Masseria del Feudo – Doc Sicilia Grillo 2018


di Lorenzo Colombo

Criomacerazione, vinificazione in acciaio con lieviti indigeni, sei mesi di sosta sur lies, ci donano un vino fresco, verticale, con spiccata vena acida, decisamente agrumato (pompelmo) e dalla lunga persistenza.


Notevole risultato per quello che è tra i migliori vitigni a bacca bianca dell’isola.

Il Coronavirus non fermerà la nostra sete per i nebbioli del Nord!


di Lorenzo Colombo

Un banco d’assaggio organizzato dalla sezione monzese dell’AIS, dedicato al vitigno nebbiolo, ci ha dato la possibilità di potere degustare oltre una trentina di vini. Ci siamo dedicati prevalentemente all’assaggio di quelli provenienti dal Nord Piemonte, non disdegnando una capatina in Valtellina. Ecco quanto più c’è piaciuto:

Podere ai Valloni

Situata a Boca, e circondata dai boschi del Parco Naturale del Monte Fenera, l’azienda è stata rilevata nel 1980 da Guido e Cristiana Sertorio. Opera in regime biologico dal 2011 e produce circa 10mila bottiglie/anno.

Colline Novaresi Doc Rosso “Sass Russ” 2017

50%nebbiolo e 50% uva rara, maturazione per sei mesi in acciaio.

Color granato scarico. Intenso al naso, fresco e pulito, presenta note floreali. Fresco, sapido, verticale, con un bel frutto ed una buona persistenza. Un vino semplice e pulito, dalla piacevole beva.

Colline Novaresi Doc Nebbiolo “Gratus” 2017

Certificato biologico, si compone di 85% nebbiolo e 15% vespolina, affinamento per otto mesi in botti di rovere. 

Color granato di media intensità con riflessi color rubino. Intenso e fresco al naso, fruttato, fiori secchi ed accenni balsamici. Di buona struttura, intenso al palato con bella trama tannica, presenta leggeri accenni piccanti, buona la sua persistenza.

Boca Doc “Vigna Cristiana” 2011

70% nebbiolo, 20% vespolina, 10% uva rara; tre anni in botti di rovere ed un anno in bottiglia.

Color granato compatto. Intenso al naso, ampio, complesso, elegante, presenta un bel frutto rosso e note balsamiche. Di buona struttura e bella trama tannica, sapido, bel frutto con leggeri accenni piccanti, lunga la sua persistenza. Un prodotto decisamente interessante.


La Palazzina

Fondata nel 1986 da Leonardo Montà, l’azienda si trova a Roasio, nel territorio della Doc.

Bramaterra Doc 2016

Color rubino-granato di buona intensità. Di media intensità olfattiva, pulito, balsamico, presenta un bel frutto rosso. Di buona struttura, con tannino deciso e legno ancora percepibile, si colgono accenni piccanti che rimandano al pepe, buona la sua persistenza.

Bramaterra Doc “Balmi Bioti” 2015

Granato-rubino di media intensità. Bel naso, pulito, ampio, delicato. Deciso l’ingresso alla bocca, asciutto, con tannino e legno in evidenza, leggermente asciugante, buona la sua persistenza.


Travaglini

Storica azienda di Gattinara, fondata nel 1958 da Arturo travaglini è attualmente condotta dalla nipote Cinzia e dal marito Massimo.

Costa della Sesia Doc Nebbiolo 2018

Nebbiolo in purezza, da vigneti situati tra i 280 ed i 350 metri d’altitudine. Vinificato in acciaio, dove sosta per quattro mesi prima d’essere trasferito in botti di rovere per altri dieci mesi.

Color granato di media intensità. Intenso al naso dove si colgono un bel frutto rosso e note balsamiche. Asciutto, con tannino deciso, frutto rosso, buona la persistenza.

Gattinara Docg 2016

Nebbiolo in purezza, da vigneti situati tra i 320 ed i 420 metri d’altitudine.
Vinificato in acciaio, s’affina per quattro anni, di cui tre in botti di rovere di Slavonia (una piccola parte sosta per un anno in barriques).

Granato con unghia aranciata. Intenso al naso, elegante, balsamico, floreale, con un bel frutto rosso. Strutturato, sapido, con tannino deciso, leggermente asciugante, buona la persistenza su sentori di radice di liquirizia.

Gattinara Docg “Tre Vigne” 2014

Nebbiolo in purezza, proveniente –come dice il nome- da vigneti storici, situati tra i 320 ed i 420 metri d’altitudine. Vinificato in acciaio, s’affina per cinque anni, di cui quattro in botti di rovere di Slavonia (il 20% s’affina in barriques).

Color granato-aranciato. Intenso al naso, ampio, elegante, balsamico, floreale-fruttato. Di discreta struttura, succoso, con tannino deciso e leggermente asciugante, asciutto, con bella vena acida, lunga la sua persistenza su sentori di radice di liquirizia.

