InvecchiatIGP - Torre a Oriente - Campania IGP Falanghina "Liéo" 2017


di Luciano Pignataro

Che la Falanghina abbia possibilità di invecchiamento è una di quelle frasi che qualche anno fa il generale del “verso giusto” avrebbe inserito fra gli esempi del “mondo al contrario”. Se ne beveva tanta e con voluttà a pochi mesi dall’imbottigliamento e ancora oggi gran parte della produzione tende ad essere venduta prima che inizi la vendemmia successiva. Ma non sono pochi i produttori che si stanno dedicando al viaggio nel tempo con questo vitigno, al pari di quanto ormai si fa con il Fiano di Avellino e, in misura minore, con il Greco di Tufo. Il suolo vulcanico e le escursioni termiche sono comunque due precondizioni per ottenere vini capaci di affrontare questo tema.


Dopo Fontanavecchia a Torrecuso, ecco allora un’altra azienda, Torre a Oriente di Patrizia Iannella, siamo sempre nello stesso comune alle falde del Taburno in provincia di Benevento, che propone un Falanghina con tempi più lunghi. Per la verità lo fa da tempo con una etichetta, il Biancuzita, nome dialettale della stessa uva: viene infatti proposta a un anno dalla vendemmia. Adesso il salto di qualità, l’occasione per la presentazione è stato un progetto chiamato Triodiversità che ha messo insieme il tridente della nostra cultura gastronomica mediterranea: vino, grano e olio in collaborazione con Masseria Roberti e la Cantina Pietrefitte.


Ma torniamo alla nostra Falanghina. Partiamo dal prototipo chiamato 20+1+1 così chiamata perché parte da una vasca della calda vendemmia 2011 lasciata riposare a lungo in via sperimentale per vedere l’evoluzione nel corso degli anni. Noi l’abbiamo provata e dobbiamo dire che è semplicemente perfetta e pimpante come una persona che ha 11 anni che si affaccia al mondo. A parte il prototipo, il nuovo vino, chiamato Lieo, si affaccia in commercio con l’annata 2017: fresca, ricca, con sentori di frutta croccante e di note balsamica, al palato piena di energia, ampia, lunghissima e con una piacevole e precisa chiusura amarognola. Poco più di tremila in commercio per un bianco di sette anni e che sarà replicato solo in alcune annate particolarmente favorevoli.


Insomma, l’ultimo capitolo della bella avventura enologica di Patrizia Iannella, fortemente sorretta dal marito Giorgio Gentilcore, impegnato nel vicino Fortore nella la coltivazione di legumi e delle olive da cui ricava olii extravergine di oliva di pregevole fattura che rientrano nella produzione dell’azienda. Patrizia, agronoma è una donna tenace. E con tenacia oltre venti anni fa riuscì ad imporsi per dare una svolta alla storia di famiglia, decidendo di coltivare i vitigni storici Aglianico e Falanghina secondo le moderne forme di allevamento, riadattando anche gli antichi sistemi di coltivazione. All’inizio fu scontro, soprattutto con papà Mario. Quel papà che piano piano ha finito di abbracciare pienamente la nuova filosofia, continuando a prendersi cura delle vigne fino al giorno della prematura scomparsa.
Una tradizione che Patrizia ha deciso di rendere protagonista anche a tavola, affiancando alla cantina una bella struttura ricettiva che costituisce una tappa gastronomica sannita da non perdere.

G.R.A.S.P.O. con Slow Food Roma a tutela delle viti centenarie e dei vigneti storici


Potrebbe essere un caso che solo a qualche giorno della partecipazione di G.R.A.S.P.O. (Gruppo di Ricerca Ampelografica per la Salvaguardia e Preservazione dell’Originalità Viticola) al 45mo Congresso Mondiale della Vite e del Vino dell’O.I.V. a Digione in Francia, la stessa importante Organizzazione ritenga opportuno definire il concetto di vecchie viti e di vigneto storico, concetti che da sempre sono al centro dell’azione di G.R.A.S.P.O. come testimoniato nella relazione portata al congresso. L’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (O.I.V.) è un’istituzione intergovernativa a carattere scientifico e tecnico operante nel settore della vite e dei prodotti derivati, fondata nel novembre del 1924 da Italia, Spagna, Francia, Lussemburgo, Tunisia, Ungheria, Grecia e Portogallo.


L’O.I.V. rappresenta oggi 50 Stati membri, non soltanto Paesi produttori di vino, ma anche Paesi consumatori, interessati a conoscere e comprendere quello che avviene nel mondo enologico. Nella sua recentissima risoluzione 703-2024 vengono infatti dati gli indirizzi agli stati membri per la definizione e la tutela di questo importane ed insostituibile patrimonio viticolo.


Vengono infatti evidenziati i vantaggi ambientali, sociali ed economici delle viti vecchie e dei vigneti vecchi, in particolare dal punto di vista culturale e del patrimonio, nonché in termini di immagine e di potenziale sviluppo dell’enoturismo, nonché per il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità del settore vitivinicolo, tutti temi sviluppati da G.R.A.S.P.O. anche in occasione del convegno organizzato da MUVIM a Verona sui Musei internazionali del vino.


Per questo anche a Roma presso lo Spazio Fare in occasione di Incontri di Vini coordinati da Andrea Petrini per Slow food Roma, G.R.A.S.P.O. ha voluto sottolineare in premessa gli obiettivi che l’Associazione si è data. I particolare spiegando come le viti vecchie, esistenti in un’ampia varietà di contesti climatici e di terroir, dimostrano l’efficacia delle pratiche viticole sostenibili. Esse rappresentano un esempio di successo in termini di resilienza e adattabilità ai cambiamenti dell’ambiente circostante e contribuiscono anche alla conservazione dei paesaggi viticoli tradizionali e storici e preservano una identità genetica che può tornare molto utile in un contesto climatico in forte evoluzione.
Dato che solo pochi vigneti arrivano a invecchiare, gli studi che si concentrano sui fattori che determinano la longevità e le potenzialità produttive sono limitati, esiste quindi ampio spazio per ulteriori ricerche, specialmente al fine di indagare i fattori che favoriscono la longevità e un rapporto stabile tra resa e qualità sopratutto testando in campo le antiche varietà oggi dimenticate relegate solo in qualche vetusto campo di conservazione.


