanendo però, fortunatamente, ben ancorato al DNA del suo unico pilastro chiamato sangiovese.

La domanda che mi faccio e che vi faccio è la seguente: se il Brunello di Montalcino, oggi, è un vino godibile fin da subito, ready to drink come direbbero gli americani, la 2016 è davvero una delle più grandi annate mai viste nel territorio?

La risposta è abbastanza semplice: se la qualità totale di una annata si valuta anche in base alla sua longevità, io non scommetterei molto sulla enorme gittata temporale di questo millesimo visto che gran parte di questi sangiovese avevano come unica pecca la mancanza di una vigorosa spina dorsale acida, leggasi freschezza, tale da preservarli per molto tempo. In tal caso la 2001 o la 2006 probabilmente sono le ultime annate da invecchiamento del Brunello di Montalcino (vero Macchi?). Se invece non vogliamo lasciare a nostro nipote l’onore di bere un grande sangiovese di Montalcino, allora la 2016 probabilmente è l’annata ideale che ci darà sicuramente emozioni da adesso e per almeno i prossimi 10 anni.

Studio Marche e la bellezza del Verdicchio dei Castelli di Jesi

La crisi pandemia, come sappiamo, non permette di organizzare eventi di degustazione in presenza ma questo non ha scoraggiato gli attori del food&wine che già da oltre un anno stanno dando vita a wine tasting a distanza utilizzando le principali piattaforme digitali. In questo ambito non poteva far mancare la sua voce la Regione Marche che su volontà del suo Assessorato all’Agricoltura ha presentato “Studio Marche”, un vero e proprio studio televisivo che metterà a sistema le attività di promozione dell’intero comparto food&wine regionale attraverso una piattaforma di registrazione e trasmissione professionale – unica nel panorama nazionale – che consente di dialogare a distanza con trade, stampa, esperti e appassionati italiani ed esteri, in diretta zoom ma anche sui principali canali social di Ime, superando le barriere imposte dall’emergenza sanitaria.


“L’obiettivo è creare un hub digitale dell’enogastronomia marchigiana capace di dare voce a tutto il settore – ha detto Alberto Mazzoni, direttore dell’Ime –. Grazie al sostegno della Regione Marche, da oggi possiamo mettere al servizio delle aziende tecnologia, personale tecnico e strumenti che consentono non solo di connettersi con tutto il mondo, ma anche di riflettere nella comunicazione la qualità che il nostro comparto è in grado di esprimere, conquistando un’audience che al momento non possono raggiungere fisicamente”.

Ad aprire il calendario il vino, con un programma di wine tasting digitali organizzati dall’Istituto marchigiano di tutela vini (Imt) con focus su Verdicchio dei Castelli di Jesi e di Matelica, Rosso Conero, Lacrima di Morro d’Alba e Colli Maceratesi Ribona e tante altre Doc e Docg rappresentate dall’Imt.

Io, che non mi faccio mancare nulla, ho deciso di partecipare a tutte le iniziative, a partire dalla prima degustazione in programma, relativa al Verdicchio di Castelli di Jesi.

Foto: Adriaeco.eu

I sei produttori invitati in rappresentanza di questa denominazione, moderati da Alberto Mazzoni, ci hanno presentato i seguenti vini:

Piersanti - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Bacareto” 2019 (90% verdicchio, 10% altre uve marchigiane) : questo vino, che nasce da uve vendemmiate tardivamente a cui si aggiunge una piccola percentuale di uve botritizzate, ha struttura ed avvolgenza e profuma di frutta gialla matura, fieno e ginestra. Sorso generoso, caldo che termina con una leggera sensazione ammandorlata.

Pievalta - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Tre Ripe” 2019 (verdicchio 100%): l’azienda, la prima nelle Marche ad essere certificata biodinamica (2008) ha presentato questo Verdicchio in purezza il cui nome si rifà ai tre vigneti da cui provengono le uve posizionati su tre versanti diversi (Maiolati Spontini, Montecarotto e San Paolo di Cupramontana). Questa eterogeneità territoriale è un valore aggiunto donano al vino complessità aromatica con ritorni di sambuco, mela renetta, pesca e arancia amara. Sorso equilibrato, di piacevole cadenza acido-sapida che integra amabilmente una inaspettata e leggera morbidezza glicerica.