Vino da uve stramature “Il Sogno” 2015

E’ per l’appunto un “sogno” questo vino, il sogno di Giancarlo Travaglini, ovvero quello di produrre un vino sulla falsariga dello Sforzato, un sogno che purtroppo non ha però avuto il tempo di veder realizzato. Le uve, appositamente selezionate, appassiscono per 100 giorni sui graticci, prima d’essere lavorate, la vinificazione avviene in acciaio e la maturazione in botti di rovere di Slavonia da venti ettolitri per quattro anni.

Il colore è granato-aranciato di discreta intensità. Intenso al naso dove presenta note di frutta surmatura, prugne, e di ciliegia sotto spirito. Strutturato, deciso alla bocca, morbido, con bella trama tannica e sentori di prugne e ciliegie mature, lunga la sua persistenza. Assaggiato a bottiglia coperta potrebbe essere scambiato per un Porto.


Cantina Comero

La cantina si trova a Sizzano.

Sizzano 2011

Granato di discreta intensità. Mediamente intenso al naso dove presenta sentori di fiori appassiti e di caramella al rabarbaro. Succoso, con bella vena acida e buona trama tannica, asciutto, lunga la persistenza su sentori di radice di liquirizia.


Cantine Garrone

L’azienda si trova a Oira di Crevadossola, in provincia di Verbania, qui si trovano ancora alcuni ceppi a piede franco, le uve provengono in partr dai propri vigneti ed in parte da un gruppo di viticoltori aderenti all’Associazione Produttori Agricoli Ossolani.

Valli Ossolane Doc Rosso Ca’ d’Maté 2017 

80% nebbiolo e 20% croatina, vinificato in vasche d’acciaio d’affina per un anno in botti e per altrettanto tempo in bottiglia.

Il colore è rubino-granato di media intensità. Di media intensità olfattiva, dove presenta note di frutto rosso. Fresco, sapido, verticale, succoso, con lunga persistenza.  Un vino interessante.

Valli Ossolane Doc Nebbiolo Superiore Prünent 2017

Nebbiolo in purezza, del biotipo Prünent, vinificazione in acciaio ed affinamento in botte per un anno, sosta quindi in bottiglia per almeno sei mesi.

Color granato di media intensità. Bel naso, elegante, con sentori di fiori appassiti ed accenni balsamici. Fresco, sapido, succoso, verticale, con bella vena acida e lunga persistenza. Molto interessante.


Antichi Vigneti di Cantalupo

Situata a Ghemme dove dispone di 35 ettari a vigneto, per l’80% nebbiolo.

Ghemme Docg “Anno Primo” 2011

Da uve nebbiolo, allevate a Guyot tra i 280 ed i 310 metri d’altitudine e vendemmiate a metà ottobre. Dopo la fermentazione alcolica sosta in botti di rovere per venti mesi. 

Granato di buona intensità, tendente all’aranciato. Intenso al naso, presenta sentori di fiori appassiti e note terziarie che rimandano al rabarbaro. Austero, succoso, con sentori di radici, buona la sua persistenza.

Ghemme Docg “Collis Carellae” 2011

Uve nebbiolo, selezionate dalla Vigna Carella, dopo la fermentazione sosta due anni in botti di rovere.

Color granato luminoso di buona profondità. Austero, note chinate e di fiori appassiti. Discreta la struttura, succoso ed elegante, con bella trama tannica e lunga persistenza.


Un veloce salto in Valtellina

La Perla

Nata nel 2009 ad opera di Marco Triacca, figlio di quel Domenico, anima dell’azienda Triacca, partendo da un ettaro e mezzo di vigneto a Tresenda, nella zona del Valgella, ora dispone di 3,3 ettari a vigneto, dove, oltre al nebbiolo, si coltiva la pignola valtellinese.

Valtellina Superiore Docg Riserva “Elisa” 2013

Nebbiolo allevato a doppio Guyot modificato con il sistema Triacca. Dopo la fermentazione il vino riposa per 36 mesi in botti di rovere da 5,5 e da 10 ettolitri.

Il colore è granato-aranciato scarico. Mediamente intenso al naso, balsamico, fiori secchi. Intenso al palato, con un bel frutto speziato, tannino deciso ed un poco polveroso, buona la persistenza su sentori di radice di liquirizia.

Sforzato Docg “Quattro Soli” 2013

Le uve, nebbiolo in purezza, vengono appassite in fruttaio per tre mesi prima d’essere vinificate, dopo la fermentazione il vino sosta in botti da 5,5 e da 10 ettolitri per 24 mesi.