Così l’appuntamento romano di G.R.A.S.P.O. è stata un’occasione importante per ascoltare dal custode Gianmarco Guarise la cura della piantata ultracentenaria di Urbana vicino a Padova dove la Vernazola, antico vitigno veneto, è maritata al salice o della vecchia vite di Roter Hoertling che troneggia sulla piazza di Margreid in Alto Adige da 423 anni.


Solo alcune delle incredibili storie di vecchie vigne e dei loro testardi custodi che G.R.A.S.P.O. racconta nel suo ultimo libro: 100 Custodi per 100 vitigni. Un libro tutto da bere perchè per ogni vitigno raccontato è possibile finalmente anche degustarne il vino frutto delle tantissime microvinificazioni in purezza realizzate dall’Associazione. Ciò che oggi rende veramente emozionante partecipare a queste esclusive esperienze sono i legami, le connessioni, le parentele di fatto gli incroci naturali che in migliaia di anni la natura, il caso o la sensibilità dei vignaioli più attenti hanno concorso a realizzare.

Si tratta di storie a volte mai scritte e sicuramente mai finite, fino ad oggi, nei calici.

Così Uva Gatta, Cenerente e Gambugliana scorrono per la prima volta in successione raccontando i loro forti legami parentali quasi da nonna, madre e figlia, una effettiva verticale generazionale in chiave Berica. Per non parlare degli incroci pericolosi, ma naturali, che partono da due varietà molto antiche e prolifiche come il Liseiret e la Quaiara che rispettivamente sono storici genitori di due varietà importantissime come Chardonnay e Glera ma che la natura ha voluto casualmente combinare generando una varietà originalissima come la Piccola Nera ritrovata da G.R.A.S.P.O.a Muggia vicino a Trieste.


O il percorso di salvaguardia e tutela fatto da Edoardo Ventimiglia di Sassotondo per un antico vitigno toscano il Nocchianello lavorando in sinergia con il CREA di Arezzo coordinato da Paolo Storchi.


Questi solo alcuni esempi di come i grossi progressi di conoscenza maturati recentemente sulla biodiversità e sull’evoluzione varietale viticola si devono ai nuovi strumenti di analisi messi a disposizione della ricerca dallo studio del DNA. Questi importanti progressi sono frutto di un grande lavoro di squadra, in cui i viticoltori custodi e le collezioni di germoplasma rappresentano un tassello fondamentale dando oggi ai produttori informazioni preziose per rigenerare la storia dei vitigni italiani.

Testimonianze vive che GRASPO sta portando in tutta Italia.

InvecchiatIGP: Cantina Sociale Barbera Sei Castelli - Barbera d’Asti Superiore Nizza 2012


di Carlo Macchi

Le cooperative in Piemonte non hanno mai avuto vita facile e la Sei Castelli è veramente una mosca bianca, specie nel territorio dell’Astigiano. Stiamo parlando di una cantina che raccoglie migliaia e migliaia di ettolitri di vino, al 90% barbera, lo vinifica e poi lo vende sfuso a tantissime cantine, sociali o meno. Anche se lo sfuso riesce a far quadrare il bilancio da circa 20 anni è partito un progetto di selezione dei migliori cloni di barbera che oggi ha portato da una parte ad un’ottima Barbera dal nome evocativo di Risveglio della Vite e dall’altra ad un museo particolarissimo, dove le barbatelle prendono vita e colore e portano lo stupito visitatore a fantasticare su animali e mondi fantastici.


Seduti accanto a queste “barbatelle di mondi e animali fantastici”, una bella serie di assaggi assieme all’enologo Enzo Gerbi ci avevano presentato un quadro molto positivo sul livello del loro imbottigliato (una minimale parte rispetto allo sfuso e quindi selezionato con grande attenzione), quando Enzo ha detto “Ma perché non proviamo un Nizza di qualche anno?”


Dovete sapere che tra me e il Nizza non è mai corso buon sangue: quasi sempre dosi pantagrueliche di legno nascondono delle ottime barbera e anche se negli ultimi anni le cose sono cambiate l’amore non è mai sbocciato. In più l’annata scelta è stata la 2012, tra le più calde degli ultimi 20 anni: tutto questo mi metteva in allarme ma come potevo dire di no?


Si stappa, lo mettiamo nel bicchiere e comincio a recitare il mea culpa: NON sento sentori cotti, NON sento legno mal dosato, ma anzi trovo prima note fruttate polpose e fresche e poi addirittura sentori floreali. In bocca spicca (e siamo nel 2012) la freschezza del vitigno ben amalgamata a tannini dolci e mai disturbata dall’alcol. Mentre parliamo lo teniamo nel bicchiere per una mezzoretta e più volte mi scopro a berne un sorso, così, per puro piacere. Un vino che, oltre a farmi capire che alla Sei Castelli lavorano bene da anni, mi ha tolto alcuni preconcetti sul Nizza. Quindi devo ringraziare questo Nizza 2012 e naturalmente Enzo Gerbi, che non solo l’ha fatto ma me l’ha fatto assaggiare!

Monsupello - Vino Spumante Metodo Classico Cuvée Ca’ del Tava


di Carlo Macchi

Questa cuvée di pinot nero (60%) e chardonnay per metà vinificato in legno non esce tutti gli anni ma uno vorrebbe berla tutti i giorni. 


Al naso il timbro del pinot nero è importante ma in bocca la finezza dello chardonnay dice la sua. Naso complesso, sorso pieno e suadente, una liquida goduria!