Foto: Adriaeco.eu

Tenuta di Tavignano - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Misco” 2019 (verdicchio 100%): l’azienda, certificata biologica nel 2018 e gestita da Ondine de la Feld e suo zio Stefano Aymerich, ha presentato il suo cavallo di battaglio ovvero quel Misco che da sempre prende premi dalla critica specializzata sia italiana che straniera. Il vino, verdicchio in purezza da uve in leggera surmaturazione, è come me lo ricordavo ovvero ricco di sensazioni di frutta tropicale, scorza di agrumi, seguite subito dopo da lavanda e forti richiami erbacei. Gusto caldo, morbido, sensuale, di lunghissima persistenza agrumata.

Cantina Colognola Tenuta Musone - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Ghiffa” 2018 (verdicchio 100%): appartenente alla famiglia Darini, questa azienda si trova in a Cingoli, in provincia di Macerata, nella piccola frazione di Cològnola da cui prende il nome. Da uve certificate biologiche nasce questo verdicchio in purezza dalla carica aromatica tipica di biancospino, acacia, pompelmo, avvolti da una nuvola minerale di grande fascino. Al sorso scocca preciso il dardo della freschezza e dell’estrema bevibilità grazie anche a importanti ritorni sapidi.

Umani Ronchi - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Vecchie Vigne” 2018 (verdicchio 100%): questa cantina storica, di proprietà della famiglia Bianchi-Bernetti dal 1957, ci ha presentato questo verdicchio in purezza nato per esaltare e conservare il valore qualitativo e storico di 4 ettari di vecchie vigne coltivate fin dai primi anni ‘70 nel fondo di Montecarotto. Il vino è assolutamente elegante e si accende nei profumi del tiglio, della pesca bianca, del timo e della maggiorana per poi sfumare su tonalità saline. Al gusto incanta per equilibrio e persistenza agrumata.

CasalFarneto - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Grancasale” 2018 (verdicchio 100%): sita nel comune di Serra de Conti, nel cuore della zona del Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico a circa 320 mt sul livello del mare, CasalFareto con i suoi 35 ha di vigneti (+ 6 ha vigneto biologico), di cui 28 a Verdicchio, rappresenta una delle aziende storiche del territorio. Ottenuto da uve verdicchio leggermente surmature, è un vino che si lascia apprezzare per un ventaglio olfattivo ricchissimo di sfumature di frutta gialla matura, resina, croccante di mandorle, zenzero e scorza di cedro. Raffinato e vellutato all’assaggio, è un Verdicchio che difficilmente potrete scordare per intensità e progressione fruttata finale.

Prossimo appuntamento con il grande Rosso Conero!

Castello di Querceto - Chianti Classico Riserva 2017


di Stefano Tesi

Se in Chianti Classico il declino del tipo Riserva, che qualcuno paventava, è questo, il qualcuno ci ripensi. 


Chi diffidava dell'annata, idem: colore è bello vero, il naso è una ventata di Sangiovese verticale ma solido come Dio comanda e in bocca è asciutto, nervoso, complesso ma godibile come ci si aspetta. Una sorta di vino striptease...

Un universo toscano chiamato Villa Saletta


di Stefano Tesi

Galeotti furono i tortellini alla panna - lo ammetto, una mia antica debolezza - di una storica trattoria sulle colline di Firenze, così diverse da quelle della campagna pisana nel triangolo tra Peccioli, Pontedera e Montopoli della quale in realtà stavamo parlando. E galeotto fu pure il toponimo: Montanelli. Con un nome così, potevo resistere?
Ci mise ulteriormente del suo, nel titillare la mia personale curiosità, la circostanza che al centro del progetto ci fosse un insediamento altomedievale in rovina, tutto da recuperare.