Color granato di buona intensità, con riflessi color rubino. Mediamente intenso al naso dove si coglie frutto rosso maturo, tabacco dolce e note balsamiche. Di buona struttura, asciutto con legno percepibile e tannino deciso e leggermente asciugante, buona la persistenza su sentori di radice di liquirizia.


Cantina Menegola

Viticoltori sin dal 1850, i fratelli Menegola hanno fondato una propria cantina nel 2006 a Castione Andevenno, nel cuore della sottozona Sassella.

Valtellina Superiore Docg “Orante” 2014

Nebbiolo in purezza da vigneti di 35 anni, affinato per 12 mesi in barriques e per altrettanti in botti di rovere, ulteriore sosta in bottiglie per almeno due anni.

Granato scarico con unghia aranciata. Mediamente intenso al naso, delicato, elegante, fiori appassiti. Fresco, di media struttura e buona eleganza, succoso, delicato, buona la sua persistenza.

Valtellina Superiore Sassella Docg “Rupestre” 2013

Uve nebbiolo da vigneti aventi 65 anni d’età, allevati tra i 400 ed i 500 metri d’altitudine, affinamento per 24 mesi in botti di rovere ed altrettanti in bottiglia.

Color granato con unghia aranciata. Intenso e contemporaneamente delicato al naso dove presenta sentori balsamici ed accenni di caramella all’orzo. Discretamente strutturato, fresco, succoso, con un bel frutto e buona persistenza.

Valtellina Superiore Sassella Riserva 2013

Le uve provengono da un vigneto di oltre cent’anni d’età, il vino sosta per 40 mesi in botti di rovere ai quali seguono due anni di bottiglia.

Color granato, leggermente velato. Di media intensità olfattiva, decisamente balsamico, con sentori di legno dolce e fiori appassiti. Elegante ed equilibrato, sapido e succoso, con un buon frutto ed una bella vena acida, lunga la sua persistenza su sentori di liquirizia.

Sforzato 2012

Uve provenienti da vigneti di 25 anni d’età, situati tra i 400 ed i 500 metri d’altitudine, affinamento per 12 mesi in barrique ed altrettanti in botte grande, seguono 24 mesi di sosta in bottiglia.

Granato con unghia aranciata. Di discreta intensità olfattiva, presenta sentori di tabacco dolce e di fiori appassiti. Buona la struttura, bello l’equilibrio complessivo, buona la trama tannica, sentori di liquirizia, elegante e dalla lunghissima persistenza.


Ivan Gallo - Dogliani Superiore DOCG Vigna Garino 2014

di Stefano Tesi

Gli anni lo hanno spogliato quasi del tutto dei riflessi violacei e dei tannini più aggressivi, donandogli un colore profondo e lasciandone integra l’inconfondibile nota varietale. 


Al naso è invece denso e rabarbaroso, in bocca ha l’ampiezza neghittosa e un po’ rustica di un vino da contadino piemontese. Eppure piace e si fa bere alla grande. Confortante.

L'Enoteca Ristorante Tre Cristi a Siena - Garantito IGP

Lo ammetto e chi mi conosce lo sa bene: amo i ristoranti rassicuranti, dove trovi quella sobrietà familiare, quasi domestica, che solo gli ambienti a lungo frequentati, o contraddistinti da uno stile pacato, poco chiassoso, quasi che una patina d’antico li avvolgesse come un vecchio mobile di casa sopravvissuto a tante generazioni, sanno dare. Senza rinunciare tuttavia alla frusciante, disinvolta, sottaciuta, mai luccicante eleganza che distingue certi locali dalla più spartana trattoria.


Uno di questi è Tullio ai Tre Cristi, storico locale senese nascosto tra i vicoli umbratili del centro storico. E impregnato di una senesità tutta sua, molto novecentesca, neogotica perfino. Non solo e non tanto nello stile architettonico, che con le sue volte e i suoi affreschi pure fa la sua parte, ma soprattutto nell’aria che vi si respira, nei tavoli spargoli, nelle geometrie di certi impiantiti, in certi dettagli.


Ma Tullio ha anche un’altra virtù: pur essendo un ristorante tradizionale in tutti i sensi, e quindi fortemente rispettoso della cucina locale, non cade nella trappola che in città si direbbe – mutuando un gergo usato in storia dell’arte – “da incarto del panforte”. Tradotto, significa che il ristorante propone sì piatti territoriali, a volte diciamo pure tipici, ma mai in versione caricaturale, mai così ovvi da essere prevedibile fino a quell’oleografia che invece, a Siena, purtroppo si riscontra spesso. C’è invece una toscanità misurata, palpabile, meno popolare e più signorile, quasi sempre ingentilita, a sorpresa, da tocchi mediterranei, che stemperano la consistenza delle portate senza indebolirle. Tipo i pici al ragù di maialino con finocchietto e la tagliata col tartufo bianco. Ma soprattutto c’è il capitolo pesce, un verbo che per tradizione ai Tre Cristi coniugano benissimo non solo in carta, con una scelta contenuta ma sempre affidabile. E’ sul pescato del giorno che quasi sempre si va sul sicuro e vale sistematicamente la pena di fidarsi dei consigli del maitre.


