di Carlo Macchi
Narrano le storie chiantigiane che tra la fine degli anni ‘60 e inizio degli ’70 a San Felice, all’ora ancora borgo dove abitavano gli operai dell’azienda e non signori che possono permettersi i costi di un Relais chiantigiano, le cose dal punto di vista enoico non andavano tanto bene: le molte uve rosse (sangiovese in gran parte, ma anche colorino, canaiolo), che mescolate al trebbiano e alla malvasia portavano al vecchio uvaggio per il Chianti, si vendevano male. Forse si sarebbero vendute meglio le uve bianche da sole e così Enzo Morganti, allora fattore e responsabile della cantina pensò, assieme a Giulio Gambelli, di togliere le uve bianche dalle rosse per fare un vino bianco con maggiori possibilità di vendita.
Il loro bianco, assieme a quello di altri che fecero la stessa pensata, venne chiamato Galestro ed ebbe un discreto successo, però le uve rosse senza le bianche dettero risultati incredibili e da quella “pensata al contrario” nacque il Chianti Classico moderno e soprattutto i primi Supertuscan chiantigiani.
Uno dei primi in assoluto, tanto da essere messo temporalmente quasi alla pari col Tignanello, fu il Vigorello la cui prima annata è la 1968. Naturalmente ci sarebbero voluti almeno altri 15 anni per far capire le potenzialità della tipologia denominata Supertuscan, che venne osannata nel mondo e servì a far conoscere il vino toscano.
La 1990, annata di altissima qualità, fu una di quelle nate nel momento migliore e dalle uve migliori. Rispetto ai primi anni il Vigorello aveva cambiato uvaggio, passando nel 1979 dal sangiovese e altre uve autoctone a quello per cui venne conosciuto negli anni d’Oro dei Supertuscan, cioè sangiovese e cabernet sauvignon. Approcciarsi ad una bottiglia del genere non è mai facile, sia per la sua storia che per le aspettative, specie poi se arriva da una vendemmia così importante come la 1990.
Stappo e…bestemmio! Infatti il tappo sa di tappo da fare schifo e l’assaggio successivo sembra essere solo una formalità per confermare ed ampliare il fronte dei peana ai vari dei presenti nel mondo. Invece il dio Bacco, che probabilmente era molto interessato alla bottiglia, fa il miracolo! Non solo il vino non sa di tappo (l’abbiamo finita dopo ore e nessuno dei commensali ce l’ha trovato) ma fin dall’inizio quell’amalgama aromatica che parte dal balsamico, passa per la macchia mediterranea, punta verso note leggermente vegetali, curvando anche su sentori di liquirizia e china, si presenta in perfetta forma.
Il naso è quindi più che a posto e anche il colore, un rubino leggermente scarico è quello che ci aspettavamo. In bocca c’è l’apoteosi: tannicità vellutata, equilibrio, giusta freschezza e corpo importante ci fanno esclamare una serie di “ Ohhhhhhhh” accompagnate da altre esclamazioni positive ma pecorecce che è bene non riportare. Un vino semplicemente superlativo, tra l’altro condiviso con tecnici non toscani che non riuscivano a rendersi conto di come fosse potuto nascere e arrivare fino lì un vino del genere. Se devo dirla tutta, anche io sono rimasto profondamente colpito dalla sua freschezza e assolutà bontà: uno dei vini più buoni che abbia mai bevuto.
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