di Luciano Pignataro
Stilema: le parole sono importanti, le parole sono importanti, urla Nanni Moretti in Palombella Rossa dopo aver dato il ceffone alla giornalista che fa domande usando vocaboli mandati a memoria e privi del loro significato vero, profondo. Le parole e la precisione del linguaggio sono sempre più importanti adesso che stiamo entrando nella società dei segni che apre le porte al potere di una nuova generazione di scribi nascosti dietro una finta democratizzazione del sapere semplificato.
Stilèma indica un elemento di stile che caratterizza uno scrittore, o anche una scuola o un’epoca letteraria ci ricorda la Treccani. In enologia, possiamo dire che ogni cantina dovrebbe avere il proprio stilèma, a prescindere dal mantra del territorio, del vitigno, dei protocolli usati. O meglio, uno stilèma che nasce dal giusto equilibrio ricavato dall’insieme di questi elementi. Lo Stilèma della Mastroberardino prende forma quando l’azienda era l’unica grande cantina in Irpinia, tra le poche in Campania. I vini nascevano dalla selezione delle migliori uve e la bravura dell’enologo era anche il frutto della capacità degli intermediatori di scovare le migliori partite di uve al miglior prezzo possibile. Un lavoro che è sempre stato fatto con scrupolo, come dimostrano non solo le grandi verticali di Taurasi fatte negli ultimi anni, ma anche da quelle antiche bottiglie di bianco, Fiano e Greco soprattutto, degli anni ’70 e ’80 scovate in questa e quella cantina, anche private. Il risultato è sempre stato eccelso. Nasce in quegli anni lo Stilèma Mastroberardino per i bianchi, un po’ prima per il Taurasi, ossia di vini ben caratterizzati ma discreti, capaci di attendere nel bicchiere la curiosità del naso del degustatore invece di imporsi.
Antonio Mastroberardino - Foto: Ildenaro.it |
Il progetto è chiaramente dedicato ad Antonio Mastroberardino, l’uomo che ha imposto il benchmark aziendale a tutto il comprensorio: «Il progetto Stilèma nasce a testimonianza dell’amore di Antonio Mastroberardino per la sua terra, i suoi vitigni e i suoi vini, per i loro caratteri originari – scrive il figlio Piero - Un progetto avviato a cavallo del Duemila, con una serie di traiettorie sperimentali che partono da cloni selezionati in vigneti prefillossera e giunge sino a una ricognizione dei protocolli di lavoro, in vigna e in cantina, relativi ai momenti in cui i vini irpini maggiormente si sono affermati come punta dell’iceberg di un processo di rinascimento e di rilancio della viticoltura del nostro Paese".
Quel programma si è negli ultimi anni aperto a ventaglio, ponendo su un’unica mappa una serie di iniziative volte a rinsaldare il legame dei nostri vitigni e vini con le loro origini territoriali. Si è così declinato in un più ampio spettro di iniziative, tutte ricadenti sotto la denominazione Stilèma. Il riferimento di partenza è il Taurasi degli anni ’50-70 mentre per i due bianchi siamo negli anni 70-89. Cambiano gli anni, oggi l’azienda possiede oltre 250 ettari, ma la voglia di trovare un gancio con il passato ha prodotto questo progetto che non è altro che una accurata selezione di uve, stavolta di proprietà, lasciate riposare più a lungo rispetto all’epoca in cui i bianchi di annata doveva essere pronti per la Vigilia di Natale nella regione dove il consumo di pesce è il più alto in Italia.
Il risultato di questa selezione, coniugata ovviamente allo sviluppo delle tecniche che hanno contribuito ad affinare i protocolli è alla base del progetto Stilema legato alle diverse docg partito nel 2015 con il Fiano di Avellino, immediatamente salutato con gioia dalla critica specializzata. Stilèma torna al vecchio concetto da cui si era partiti, ossia mettere insieme le migliori uve dei diversi areali con metodi che puntano alla essenzialità del gusto senza concentrazioni e surmaturazioni, ossia senza effetti speciali. Lavorare su diversi areali dello stesso territorio presenta vantaggi immensi sia sulla qualità finale del prodotto sia sulla sua affidabilità: l’Irpinia, come tutte le zone vitivinicole di collina, è un insieme di microclimi molto diversi fra loro per la natura del terreno, l’esposizione dei vigneti, l’effetto dei venti del Terminio e del Partenio e per l’altezza che varia dai 300 ai 650 metri circa. Quando va bene ad una vigna può andare male in un’altra ed ecco qui che il fattore umano, ossia il ruolo dell’enologo che appronta il blend finale, diventa centrale.
Piero Mastroberardino |
Il Greco di Tufo 2017, provato a febbraio scorso e riprovato a novembre durate una cena di Gennaro Esposito realizzata nella tenuta aziendale Morabianca a Mirabella Eclano. L’esecuzione della DOCG più piccola, ristretta solo a otto comuni, è apparentemente la più facile perché l’uva è molto ben caratterizzata da tratti sulfurei anche sin dai primi mesi, ma anche in questo caso l’enologo Massimo Di Rienzo ha imposto lo Stilèma Mastroberardino: a distanza di quattro anni dalla vendemmia il vino appare in perfetto equilibrio, l’acidità agrumata la fa ancora da padrona anche al naso, ma in un contesto appena accennato di note fumé e di frutta gialla, pesca soprattutto. Al palato il Greco rivela tutto il suo carattere ostinato, un rosso travestito, che ne fa un grande bianco gastronomico in grado di accompagnare i piatti più complessi. Strutturati senza problemi.
I vigneti sono a Montefusco, Petruro e ovviamente a Tufo con una resa di 70-80 quintali per ettaro. Dopo la fermentazione il vino sosta per un anno e mezzo sulle fecce in acciaio. Il blend finale prevede il 7 per cento circa di Greco maturato in barrique di secondo passaggio. Poi un anno di bottiglia. Insomma un processo lungo che regala una delle migliori interpretazioni di sempre di questo vitigno.
Bevetene ma conservatene anche, per un bella verticale da qui a dieci anni. Dieci? Facciamo venti!
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