Il tutto accompagnato da una cantina profonda e da un servizio puntuale, quasi impercettibile, che ti lascia godere di certi scorci dove immagini di condividere la sala con librai, antiquari, mercanti d’arte, notabili di una Siena signorile che forse non c’è più, ma ci fu. Conto sui 50 euro più i vini.


Tre Cristi
vicolo di Provenzano 1/7, Siena
Telefono: 0577 280608
chiuso domenica

Arpepe - Valtellina Superiore Sassella DOCG “Ultimi raggi” 2009


In montagna il gusto del nebbiolo ci guadagna. Vabbè, battute scontate a parte questo 2009 conquista il palato per la finezza, tanto che parlare di surmaturazione sembra un ossimoro. 


Ma così è per un'annata difficile a quota 600 sotto le Alpi. Finezza, eleganza, una beva fresca, tannini setosi e la voglia di finire la bottiglia. Arpepe è sempre una garanzia!

www.arpepe.com

Rocca del Principe - Fiano di Avellino 2010

Il Fiano di Avellino 2010 di Rocca del Principe rappresenta il bianco di una azienda perfetta di un'annata perfetta nel comune perfetto provato dopo dieci anni. Prima o poi questa bottiglia si doveva stappare e, come capita subito dopo che hai venduto un'azione, ti penti perchè il prezzo continua a salire. 


Siamo a Lapio, un piccolo comune della provincia di Avellino in continuo calo demografico da 70 anni. Un tempo le sue colline a 500 metri sul livello del mare, erano coperte da una coltre di neve in inverno e avvolte dalla nebbia per gran parte dell'anno (le ricordiamo le prime visite negli anni '90 dove ogni curva era un'avventura) mentre adesso, con il riscaldamento globale, le cose sono cambiate progressivamente, e irrimediabilmente, a partire dal nuovo millennio e la 2010 è quella che si può definire un'annata calda, anche se molto ben equilibrata dalle piogge arrivate nei momenti giusti e da una primavera non afosa.
Mariarita, Martina e Simona sono giovani e molto probabilmente avrebbero abbandonato anche loro il paese come hanno fatto tanti loro coetani se ne 2004 i loro genitori, Ettore e Aurelia, non avessero deciso di iniziare ad imbottigliare le uve che prima vendevano a terzi realizzando un guadagnano sempre più magro. Sette ettari sparsi in cinque vigneti nella mitica contrada Arianello, Lenze e Tognano che da il nome al cru aziendale, dai quali escono 35mila bottiglie.

La famiglia al completo

Lapio è terra di confine, qui le vigne sono DOCG sia per il Fiano che per il Taurasi. Lo spettacolare ponte in ferro costruito alla fine dell'800 è il simbolo di una modernità servita soprattutto a portare il vino sulla mitica ferrovia Rocchetta-Avellino negli anni '20 e '30 del secolo scorso durante la fillossera quando l'Irpinia, e l'attiguo Vulture, divennero due impressionanti distretti vinicoli perchè la malattia delle piante non aveva attecchito, decidendo di arrivare tardivamente insieme alla guerra del Duce.
La fortuna e la sfortuna sono spesso due facce della stessa medaglia, per le comunità come per gli uomini si alternano in un lampo e, finita la guerra, queste zone si ritrovarono senza vigne e iniziò la seconda emigrazione: nel 1951 Lapio poteva vantare quasi tremila residenti, poi tutti i contadini diventarono operai del Nord o minatori in Belgio. L'agricoltura rimase per autoconsumo, per i più un reddito integrativo di chi era rimasto riuscendo a trovare un posto pubblico o a crearsi una professione. Dalla terra si fuggiva, ci si vergognava addirittura.


A Lapio si coltivava soprattutto aglianico e furono i fratelli Antonio e Walter Mastroberardino ad intuire le "potenzialità bianche" di questo territorio subito dopo il terremoto del 1980 e a spingere con i bianchi da Fiano custoditi in bottiglie renane che ancora oggi stupiscono per la loro energia quando vengono stappati.
Negli anni '90 cala il prezzo delle uve e alcuni conferitori diventano produttori. Produttori famosi grazie alle guide come Clelia-Romano Colli di Lapio in questo paese, Caggiano e Molettieri per il Taurasi, Benito Ferrara per il Greco di Tufo. Dopo la prima ondata di metà decennio, esattamente dieci anni dopo, complice l'euro, la crisi del mercato americano dopo la tragedia delle Torri Gemelle, una nuova ondata di conferitori decise di iniziare ad etichettare per difendere in qualche modo il proprio reddito. A Lapio si arrivano a contare circa dieci nuove aziende in poco tempo. Il territorio cresce e proprio il Fiano, ma anche in qualche modo il Taurasi qui sempre elegante e fine, diventano l'unico motivo per restare a vivere all'ombra del Castello dei potenti Principi Filangieri che, come tutta l'aristocrazia meridionale, ha succhiato il sangue ai contadini del Sud per costruire i palazzi con i più alti portoni d'Europa a Napoli.