Greek Wine Day: alla scoperta del vino greco in Italia


di Carlo Macchi

Di solito delle manifestazioni si parla prima ma della terza edizione del Greek Wine Day, che si è svolto il primo novembre a Firenze nelle sale dell’Hotel Albani, è sicuramente meglio parlarne dopo per una serie di motivi che, come dicevano un tempo in televisione, vi vado a presentare.



Fegato

Chi organizza manifestazioni sul vino lo sa quanto sia difficile coinvolgere produttori, ancor di più se questi devono arrivare dall’estero. Se poi la nazione dove si svolge la manifestazione non è storicamente una importatrice dei vini di quei produttori gli organizzatori si trovano davanti, visto che si parla di Grecia, ad una mitologica serie di fatiche di Ercole. Ho detto organizzatori? Mi sono sbagliato, volevo dire organizzatore, cioè il nostro Haris Papandreou che di mestiere fa tutt’altro ma è un grande appassionato di vino e soprattutto grande sostenitore dei vini della sua terra. Per questo, per riuscire a portare in Italia 20 produttori greci credo gli siano serviti almeno altrettanti fegati. Lo posso testimoniare dopo ripetute telefonate in cui Haris si sfogava con me per una infinita serie di problemi, tutti poi brillantemente risolti.

Produttori

Fegati a parte il lavoro che ha fatto Haris è stato veramente notevole perché ha portato produttori da ogni parte della Grecia, partendo dalla Tracia a nord e, passando per Santorini, arrivando fino a Creta. Attenzione, a parte il caso di un produttore che si è dovuto operare di urgenza tutti gli altri erano presenti a Firenze, anche se molti non avevano importatori italiani. Abbiamo quindi potuto assaggiare vini mai visti e conosciuti.

Location

Oramai le manifestazioni sul vino sono eventi e si svolgono rigorosamente in una location: quella dove si è tenuto il Greek Wine Day era veramente adatta. Sala molto grande e ben illuminata a 100 metri dalla stazione centrale di Firenze. Un luogo perfetto per la degustazione, anche con spazi dove potersi rilassare e sedere.

Vini

Oltre 120 etichette in degustazione sono un numero troppo grande per poterle degustare tutte e quindi ognuno ha fatto le sue scelte. Personalmente mi sono concentrato sui bianchi con alcune digressioni finali sui rossi.


In generale, i bianchi greci non hanno niente da invidiare a quelli italiani, specie per quanto riguarda ciò che adesso va più di moda, cioè freschezza, sapidità, aromaticità netta ma non eccessiva. Il primo vino/vitigno che viene in mente è l’assyrtiko che fa rima con Santorini, ma durante la degustazione ho assaggiato degli ottimi bianchi a base di vidianò e malagousia. La media, specie per gli assyrtiko è indubbiamente alta, come purtroppo è alta l’incidenza della “voglia di strafare per mettersi in evidenza”, cosa che accade pure in Italia. Quindi bianchi ovattati da dosi inutili di legno, anfore utilizzate solo per poterlo dire, fermentazioni troppo spinte con risultati risibili, facevano da contorno a tanti ottimi bianchi, fatti con grazia e semplicità. 


Ma le eccezioni alla voglia di strafare c’erano e proprio di una queste è giusto parlare, il Blanc des Coteaux 2022 di Thymiopoulos, un uvaggio tra assyrtiko, malagousia, vidianò e aidani maturato in anfora. Un vino finissimo e complesso, di rara pienezza e austerità, che mi ha lasciato veramente a bocca aperta. Sul fronte dei rossi, fermo restando l’importanza dello xinomavro che però trovo quasi sempre con tannini un po’ troppo rustici, voglio parlarvi di quello che potrei definire il pinot nero della Grecia, il Limnio, in particolare nella versione 2019 della cantina Anatolikos. Naso con bel frutto ma soprattutto corpo setoso, equilibrato, rotondo ma con giusta freschezza. I tannini ci sono ma non si sentono e l’insieme sprizza eleganza da tutti i pori. Un rosso moderno e godibilissimo.

Ressa

Uno dei pregi della manifestazione, che ha avuto come importante partner FISAR, è stata la creazione del numero chiuso per i biglietti; quindi, in sala c’era gente ma la ressa di manifestazioni come Merano è stata evitata fin dall’inizio. Quindi tanti buoni motivi a posteriori anche per sperare (fegati di Haris permettendo) in una quarta edizione.

InvecchiatIGP: Mila Vuolo - Colli di Salerno IGT Aglianico 2010


di Roberto Giuliani

Per un certo periodo sono stato in bilico tra preferire l’olio o i vini di Mila Vuolo, vignaiola salernitana che da alcuni anni presenta i suoi prodotti a Terre di Vite.
Poi mi sono reso conto che certe derive mentali me le potevo risparmiare, poiché quei due frutti della terra così diversi, raccontano lo stesso linguaggio, sono figli della stessa mano e quando li assaggi te ne rendi subito conto.


Mila Vuolo ha iniziato a produrre vino con l’annata 2003, la prima veramente siccitosa e difficile da gestire, tanto più con piante davvero giovani. Per primo arrivò l’aglianico, poi il fiano, sotto il controllo dell’enologo Guido Busatto; erano tempi in cui regnava ancora la concezione del rosso opulento, carico di colore e intenso nel gusto. C’è da dire, però, che già il Montevetrano di Silvia Imparato aveva dimostrato ampiamente che si può fare un vino corposo ma anche elegante, facendo da apripista nel territorio cilentano e non solo (anche se in questo caso l’aglianico era presente all’inizio per il 30%, affiancato dal cabernet sauvignon al 70%, in seguito ridotto al 10% per fare spazio a un 20% di merlot).


Mila ha scelto da subito la strada del monovitigno, concentrando l’attenzione sull’aglianico, cercando di farlo emergere con le proprie caratteristiche e lavorando per renderlo il più possibile armonico. La versione 2010, prodotta in soli 6200 esemplari, mostra un pedigree ancora integro, i 14 anni dalla vendemmia non svelano cedimenti preoccupanti, è un aglianico aperto, dal colore granato di buona intensità e dal bouquet che rivela un frutto maturo ben sorretto dall’acidità e da un tannino perfettamente integrato. Narra di prugna e tabacco scuro, cuoio, viole macerate, un velo di carne affumicata, tracce agrumate, in un contesto vivo che si schiude con decisione man mano che si ossigena nel calice.