Il borgo da recuperare

Poi vennero tutti quei numeri un po’ così. Stridenti, diciamo: 720 ettari totali di tenuta, 6mila olivi sparpagliati su 34 ettari, appena 100mila bottiglie di vino prodotte su 17 ettari di vigne a regime con ulteriori 13 in divenire (Sangiovese, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon e Merlot, allevati in pari proporzioni), un progetto da 43 appartamenti da 300 mq l’uno per una sorta di resort diffuso di lusso. Ciliegina finale: un investimento di 250 (due-cinque-zero) milioni di euro, di cui 60 già spesi dal 2000 ad oggi tra l’acquisto della proprietà, espianto vecchi vigneti e costruzione di una “cantina provvisoria”, 15 per la nuova cantina in costruzione da quest’anno e l’avanzo per il resto.
Un bendiddio che, dal 2015, è in mano, sia come amministratore che come direttore, all’enologo ed agronomo David Landini, personaggio singolare con alle spalle esperienze in primarie aziende vinicole toscane e non (Frescobaldi, Antinori, Bertani tra le altre) ma desideroso, ipse dixit, di essere un “uomo solo al comando”. Dopo i proprietari, ovviamente, la famiglia inglese Hands, “attivi – dice la biografia ufficiale - nel mondo della finanza e dell'hotellerie di lusso”.

Credit: Alessandro Ghedina

Stiamo parlando di Villa Saletta, in comune di Palaia, una realtà che per dimensioni, investimenti e “modello di business”, come si usa dire oggi, è parecchio lontana dai casi di cui siamo abituati a occuparci in Toscana e molto più vicina, per respiro e riferimento, a certe grandi operazioni internazionali. Eppure, oltre al metodo gestionale, in essa c’è qualcosa di ancora più originale, che ci sembra rendere il caso abbastanza fuori dal comune. E non è né la pur importante vocazione “green” dell’impresa, una scelta (sociale e di marketing) ovvia in operazioni di questa portata, né la volontà di valorizzare altre indubbie ma implicite risorse della tenuta, come la tartuficoltura e la selvaggina.


Il tratto innovativo sta in una visione dell’azienda come di un ecosistema capace di sostenibilità non solo, come prevedibile, nelle attività da reddito, ma soprattutto in quelle da reddito minore o da nessuno reddito, in una sorta di concezione “neorurale” non frequente alle nostre altitudini: “A Villa Saletta la produzione non riguarda soltanto il nostro core business e cioè il vino – sottolinea Landini – ma coinvolge una biodiversità che definirei sostanziale. Gran parte dei terreni aziendali sono destinati infatti a varie coltivazioni agricole come orzo, avena, pioppi, erbe e fiori di campo. Tutto ciò viene tenuto in piedi, oltre che per favorire l’equilibrio dell'ambiente, anche per mantenere viva la straordinaria tradizione di questa fattoria, che nei secoli ha maturato, nonostante i vari passaggi di mano, una sua fisionomia variegata, in qualche modo antica, poco compatibile con l’idea di monocoltura da reddito oggi prevalente, secondo la quale la diversificazione colturale avviene più per declassamento dei suoli in base alla loro redditività che per una reale scelta agronomica”.

David Landini

E’ con queste parole in mente che mi sono accostato all’assaggio di molti dei copiosi vini prodotti in azienda.

Ecco i più convincenti.

980AD 2015

Fatto con 100% di Cabernet Franc è il cru aziendale, trascorre 24 mesi in barrique e altri 6 mesi in bottiglia. E’ di un bel rubino di media intensità, appena aranciato. Naso intenso ed elegante, molto varietale, con frutta rossa matura, spezie, arbusti aromatici. In bocca è coerente al tipo: morbido e denso, tannino equilibrato, corposo.


Chiave di Saletta Toscana IGT 2015

Sangiovese 50%, Cabernet Sauvignon 20%, Cabernet Franc 20% e Merlot 10%. Rosso scuro con riflessi bluastri, naso compatto che lentamente rilascia una lunga scia di cacao e di caffè. Al palato è pastoso e vellutato, con una sensazione di calore e un finale balsamico.


Chianti Docg 2015

Sangiovese 92%, Cabernet Sauvignon 4% e Merlot 4%. Fermentato in acciaio, fa un anno in botti grandi e in barrique di secondo passaggio. Il colore rubino pieno lascia spazio a un naso asciutto, diretto, molto pulito e quasi croccante, con un bel frutto in evidenza. La stessa piacevole pulizia e linearità si ritrova in bocca, con un finale vibrante, appena ruvido.