Oggi Simona si è laureata in Enologia e proprio quest'anno ha firmato interamente la sua prima vendemmia. Quella che invece beviamo comodamente seduti nel Buco di Sorrento, lo stellato democratico di Peppe Aversa, è firmato da Carmine Valentino che ha accompagnato la famiglia in questo percorso dalla vigna alla bottiglia.


Non temiamo più il passare del tempo quando stappiamo un bianco campano, Falanghina e Fiano evolvono in maniera straordinaria rivelando alla fine il fumante e irrequieto suolo vulcanico su cui vive il più grande accampamento umano protocapitalista d'Europa. Il Greco sui tempi lunghissimi affanna, ma se mantiene la freschezza diventa una laurea in mineralogia. 


Pensavamo di trovare dopo dieci anni idrocarburi a go go in questa bottiglia, invece escono, perfetti, i frutti bianchi maturi del Fiano, la mela soprattutto, note di zafferano, un piacevole rimando fumè non omologante che esalta invece il fruttato. Un vino carico di energia, in cui l'acidità è ancora scissa e regala una beva veloce e vibrante, fino a un finale lungo, lunghissimo, con una nota amara tipica di questi vini che ripulisce perfettamente il palato. Un bianco tonico e ricco di energia che ci tiene aggrappati al presente senza farci neanche viaggiare nel tempo.
Dieci anni cosa sono nei tempi lunghi della viticultura? Nulla, se non pensare che questo bianco convenzionale è più sincero di tanti "naturali". Non è vino, è un Fiano!!!

Rocca del Principe, Contrada Arianello, 9. Tel. 0825.982435. www.roccadelprincipe.it.

Selvapiana - Chianti Rufina 2018

di Carlo Macchi

Un sangiovese che mostra il garbo vellutato di annate più calde senza derogare al suo carattere austero. Profumi classici, nettissimi e complessi. 


Mi ha fatto esclamare: “Ma come è buono!” Questo Chianti Rufina più che la quadratura del cerchio è la rotondità del quadrato, venduto a prezzo troppo basso.

Monterotondo: il Chianti Classico ha una nuova luce - Garantito IGP

di Carlo Macchi

I confini disegnati dagli uomini sono per definizione soggettivi, mentre quelli tracciati da madre natura risultano invece profondi e reali. In molti casi Quest’ultimi sembrano parlare agli uomini, consigliandoli o sconsigliandoli a superarli. L’uomo può poi decidere come vuole, spesso a suo rischio e pericolo.
Lo pensavo mentre le curve che da Gaiole in Chianti portano, serpeggiando sui monti chiantigiani, verso Monterotondo, non facevano altro che mostrarmi bosco, bosco e ancora bosco. Come può nascere il vino tra boschi secolari, ad altezze che (attorno ai 600 metri) in passato portavano a vendemmiare a novembre o oltre?
Poi la strada ha pensato di darsi e darmi un po’ di respiro, il bosco ha bonariamente ceduto il passo ai prati e, tornato a riveder il cielo, sono approdato tra le soleggiate vigne di Monterotondo.


Soleggiate ma appunto tra i 550 e 570 metri e qui la viticoltura, il sangiovese, il Chianti Classico sono figli non di un dio minore ma un dio diverso, che trasforma le annate calde in una manna dal cielo e quelle fresche o piovose in una prova dura da superare.
Saverio Basagni e sua moglie Fabiana non sembrano certo persone che vogliono contrastare i diktat della natura, ma se ti ritrovi con un podere di famiglia in un posto difficile ma meraviglioso come fai a non farti venir voglia di continuare a fare vino?
Siamo praticamente sul crinale dei monti del Chianti, sulla strada che sta iniziando a scendere verso la valle dell’Arno e quindi, in un certo senso, volta le spalle al territorio chiantigiano ma in realtà lo guarda dall’alto.
I loro pochi ettari di sangiovese e di altre uve autoctone (Saverio non crede nel monovitigno e sinceramente non posso dargli torto) portano a vini che rischiano di vedersi appiccicata l’etichetta di “territoriali”. In realtà li definirei più “di montagna” anche se dal 2015 Saverio sembra aver “abbassato le montagne”.