Impressionante la freschezza che restituisce, una vena balsamica che cancella qualsiasi pesantezza al sorso, lasciando una sensazione ariosa, una bellissima interpretazione del più noto vitigno a bacca rossa campano. Da goderselo con dei saporiti fusilli alla cilentana.

Aganis - Friuli Colli Orientali Refosco dal Peduncolo Rosso 2023 Po’ Folc


di Roberto Giuliani

Aganis è un progetto della famiglia Cecchetto, già proprietaria di Ca’ di Rajo nel Trevigiano. 


Questo Refosco Po’ Folc (poi il fulmine) è decisamente riuscito, profuma di viola, iris, ribes, liquirizia e in bocca tira calci (acidità e tannino) e abbracci (frutto tornito) in perfetta sintonia.


Ingham, il Marsala Superiore nato dalla collaborazione fra il team di Vulcanica Vodka e le cantine Florio


di Roberto Giuliani

Come molti sapranno la storia del Marsala e il suo percorso commerciale hanno vissuto momenti quantomeno complessi. Tutto ha avuto inizio 251 anni fa, quando nel 1773 il mercante di Liverpool John Woodhouse, grande esperto di vini e liquori, giunse a Marsala alla ricerca di una bibita che ricordasse la soda. Arrivato al porto, fu incuriosito da un vino che veniva invecchiato secondo il metodo perpetuum, con cui le botti che contenevano parte del vino consumato durante l’anno venivano rabboccate con vino nuovo, una specie di antesignano del metodo Soleras o più correttamente “Solera y criaderas” (che invece prevede di miscelare, travasare e ripartire in diverse botti partite di vino che hanno in comune il momento della loro elaborazione). Quel vino, così concepito, secondo Woodhouse non sarebbe stato in grado di sopportare viaggi in nave senza rischiare di deteriorarsi. Per questa ragione pensò di fortificarlo con dell’acquavite, la cui alcolicità elevata gli avrebbe garantito una maggiore protezione durante il lungo tragitto di ritorno. Giunto in Inghilterra con una buona partita del prodotto, ottenne velocemente un notevole successo, così decise di tornare in Sicilia e iniziare a commercializzarlo sull’isola utilizzando come invecchiamento proprio il metodo Soleras.


Arriviamo al 1809, ancora una volta è un inglese a contribuire al futuro del Marsala, infatti il mercante di stoffe Benjamin Ingham giunse sulle coste siciliane e approfondì gli studi agronomici dell’uva (grillo), con l’intento di creare un vino di elevata qualità che fornisse la base della produzione del Marsala. Conobbe Vincenzo Florio e ne divenne presto socio, condividendone l’impresa e la commercializzazione in tutto il mondo. Nel 1833 l’imprenditore di origine calabrese fondò le Cantine Florio e iniziò a produrre Marsala in proprio.
Venti anni dopo la situazione era questa: l’intera produzione di Marsala era appannaggio di tre cantine, la Ingham & Whitaker che vantava il 58% del totale, la Cantine Florio per il 23% e la Woodhouse per il restante 19%. Poco dopo, però, Florio riuscì a rilevare la Woodhouse, divenendo in breve il primo produttore di Marsala.

Cantine Florio

La storia continuerebbe con le varie vicissitudini che colpirono la famiglia Florio, dalla fillossera alla crisi economica, ma devo fermarmi qui, pena un racconto chilometrico e faticoso da leggere. Oggi Ingham è un brand di Vulcanica Vodka, nato da un’idea di Stefano Saccardi, grande esperto di spirits, della produttrice vinicola etnea Sonia Spadaro (azienda Santa Maria La Nave) e della socia Serena Bonetti, in collaborazione con le Cantine Florio.


L’Ingham Marsala Superiore nasce da un vino prodotto tra la fascia costiera di Marsala e Petrosino e l’entroterra della provincia di Trapani. Solo uve grillo, coltivate su terreno ricco di terra rossa a base silicea, allevato ad alberello marsalese e in parte a spalliera bassa, con una densità di 4000 piante per ettaro.
La vendemmia viene effettuata tardivamente per consentire una maggiore concentrazione zuccherina negli acini. La fermentazione è a temperatura controllata, per la preparazione della concia si usa mistella, cioè mosto cotto e alcol di origine vinica, necessari ad ottenere la fortificazione.
Poi avviene il cosiddetto “innamoramento”, ovvero l’incontro del vino con la preparazione, che rappresenta il passaggio da “atto a diventare vino” ad “atto a diventare Marsala”. Segue un affinamento in botti di rovere per almeno 2 anni utilizzando il metodo Soleras. Va detto che il Marsala Superiore Ingham, è stato concepito principalmente per la mixology, ovvero per la realizzazione del cocktail Sicilian Martini, ottenuto insieme alla Vulcanica vodka e al cucuncio siciliano, ovvero il frutto della pianta del cappero.


Ma per gli IGP mi sembra più giusto raccontare l’Ingham, Marsala Superiore semi secco: colore oro antico, ambrato, bouquet complesso con note che spaziano su dattero, fico, noce, uva passa, miele di castagno, melassa, croccantino su un sottofondo tra burro caldo e vaniglia.


Al palato esprime una dolcezza contenuta, evitando qualsiasi stucchevolezza grazie anche a un’ottima vena acida. Le sensazioni gustative si arricchiscono di toni affumicati, nocciola tostata e agrumi essiccati, evidenziando un Marsala complesso e sfaccettato, con 18,5 gradi alcolici che fatichi a percepire. Niente male!

