di Roberto Giuliani
Erano gli anni in cui transitavo in Langa un giorno sì e l’altro pure, il nebbiolo è fuor di dubbio il vitigno che mi ha trascinato dentro il mondo del vino, le sue caratteristiche entrano automaticamente in sintonia con il mio essere, non chiedetemi perché, non lo so e non è rilevante saperlo. Quello che so è che il mal di Langa l’ho provato, una malinconia che si è fatta sempre più insistente in questi ultimi anni, per una mia assenza non voluta, ma questa è un’altra storia.
Per fortuna la mia scorta di vini di quel fantastico territorio mi basta per almeno altri vent’anni. Così, andare a pescare un Barbaresco del 1997 (non date retta a quelli che dicono che il Barolo è più longevo, dipende, come sempre) proveniente dal mitico cru Ronchi (nel 1997 non esistevano ancora le MGA, Menzioni Geografiche Aggiuntive, quindi in etichetta si poteva utilizzare il nome aziendale Vigneto Brich Ronchi, dal 2008 solo Ronchi), rappresenta un bel tuffo nel passato, quando il vino lo faceva ancora Angelo Rocca, terza generazione in quel di Barbaresco.
Quel vigneto vanta piante che vanno dai 50 ai 70 anni (nel 1997 ne avevano già tra i 25 e i 45), è sempre stato composto da più varietà come spesso accadeva in Langa: nebbiolo oltre il 60%, poi dolcetto, barbera, chardonnay, cortese e poco altro, su una superficie totale inferiore ai 20 ettari, con un’altitudine che va da 190 a 290 metri s.l.m.. Si trova sul versante orientale di Barbaresco, con esposizione principalmente a Est, ma anche Sud-Est come nella parte di proprietà della famiglia Rocca che guarda a Neive, qui il suolo è marnoso con inserti di calcare, argilla e sabbia.
Angelo Rocca |
In quegli anni Angelo Rocca non era rimasto immune al fascino delle barriques, infatti proprio per la ’97 le usò nuove. In tempi in cui non era poi così abituale, Angelo preferiva non filtrare e non chiarificare il suo Brich Ronchi, proprio per ottenere tutte le sue qualità espressive al massimo.
Assaggiarlo a distanza di 26 vendemmie è una bella prova, certamente il legno non può che essere integrato, ma per il resto come va? Vediamo.
Il colore è indubbiamente aranciato con vaghi ricordi granata, Dopo opportuna ossigenazione (quasi un’ora nel calice), fa piacere notare che il vino non si è dissolto né spento, la spinta dei profumi è decisa e convinta, ben giocata sul frutto in confettura, prugna, mora e cassis in particolare, corredato da note più terziarie di tabacco, cuoio, fumo, liquirizia, noce tostata, infuso di spezie officinali.
Al palato toglie qualsiasi dubbio sulla sua tenuta, ha ancora una bella verve, la struttura piena e ricca gli ha permesso di tenere botta dopo così tanto tempo, interessante notare il carattere leggermente polveroso del tannino, un marchio di fabbrica del Ronchi, il sorso ha una bella dolcezza e una persistenza davvero notevole. Sicuramente all’apice delle sue qualità espressive, ma la discesa potrebbe essere ancora lontana…
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