La doppia degustazione del Chianti Classico Vaggiolata (dal 2010 al 2017) e della Riserva Seretina (dal 2010 al 2016 senza la 2014 non prodotta), entrambi provenienti da singoli vigneti e con uvaggi leggermente diversi, ci ha presentato un quadro preciso ma interpretabile in maniera diversa, in entrambi i casi però con il 2015 come anno spartiacque. Ma prima dello spartiacque gli uvaggi: il chianti classico è 85% sangiovese, 10% canaiolo e 5% malvasia nera, mentre la riserva è praticamente tutto sangiovese con un 5% di malvasia nera. Torniamo alla degustazione durante la quale si sono creati due “fazioni”.


La prima vedeva nei vini fino al 2015 un’espressione “rispettabilmente antica”, magari in qualche caso bonariamente rude nel tannino, ma austera e avvincente, con Chianti Classico espressivi ma non facili, specie nei primi anni in bottiglia; nelle annate successive notava invece uno sviluppo verso complesse rotondità (l’abbassamento delle montagne sopra accennato) più moderne, non certo facili da ottenere e ancora in parte da digerire.
La seconda invece archiviava con rispetto le sottigliezze dei vini fino al 2015 per accogliere le ultime annate come un reale e concreto passo in avanti. In effetti dal 2015 Saverio ha iniziato ad usare legni più grandi (anche se non ha mai usato barrique) dai 20 ai 30 ettolitri e soprattutto a prolungare le macerazioni, “alla piemontese” si potrebbe dire, che oggi ormai si protraggono anche oltre i 100 giorni.
In vigna, gestita in maniera razionale con attrezzature semplici ma perfettamente adatte allo scopo, si punta a ottenere una completa maturazione fenolica, non facile a queste altezze ma con il vantaggio che anche vendemmiando attorno alla metà di ottobre la gradazione alcolica non sfugge mai di mano.


Da un punto di vista personale ho apprezzato molto annata e riserva 2010, dotate di una finezza setosa e profonda, il 2014 annata (da premiare visto l’andamento climatico) la Riserva 2016 rotonda e completa, figlia di una vendemmia come se ne vorrebbe ogni anno. Ma soprattutto mi è piaciuto il 2018 ancora in botte. Il Chianti Classico 2018 è una solare farfalla figlia di varie “annate-bruco”, nasce cioè dall’esperienze delle vendemmie fino alla 2014 e dai cambiamenti maturati nel 2015, 2016 e 2017. E’ dotata di frutto, freschezza e finezza, nonché rotonda, consistente e suadente tannicità. Sul 2018 le due scuole di pensiero si sono trovate completamente d’accordo ma io credo che ancora il meglio di Saverio debba arrivare perché ho percepito in lui una “pericolosa” voglia di migliorarsi che non guarda in faccia a nessuna richiesta o tendenza del mercato.


A proposito di mercato: per proporre oggi un bianco chiantigiano da trebbiano e malvasia ci vuole un coraggio da leoni: lo stesso che occorre per, una volta assaggiato, non berne una bottiglia da soli. Trebbiano e malvasia saranno vitigni poco glamour, ma anche questi nascono dove il Chianti Classico si guarda dall’alto e la differenza si vede.

Masone Mannu - Cannonau di Sardegna Zòjosu 2015

Da un vigneto in Località Su Canale nel comune di Monti (SS), un cannonau da agricoltura biodinamica che matura esclusivamente in acciaio. 


Profumo netto di ciliegia matura, lentisco ed erbe mediterranee; bocca morbida e fresca, succosa, piacevolissima nonostante i 15 gradi. Con dei Maccarones al ragù

L'Orange Wine di Claudio Fenocchio si chiama Anima Arancio - Garantito IGP



di Roberto Giuliani

Siamo in Langa, in uno dei comuni di punta del Barolo, a Monforte d'Alba, dove dimora un'azienda che ha oltre 150 anni di storia. Come spesso accade le generazioni che si susseguono portano idee nuove, cercano di lasciare un segno del loro passaggio attraverso percorsi innovativi.
Claudio Fenocchio non è più un "ragazzo", anche se forse nell'animo mantiene una gran voglia di crescere e migliorare, perseguendo strade che non hanno nulla di azzardato ma segno di una sobrietà che solo anni di esperienza in vigna e cantina ti possono conferire.

Cosa accomuna ad esempio il Barolo Bussia "90 dì" Riserva e l'Anima Arancio? Il lavoro sulla macerazione, che in un certo senso sembra più un ritorno alle origini, ma con le conoscenze di oggi. Tornare a macerare il nebbiolo per un periodo così lungo nasce dalla consapevolezza che questa pratica ha un senso, fornisce una serie di valori estremamente positivi al vino che verrà, in base ovviamente alla qualità dell'annata, non è un vino che si può fare sempre e comunque.