InvecchiatIGP: Antoniotti – Bramaterra Doc 2011


Ho conosciuto Odilio e Mattia Antoniotti ormai oltre dieci anni fa quando, con una macchina a noleggio sgangherata, feci un tour dell’Alto Piemonte innamorandomi perdutamente dei vini di questo territorio troppo spesso sottovalutato dai c.d. “esperti di settore”. Ricordo che per arrivare presso la loro cantina, situata in quel luogo incantato che prende il nome di Casa del Bosco, un paesino di poche anime, ho dovuto percorrere una stradina sperduta circondata da boschi all’interno dei quali, quasi soffocati, si intravedevano ettari di vigneti ormai abbandonati perché da queste parti, come scriveva Soldati, il vino viene formidabile, potente e gustoso ma, aggiungo io, se si preferisce la fabbrica e la città ai campi agricoli, questo è il risultato.


Con notevoli sforzi Odilio e suo figlio Mattia, settima generazione vitivinicola della famiglia, portano avanti i loro cinque ettari di vigneti, piantati su terreni vulcanici ricchi di porfido, suddivisi in varie parcelle dove si producono due delle DOC più rappresentative del loro territorio ovvero Coste della Sesia e, soprattutto, Bramaterra. Quest’ultimo vino, prodotto all’interno di sette comuni della zona collinare limitrofa al parco naturale delle Baragge, ha ricevuto la denominazione di origine controllata nel 1979 e la base ampelografica prevede l’utilizzo del nebbiolo, localmente definito spanna, dal 50 all’80%, con saldo finale di croatina (max 30%) e\o uva rara e vespolina, da sole o congiuntamente, per un massimo del 20%.

Mattia Antoniotti

Odilio Antoniotti

Il Bramaterra 2011 di questo InvecchiatIGP lo presi dagli Antoniotti il giorno della mia visita, mi innamorai subito di quell’annata tanto da volerla dimenticare in cantina per capire, con gli anni, come potesse evolvere. L’ho stappato qualche settimana fa, a cena con amici, e il suo colore rosso rubino, lievemente granato, tradiva solo parzialmente i suoi tredici anni. Al naso, confesso, che la partenza non è stata esaltante perchè, nei primi dieci minuti, aveva un olfatto contratto, poco pulito, Antonello Venditti direbbe “chiuso come le chiese quando ti vuoi confessare….”.

Il colore del Bramaterra 2011

Prima di battezzarlo come nobile decaduto abbiamo aspettato, carichi di speranza, così dopo mezz’ora abbiamo riprovato a odorarlo di nuovo e…...cavolo, le cose sono cambiate ed in meglio. Ora il vino si è fatto via via più definito, dettagliato aromaticamente, aromaticamente ha ricordi di cenere, viola passita, spezie scure e tabacco da pipa.


Se l’olfattiva di questo Bramaterra non è proprio all’apice della sua espressività, discorso diverso dobbiamo fare con la gustativa perché il vino, in questa fase, ha proprio un’altra marcia: è ancora dinamico, succoso, ha una cifra alta di freschezza e sapidità ed un gusto di rara raffinatezza. 

Caro Odilio e caro Mattia, chapeau, ci avete fatto emozionare!

Il Granchio Nero – Marche Riesling IGT 2023


Massimiliano Latini nel 2022 ha deciso di piantare Verdicchio e, soprattutto, Riesling Renano sulle colline di Rosora (An) solcate dai terreni del “fosso del Granchio Nero, affluente dell’Esino, che un tempo costituivano i fondali dell’Adriatico. 


Il vino sorprende per temperamento e sapidità. Bella scoperta!

Alla scoperta della meravigliosa carta dei vini e dei cocktail di Ineo, il ristorante fine dining al centro di Roma


Di Andrea Petrini e Stefania De Carlo

Il Ristorante Ineo, situato all'interno dell'elegante Anantara Palazzo Naiadi Roma, lussuoso hotel cinque stelle situato in Piazza della Repubblica è una delle perle gastronomiche più raffinate, e per certi versi nascoste, della Capitale. Immerso in un contesto storico unico, fra il Rione Monti, Castro Pretorio e l’Esquilino, il ristorante è guidato in cucina dal bravissimo chef Heros De Agostinis che, dopo aver affinato il proprio talento attraverso anni di formazione e lavoro nei più rinomati ristoranti europei, ha deciso di tornare a Roma, nella sua città, nel quartiere in cui è cresciuto, per ripartire con una nuova avventura (Ineo vuol dire, in latino, “inizio”) basata su uno stile di cucina che possiamo definire “meticcia” perché accosta, senza sovrastrutture o eccessi, sapori e preparazioni che prendono spunto dal suo vissuto personale e professionale.

Federico Spagnolo

Della bravura dello chef e di come si sta bene da Ineo ne ha parlato Luciano Pignataro qualche tempo fa per cui non ci dilungheremo molto sull’aspetto gastronomico (da provare questo autunno i tre tre menu degustazione – “In giro per il mondo”, “Roma e dintorni” e “Verde”) perché vorremo accendere il faro dell’attenzione sulla bellissima gestione e composizione della carta dei vini del locale che, per fortuna, abbiamo trovato decisamente interessante e poco ingessata.

Heros De Agostinis

Il merito va all’Hotel Wine Manager Federico Spagnolo, con un passato tra la Pergola di Roma e il St. George di Taormina, che a seguito di incontri, viaggi ed amicizie ha selezionato quasi 900 etichette, locali ed internazionali, andando ad inserire in carta, cosa abbastanza rara, sia cantine famose e blasonate sia etichette di artigiani di nicchia (ad esempio I Chicchi di Ardea) cercando di fornire al cliente un mix equilibrato di vini convenzionali e vini naturali. “Ci piace valorizzare le cantine di piccole dimensioni, lavorando in assegnazione sulle microvinificazioni. L’importante per noi è che offrano un prodotto interessante e che abbiano una storia da raccontare”, spiega il sommelier. “Fermo restando che in un ristorante d’eccellenza non possono mancare le grandi maison internazionali, con un focus in parti-colare sui vini francesi, provenienti dalle zone più rinomate, come Borgogna, Bordeaux e Champagne”.