L'Anima Arancio, invece, è sicuramente un passo nuovo in azienda, anche se quella di macerare l'arneis, vitigno a bacca bianca originario del vicino Roero (e infatti il vigneto si trova a Monteu Roero a circa 350 metri slm), è un'esperienza già affrontata da altre aziende, ma nella maggior parte dei casi si tratta di macerazioni brevi e non di tutta la massa, qui invece parliamo di 30 giorni!
Niente legno, solo acciaio, a dimostrazione che lo scopo è quello di estrarre tutto ciò che l'uva può offrire senza altri "aiuti", la fermentazione fra l'altro è spontanea, senza aggiunta di lieviti selezionati né additivi.
Insomma è a tutti gli effetti un "orange wine", il colore lo dimostra chiaramente, arancio caldo tendente all'ambrato, limpido però, pulito. La sensazione olfattiva ha una profondità del tutto particolare, certamente richiama l'albicocca disidratata, la cotogna, l'agrume candito, ma anche toni minerali, quello che colpisce è l'estrema purezza espressiva, si sente che è un vino seguito con attenzione, il risultato non è frutto di un caso ma di una sistematica ricerca per ottenerne la massima espressione.
E all'assaggio conferma queste impressioni, rivelando fra l'altro una freschezza che non era così intuibile dai profumi, segno che l'anima del vitigno si è perfettamente mantenuta, con in più un delicato tocco tannico che accompagna un frutto sì maturo ma per nulla dolce. Non è un vino ruffiano, al contrario si racconta in modo diretto, "langhetto", e fornisce già tutti gli elementi per intuirne tutta la potenzialità evolutiva.

Artico Azienda Agricola – IGP Lazio Trebbiano “Amaltea” 2017


Federico Artico è l’anima rock del vino del Lazio e i suoi vini, come questo trebbiano in purezza, rappresentano quell’assolo di chitarra elettrica territoriale che troppo spesso è mancato in questa Regione. 


Fresco, sapido, beverino, ad avercene di vini così godibili.

Cappella di Sant’Andrea: l’anima rurale della Vernaccia di San Gimignano

Flavia e Francesco stanno assieme da una vita, frequentavano la scuola superiore assieme, e quando nel lontano 2011 li andai a trovare per la prima volta a Casale, frazione di San Gimignano, avevano da pochissimo iniziato la loro avventura di vita, chiamata CappellaSant’Andrea.

Flavia e Francesco

Il loro obiettivo? Portare avanti il sogno agricolo di Giovanni Leoncini, il nonno di Flavia, che nel 1959 acquistò il podere con l’idea, una volta in pensione, di produrre vino di qualità all’interno della storica DOC Vernaccia di San Gimignano grazie alla costruzione di una cantina efficiente e, soprattutto, grazie all’enologo Paolo Salvi e alla collaborazione di Giulio Gambelli. Una sfida importante per entrambi che dopo la morte di nonno Giovanni, che nel frattempo aveva insegnato a Francesco tutto ciò che sapeva sia di agronomia sia di cantina, si sono rimboccati le maniche dando vita alla loro prima vendemmia targata 2006.

Vernaccia

Sono tornato a Casale dopo nove anni e ritrovo Flavia e Francesco in ottima forma, con una bella bambina in più e, fortunatamente, con una azienda che trovo più viva e florida che mai. Già, perché Cappella Sant’Andrea non è solo una impresa vitivinicola ma, soprattutto, un micromondo rurale ed autosufficiente fatto a loro immagine e somiglianza dove vecchie viti, asini, cavalli e capre, utilizzate per ottenere compost da usare nei terreni, convivono in perfetta sinergia tra loro creando una dimensione di assoluta armonia ed artigianalità. Tutto ha un senso presso Cappella Sant’Andrea anche se apparentemente, soprattutto per me che vengo dalla città, non si può cogliere.



L’azienda, grazie anche a recenti acquisizioni, vanta oggi circa 7 ettari e mezzo di vigneti, tutti di proprietà e coltivati secondo pratiche biologiche (certificazione ufficiale dal 2013) dove possiamo trovare piante di sangiovese, merlot, ciliegiolo e, ovviamente, vernaccia, l’uva bianca regina della DOC Vernaccia di San Gimignano (1966).
I terreni variano a seconda delle zone ma, mediamente, sono sabbiosi di origine pleocenica, ricchi di scheletro, anche se non mancano parcelle dove prevale l’argilla e dove, in maniera saggia, si sono piantate viti a bacca rossa.


Con Francesco abbiamo cercato di fare il punto della situazione della Vernaccia di San Gimignano attraverso la degustazione di tre mini verticali di Clara Stella, Rialto e Prima Luce tutti prodotti tramite fermentazioni spontanee, poca aggiunta di solfiti e, come dice spesso lui stesso, moltissima passione.