Spagnolo ammette di avere un occhio di riguardo per il cliente che, negli ultimi anni, si è spostato verso una maggiore qualità e soddisfarne le aspettative proponendo vini costosi al bicchiere. “Il mio è un lavoro fatto di costanza, pazienza e programmazione. Sono una persona molto riservata e precisa, mi piace lavorare e pianificare da casa e poi condividere al ristorante con i colleghi con cui mi confronto. La carta che abbiamo costruito in questi 18 mesi è fatta da uno zoccolo duro con grandi nomi e a cui abbiamo aggiunto tante piccole realtà nel corso del tempo. È una professione che si costruisce nel tempo, fatta di scelte ponderate e con un’attenzione costante ai budget” conclude.


Spagnolo sceglie vini del territorio per accompagnare i tre menù degustazione nei percorsi di wine pairing che accompagnano i viaggi gastronomici dello chef Heros (6 calici, uno per ogni portata, 85 €). Una carta che è cresciuta e che ha tanta Italia e tanto Lazio “perché siamo a Roma e vogliamo valorizzare il luogo in cui siamo per sponsorizzare il nostro territorio che, negli ultimi anni, è ripartito molto bene con bellissime realtà dove c’è tantissima ricerca e studio. Grazie a tutto questo emergono cantine sempre più valide e interessanti da andare a scoprire. Per me è l’occasione per raccontare questa evoluzione della viticoltura laziale e mi piace farlo soprattutto con i clienti esteri, che accompagno in un percorso intorno a Roma. Questa è una delle parti più belle del mio lavoro, la ricerca e la gestione delle piccolissime quantità, il rapporto quasi morboso con il produttore che devo corteggiare per farmi vendere le sue bottiglie! Con il pairing riusciamo a proporre un prodotto unico che devo, talvolta, centellinare perché ne ho una quantità limitata” racconta con entusiasmo il sommelier.


Ineo non è solo vino. Mirco Bove, barman, offre una selezione esclusiva di cocktail realizzati grazie all’ampia scelta di prestigiosi spirits e una selezione di oltre 70 etichette ed una carta che si ispira ai sei continenti (coerente con l’idea dello chef De Agostinis che dedica un intero menu alle sue esperienze nel mondo), con personali interpretazioni dei grandi classici utilizzando ingredienti di ogni parte di mondo a cui è dedicato il drink. Così, per esempio, l’Ishiban è un Martini Cocktail di ispirazione orientale con una base Gin con Vermouth alle foglie di Sakura e, in abbinamento, un fungo enoki che ha sapore di nocciola, oppure la Banana roasted room è un twist old fashion con Rhum aromatizzato alle banane arrostite.


Insomma, in centro a Roma, per chi vuole mangiare e bere bene, c’è un indirizzo Garantito IGP da non perdere: INEO

INEO
Piazza della Repubblica 46, Roma
Telefono: 06 4893 8061

InvecchiatIGP: Lepore - Montepulciano d’Abruzzo Colline Teramane Doc Riserva Luigi Lepore 1998


di Lorenzo Colombo

Quando sono state vendemmiate le uve per la produzione del vino che andiamo ad assaggiare mancavano ancora cinque anni al riconoscimento della Docg che arriverà solamente nel 2003 e che stabilirà uno specifico disciplinare di produzione ai vini che sin’allora - a partire dal 1995 - riportavano in etichetta “Colline Teramane” come sottozona della Doc Montepulciano d’Abruzzo, disciplinare che, rivisto nel 2016, ne va a cambiare il nome che ora è Colline Teramane Montepulciano d’Abruzzo Docg. La zona di produzione s’estende su una trentina di comuni della provincia di Teramo e comprende le colline della fascia costiera che da Martinsicuro, al confine con le Marche, s’estende a Sud sino a Silvi ed occupa ad Est la fascia collinare che si spinge sino a Teramo e Montorio al Vomano ai piedi del Gran Sasso. Unico vitigno ammesso oltre al Montepulciano -che dev’essere presente per almeno il 90%- è il Sangiovese.


Fondata nel 1992, l’azienda Lepore, situata a Colonnella, dispone attualmente di 14 ettari di vigneti per una produzione annuale di 250.000 bottiglie.

Il vino

Vino di punta dell’azienda ormai da molti anni viene prodotto con uve Montepulciano in purezza, fermenta in vasche d’acciaio e matura in botte per due anni ai quali segue un lungo periodo di sosta in bottiglia. Il colore è granato profondo con unghia che inizia a tendere leggermente all’aranciato.
 

Di media intensità olfattiva, ampio, balsamico, confettura di prugne, legno dolce, liquirizia, caffè solubile, note speziate, sentori terziari che rimandano alle foglie umide del sottobosco. Mediamente strutturato, tannino ancora vivo, buona la vena acida, radici di liquirizia, prugna secca, vaniglia, accenni piccanti e pepati uniti ad una leggerissima pungenza, lunga la sua persistenza. Un vino ancora in piena forma a 26 anni dalla vendemmia.

Il Roccolo - Riviera del Garda Classico Groppello 2022


di Lorenzo Colombo

Vitigno autoctono della Valtènesi, il Groppello, se utilizzato in purezza, dona vini freschi e succosi, con sentori di piccoli frutti rossi e di ciliegia e con leggere note speziate, mai troppo alcolici, e dal piacevole fin di bocca amaricante.


Questo sono le caratteristiche che ritroviamo nel vino appena degustato.