Cappella Sant’Andrea - Vernaccia di San Gimignano 2014: prima di diventare ufficialmente Clara Stella (il nome si ispira alla figlia di Flavia e Francesco), è abbastanza palese, degustando tecnicamente il vino, che anche in annate difficili come questa si può dar vita ad una Vernaccia di San Gimignano guizzante, tesa e dalla prorompente spinta sapida. Il segreto di tutto questo? L’amore per la propria Terra e la susseguente capacità di “capire” il vigneto vivendolo 365 giorni all’anno. Nota tecnica: dopo una decantazione a freddo inizia la fermentazione spontanea in acciaio dopo la quale il vino resta sulle fecce fini per tre mesi.


Cappella Sant’Andrea - Vernaccia di San Gimignano “Clara Stella” 2017: figlio di una annata climatica totalmente all’opposto della precedente, è una Vernaccia di San Gimignano pacioccona la cui rotondità gustativa viene fortunatamente smussata da una vena acido/sapida di grande veemenza che regala dinamicità e lunghezza al sorso.


Cappella Sant’Andrea - Vernaccia di San Gimignano “Rialto” 2013: il vino proviene da una selezione di uve dalla vigna più vecchia (circa 50 anni) e, senza giri di parole, possiamo dire che trattasi di un vero e proprio Cru dell’azienda. Francesco ha voluto propormi la 2013 in quanto ultimo anno di utilizzo delle barrique per l’affinamento. Il vino, di conseguenza, risulta ancora leggermente segnato da una sensazione di “tostatura” che non comprimono ma, bensì, forniscono carattere ad una Vernaccia di grande struttura e complessità. Sorso intenso, aromatico, finale sapido. Nota tecnica: la fermentazione è spontanea e il vino ottenuto resta sulle fecce fini per almeno 6 mesi.


Cappella Sant’Andrea - Vernaccia di San Gimignano “Rialto” 2016: sarà l’annata “perfetta” che in Italia sta regalando grandi vini, ma questo Rialto è davvero un vino emozionante sia per la complessità aromatica che riporta a note di ginestra, iodio e sfumature quasi fumè sia per la consistenza palatale caratterizzata da acidità bilanciata e piacevolissima vena sapida a condurre tutto l’assaggio. Chiusura lunghissima su toni salmastri.


Cappella Sant’Andrea - Vernaccia di San Gimignano “Prima Luce” 2014: per capire meglio questo vino bisogna partire dalla sua tecnica di produzione che prevede una fermentazione spontanea in anfora terracotta, sulle bucce, per due settimane. Il vino resta poi sulle fecce per almeno un anno dopodiché passa in legno per alcuni mesi. Il vino in questione, dal colore giallo carico, ha sostanza e struttura, è ricco di ricordi aromatici di frutta secca e spezie gialle, ma la sua carica ossidativa, ricercata dallo stesso Francesco, risulta un po’ troppo coprente andando a vanificare un territorio che andrebbe lasciato più “libero” di esprimersi.


Cappella Sant’Andrea - Vernaccia di San Gimignano “Prima Luce” 2015Francesco, senza troppi giri di parole, ci fa capire che in questo millesimo ha ridotto moltissimo le follature manuali sul vino che, perciò, è stato “lavorato” in maniera estremamente ridotta rispetto alla 2014. Il risultato è evidente sia al naso, dove accanto alle sensazioni di frutta matura e spezie si elevano anche aromi minerali e salmastri, sia soprattutto al sorso ora decisamente più leggiadro e marcato da una decisa spinta di freschezza che tende a stemperare la struttura di una Vernaccia di San Gimignano la cui bottiglia, stavolta, è finita molto prima del previsto.


L’ultimo vino proposto in degustazione è un rosso, una vera e propria chicca tanto che Flavia e Francesco ancora non lo hanno inserito nella gamma dei vini aziendali presenti sul loro sito. Si chiama “Le Maritate”, anno 2017, proveniente da uve sangiovese (meno del 50%), colorino, alicante, ciliegiolo, trebbiano e malvasia (più altre uve locali non ben identificate) provenienti da un vecchissimo vigneto acquistato nel 2016 dove le viti sono ancora maritate, alcune centenarie, all’acero campestre che in Toscana, anticamente, veniva chiamato dai contadini col nome di “chioppo”. Le uve, raccolte tutte lo stesso giorno, sono vinificate in cemento per circa un mese. Dopo la svinatura il vino passa in barrique usate per altri 12 mesi. Il risultato è un vino assolutamente delizioso, per certi versi arcaico, dove le sensazioni di frutta di rovo e pepe sono nitidissime anche se la parte più divertente di questo vino è il sorso, succoso e freschissimo, che invita continuamente alla beva. Vino assolutamente delizioso che rappresenta un affresco di ciò che in passato era la civiltà contadina di San Gimignano