Agricola Vallecamonica - Valcamonica Bianco Igt “Bianco dell’Annunciata” 2021


di Lorenzo Colombo

La Valle Camonica è conosciuta in tutto il mondo per le Incisioni Rupestri dichiarate Patrimonio Mondiale dell’Unesco, meno conosciuta, perlomeno presso il grande pubblico, è la sua vocazionalità per la viticoltura praticata da circa 500 viticoltori che si occupano, generalmente nel tempo libero, di gestire i circa 140 ettari di vigneti dell’Igt Valcamonica. La viticoltura in queste zone è attestata sin dall’epoca romana, si è poi sviluppata nel basso Medioevo, periodo nel quale esistono molti documenti che attestano la presenza della vite e, con alti e bassi, si giunge al periodo delle grandi malattie, fillossera anzitutto, che arriva in zona nel 1887 riducendo drasticamente la superficie vitata. Il parziale recupero inizia nel primo Novecento per poi vedere nuovamente crollare la viticoltura negli anni Settanta a causa dell’abbandono dei vigneti a favore di un più redditizio e meno oneroso lavoro in fabbrica. Negli ultimi trent’anni si assiste ad un rinnovo dell’interesse per la viticoltura, con un progressivo recupero dei vecchi vigneti e con la richiesta, seppur limitata, di reimpianti.


L’IGT Valcamonica creata nel 2003 s’estende sul territorio di 25 comuni situati nella valle che dal Lago d’Iseo s’inerpica sino a Edolo ed è, dal punto di vista viticolo, suddivisa in tre macroaree che partono da Piancamuno – a pochi chilometri dal Lago d’Iseo- e in una quarantina di chilometri si spingono sino a Berzo Demo nella parte più a Nord della valle. Il disciplinare prevede la produzione di cinque tipologie di vino: Bianco, Bianco passito, Rosso e con l’indicazione dei vitigni Merlot e Marzemino mentre le uve più diffuse, oltre ai già citati Merlot e Marzemino, sono il Riesling renano, l’Incrocio Manzoni 6.0.13 ed il Müller Thurgau.


L’Agricola Vallecamonica di Alex Belingeri dispone di quattro ettari di vigna collocati su terrazzamenti su entrambi i versanti della bassa valle, i vitigni presenti sono Marzemino, Riesling renano, Incrocio Manzoni 6.0.13 oltre a vitigni PIWI, ovvero Bronner, Johanniter e Souvignier gris e vitigni antichi prettamente locali dai nomi dialettali: Ciass Negher, Baldamina, Valcamonec, Gratù e Hibebo. La produzione annuale è di circa 20.000 bottiglie suddivise su nove etichette.

Il vino in degustazione

Primo vino prodotto dall’azienda, prende il nome dal Convento della Santissima Annunciata nei pressi del quale, tra i 600 e gli 800 metri d’altitudine si trovano i vigneti di Incrocio Manzoni 6.0.13, il sistema d’allevamento è a Guyot basso con densità di 7.000 ceppi/ha e con resa di 60 ettolitri/ha, mentre il suolo è composto da sabbie con infiltrazioni d’argilla su un sottosuolo roccioso con presenza di fossili marini. Fermentazione e affinamento si svolgono in vasche d’acciaio dove il vino sosta sui lieviti per sette mesi. Le bottiglie prodotte sono 4.000.


Il colore è giallo-oro luminoso. Discretamente intenso al naso dove cogliamo note floreali e di frutta a polpa gialla, accenni di pera e mandorle uniti a leggeri sentori idrocarburici. Fresco, intenso e decisamente sapido, dotato di buona struttura e di bella verticalità, presenta accenni piccanti di zenzero, note fruttate dove emergono la mela e gli agrumi, buona la sua vena acida e lunga la persistenza.

Nota: L’azienda è conosciuta soprattutto per il VSQ Metodo Classico Nautilus Crustorico prodotto con l’utilizzo di oltre dieci vitigni a bacca rossa molti dei quali prettamente locali come i giù citati Ciass Negher, Baldamina, Valcamonec, Gratù e Hibebo, il vino s’affina per 48 mesi nelle acque del Lago d’Iseo.

InvecchiatIGP: Podere Marcampo - Toscana Rosso IGT "Giusto alle Balze" 2013


di Stefano Tesi

Di vite da romanzo (scusate l’enogioco di parole, non ho resistito) il mondo del vino è pieno. Si tratta poi di vedere quali siano il frutto di un abile storytelling e quali basate su fatti veri e non purgati ad hoc in favore di marketing. Quando si tratta di assaggi, la questione non cambia molto: contano quello che c’è nel bicchiere e magari le comparazioni con gli assaggi precedenti, mentre le chiacchiere stanno a zero.


Nel 2021 avevo già assaggiato il Giusto alle Balze 2013, un Igt Toscana al 100% Merlot, quando al Podere Marcampo c’era ancora Genuino Del Duca, fondatore e protagonista del romanzo in parola (a pensarci bene, un destino avventuroso già dal nome): carabiniere abruzzese stanziatosi in Toscana, andato in pensione, diventato ristoratore di successo e poi vignaiolo a Volterra, zona dove, secondo la vulgata, “il vino non ci viene”. L’ho riassaggiato qualche settimana fa, quando alla guida dell’azienda ho trovato la figlia Claudia, ma a far la guardia alle vigne è rimasto Genuino, immortalato nel bassorilievo di terracotta che oggi ospita le sue ceneri, murato sul muro della cantina ovviamente orientato sugli amati filari.


La storia dell’azienda in sé, nata un po’ per ostinata scommessa e un po’ per esigenze burocratiche - serviva la vigna per giustificare la creazione di un agriturismo dal rudere acquistato nel 2003 con vista sulle balze volterrane, su terreni di origine sedimentaria, con depositi marini e marne argillose - è e rimane familiare: gli ettari vitati sono cinque, certificati Bio dal 2021 e affidati dall’anno successivo all’enologo Luca Rettondini. Oltre al Merlot si coltivano Vermentino, Sangiovese, Pugnitello e un Ciliegiolo che, in purezza, ci anticipa Claudia, sarà il protagonista del nuovo vino del Podere Marcampo.


Ero però molto curioso di risentire il Giusto alle Balze 2013, l’ultima annata affinata in barrique (oggi si usano i tonneaux). Curioso sia per la mia nota, scarsa simpatia per il Merlot in generale e sia perché, viceversa, quell’assaggio mi aveva incuriosito parecchio per le sue (rileggo gli appunti) “note balsamiche e di erbe selvatiche o officinali, con un punto di rabarbaro e, in bocca, una certa acidità, tannino ben definito e una piacevole nouance amaricante”. In pratica, mi era piaciuto.


E mi piace ancora oggi, con undici anni sulle spalle e, quindi, un’età che può anche essere critica per vini di questo tipo. Alla vista il colore è scurissimo, quasi impenetrabile. Al naso il vino è maturo ma non evoluto, con note complesse e varietali, che poi virano in sentori di liquirizia. La parte migliore è però in bocca: il sorso è integro, vivo, profondo e quasi pungente, con una bella ampiezza e un nerbo al palato perfino inaspettato per vigore e agilità. In poche parole: una gradita conferma.

Fattoria I Veroni - Chianti Rufina Riserva DOCG Terraelactae "Vigneto Quona" 2021


di Stefano Tesi

La bontà del progetto Terraelectae (solo Sangiovese da unico vigneto) varato anni fa dal Chianti Rufina non ha bisogno di riprove, ma le conferme fanno sempre piacere e questo vino dal colore intenso, sentori di frutto maturo e accenni salmastri, ricco, composto ed asciutto in bocca ne offre in abbondanza.


L'identità di Carmagnini del '500, luogo del cuore a Calenzano


di Stefano Tesi

La cucina, anzi la tavola, è una brutta bestia. Da un lato ti sobilla e ti acceca con lo star-system pompato dai social e dal marketing, dall’altro ti blandisce con la camomilla della memoria e la tradizione. Ma, in entrambi i casi, spesso si tratta di bubbole. Mangiare oggi infatti è diventato come il sesso: se ne parla troppo e lo si pratica poco e male.
La trappola del tipico, del resto, è insidiosa, perché tende a ingessare la cucina nella fissità di un’ortodossia innaturale o a tramutarla nel suo opposto, ossia nell’inseguimento della novità a tutti i costi, con risultati non di rado patetici e – vogliamo dirlo? – spesso assai costosi. Perché cucinare, in fondo, non è un’arte, come sovente si tenta di far credere, ma una forma di artigianato molto creativo, che comporta la necessità di replicare all’infinito cose buone con quello che passa il convento, in una sorta necessitato adattamento destinato alla fine a diventare una lenta evoluzione.


Forse è per questo che, chi mangia per mestiere, quando non lo fa per lavoro bensì per puro piacere va a cercarsi certe nicchie capaci di regalare certezze collaudate, piatti solidi e gratificanti, assaggiati tante volte ma mai noiosi, venati di ricordi senza nostalgia. Frutto di un’idea anche un po’ antica, ammettiamolo, dei piaceri della tavola, intesi come appagamento del palato e dello spirito, dove l’”esperienza” c’è già stata e si cercano, casomai, conferme. Quella cucina insomma che qualcuno, prima di mettere il naso dentro al piatto, chiama polverosa. Ma poi lo spazzola bene bene e ci fa pure la scarpetta.
Uno di questi posti rassicuranti, da pranzo della domenica (nel senso dello spirito che lo accompagna) o da cena in fraterna compagnia, è il Carmagnini del ‘500, ultracentenario ristorante lungo la boscosa strada che da Calenzano, nella piana tra Firenze e Prato, sale verso Barberino del Mugello. Luogo d’altri tempi. Non per l’architettura, che anzi è ariosa, ma per l’atmosfera che vi aleggia.

Ci sono tornato qualche tempo fa. Troppo fa, lo ammetto.

Ho ritrovato subito, però, la familiarità che cercavo, i sapori non banali e l’equilibro rassicurante di certe ricette assaggiate mille volte, eppure difficili da trovare così centrate e così godibili. Abbondanti ma non tracimanti. La sapidità dei crostini di fegato al vinsanto, ad esempio, si sposava con una consistenza e una misura rara ormai a trovarsi in una portata così abusata nei vicini mangifici cittadini, rivelando una mano sapiente.


La delicata, profumata, densa cremosità della carabaccia (la zuppa di cipolle rinascimentale toscana), con il suo pane secco un po’ abbrustolito e quel gusto inconfondibile in bilico tra intensità e carezza, la morbida tenacia della pasta dei tortelli mugellani (quelli col ripieno di patate) intrisi in un sugo robusto e tirato a dovere, il petto d’anatra all’arancia intriso, questo sì, di reminiscenze e un peposo coerente, quadrato, quasi filologico nella sua esecuzione fatta di semplicità e gran cura, mi hanno regalato un’ora e mezza di puro relax, anzi di otium latino, direi. 


Il tutto accompagnato ovviamente dall’amabile conversazione con lui, il cavalier Saverio Carmagnini, appassionato ciclista, oste, patron, sommelier, nel locale di famiglia dal 1968 (l’attività risale al 1912), memoria storica della ristorazione fiorentina e della sommellerie toscana. Uomo, per anagrafe e soprattutto per carattere, assai lontano dal glamour frou-frou della gastronomia contemporanea.


No, stavolta non gli ho chiesto di accompagnarmi a visitare la leggendaria cantina (ma consiglio caldamente di chiederglielo), che poi è lo specchio della sua cucina e del suo stile: ho preferito inframmezzare i copiosi bocconi con amarcord, aneddoti, discettazioni sulle ricette rinascimentali (una delle missioni di Saverio e di sua moglie Giulietta) e non, inevitabili quanto salaci battute. E per l’intero convivio, però, ho frugato nella mente alla ricerca di un aggettivo che avevo sulla punta della lingua, ma che lì per lì proprio non mi veniva, per descrivere quei cibi e quella sensazione di pacioso appagamento quasi letterario, o forse esistenziale, che stavo provando. Ora che scrivo, l’ho trovato. Ed era semplice, perfino banale, addirittura abusato ma in questo caso semplicemente veritiero: “identitario”. 
Devo tornarci presto.


Carmagnini del ‘500
Via di Barberino 242, Calenzano (FI)
055 8819930
www.carmagninidel500.it