Pio Cesare presenta l'annata 2018 di Barolo e Barbaresco


Se parliamo di Langhe, probabilmente, Pio Cesare è una delle prime realtà vitivinicole di qualità che un appassionato può nominare se non altro perché in quella Terra ha fatto la storia del vino. L’azienda nasce nel 1881 ad opera del fondatore, Cesare di nome e Pio di cognome, ed ancora oggi, ad Alba, rimane l’unica cantina operativa nel centro della città. Non solo. Dopo oltre 140 anni, Pio Cesare è ancora saldamente una impresa famigliare e, dopo la prematura morte di Pio Boffa avvenuta lo scorso anno, oggi le redini dell’azienda sono passate nelle mani della quinta generazione rappresentate dalla ventitreenne Federica Rosy, sua figlia, e dal nipote Cesare Benvenuto che già da tempo lavorava in Pio Cesare. 

Federica e Cesare - Foto: Ansa

Parlando proprio con Federica, durante una assolata giornata romana dove l’azienda ha presentato l’ultima annata di Barolo e Barbaresco, si capisce subito che, nonostante la giovane età, la figlia di Pio Boffa abbia già le idee molto chiare sulla filosofia di produzione. 


"Siamo proprietari di circa 75 ettari di vigneti situati in posizioni di grande pregio nelle Langhe (come ad esempio a Treiso e San Rocco Seno d’Elvio nella zona del Barbaresco e a Serralunga d’Alba, Grinzane Cavour, La Morra, Novello e Monforte d’Alba nella zona del Barolo) e il nostro obiettivo è rispettarli nella loro singolarità e rappresentarli nel loro insieme, fondendo le caratteristiche di ciascuna zona. Questo ci consente di produrre vini veramente “completi” ed assolutamente fedeli e rappresentativi dello stile dell’intera appellazione del Barolo e Barbaresco. È questa, da sempre, la nostra firma che si rivela anche nell’annata 2018, una vendemmia di grande qualità: una delle annate più vicine al concetto di tradizione e classicità del Barolo degli ultimi decenni e sono proprio queste le due parole chiave dello stile Pio Cesare”. 

La 2018 è stata caratterizzata da un inverno freddo e nevoso, che ha reintegrato le riserve idriche del suolo, buone precipitazioni primaverili e un’estate stabile senza eccessi di calore. Un autunno soleggiato con escursioni termiche notturne ha accompagnato lentamente la maturazione dell’uva fino al livello ottimale e alla raccolta dell’ultimo grappolo... “Alla Natura non si poteva davvero chiedere di più”, sorride Federica. Le uve di Nebbiolo da Barolo e Barbaresco sono state raccolte rigorosamente a mano tra il 5 e il 13 ottobre e hanno raggiunto la cantina che si trova (unica!) nel centro storico della città di Alba. Qui con la massima delicatezza, i grappoli delle diverse parcelle vengono sapientemente assemblati ancor prima della fermentazione secondo la “ricetta” di famiglia e poi iniziano il loro percorso di vinificazione. 


Dopo lunghe macerazioni sulle bucce per almeno 30 giorni a temperature controllate, inizia il processo di affinamento che dura per circa 3 anni, di cui almeno 24 mesi in botte grande di rovere francese e dell’Est Europa con un piccolo passaggio in barrique soltanto nei primi 12 mesi di affinamento. Segue poi un lungo riposo in bottiglia di circa 9 mesi” spiega Federica. “Dedichiamo al nostro Barbaresco Pio lo stesso periodo di affinamento del Barolo Pio (ovvero 1 anno in più rispetto al minimo richiesto dal disciplinare) perché entrambi questi vini sono figli dello stesso grande vitigno, il Nebbiolo, e soprattutto perché provenendo principalmente dal comune di Treiso e dalla vigna Il Bricco di Treiso, caratterizzata da un’altitudine elevata e da un clima più fresco, il nostro Barbaresco Pio ha bisogno di più tempo affinché i tannini si possano ammorbidire ed il vino raggiunga il pieno equilibrio tra acidità e frutto”. 


Degustando il Barbaresco 2018, nonostante la giovane età, si percepisce nettamente la precisione stilistica dell’azienda che ritrovo in un olfatto strepitoso di ribes e melograno che lascia col tempo e l’ossigenazione spazio alla viola e alla rosa. Al gusto esprime tutta la sua classe e l’equilibrio dei migliori; ha proporzione, precisione e finezza tannica, e in chiusura una lunga scia di piccoli frutti rossi leggermente maturi. 


Il Barolo 2018, elegante ed austero, sfoggia un impianto olfattivo articolato di superba finezza e complessità; complesse note sapide e fruttate lasciano spazio a sentori quasi salmastri intrecciati a note di mora di rovo, ciliegia, viola appassita, genziana e sbuffi speziati. Il sorso ha già una buona beva, più dinamico che massiccio, con grana tannica solida ma fine, in un contesto di rara piacevolezza per un Barolo appena uscito sul mercato.

InvecchiatIGP: Bellaria - Provincia di Pavia IGT "La Macchia" 1998


di Lorenzo Colombo


Il vino che andiamo ad assaggiare per la rubrica settimanale InvecchiatIGP è di un’azienda che purtroppo non esiste più, la Bellaria di Paolo Massone


Cominciamo dal nome, un aneddoto, raccontato da Gianluca Ruiz de Cardenas, produttore oltrepadano, amico di Paolo Massone la cui azienda risiede nella stessa frazione, Mairano, del comune di Casteggio, dove ha (aveva) sede anche la Bellaria. Dunque Ruiz de Cardenas, grande appassionato di Borgogna e di Pinot nero, sostiene che il nome La Macchia sia stato da lui suggerito a Paolo in quanto traduzione dal francese di La Tache, Grand Cru del comune di Vosne-Romanée, nella Côte de Nuits, nonché monopole di Romanée Conti. Cosa curiosa, dato che La Macchia è prodotto con uve Merlot. 

L’azienda Bellaria 

Un documento, presso la camera di commercio di Pavia, attesta che l’azienda è stata condotta, sin dal 1840, dalla famiglia Massone, Paolo Massone, che è stato anche presidente del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, l’ha gestita sino al mese d’agosto 2019, anno in cui l’ha poi venduta. 
La Nuova Bellaria è il nome che è stato dato all’azienda dai nuovi proprietari, la famiglia Zaffarana e Federperiti, Filippo Zaffarana è infatti co-fondatore, nel 1992 di questa associazione, nonché suo presidente da oltre vent’anni.
L’azienda è stata trasformata in Resort, pur continuando la produzione di vino, che però non viene commercializzato sugli usuali canali di vendita, ma è possibile acquistarlo unicamente in azienda. 

Il vino 

La Macchia veniva prodotto con uve Merlot provenienti da un vigneto messo a dimora nel 1990 su suoli di natura argillosa, allevato a Guyot con densità d’impianto di 5.000 – 6.000 ceppi ettaro. La prima annata di produzione è stata la 1997, anno in cui, per puntare sulla qualità assoluta del vino s’è passati da una produzione media per ceppo si quattro chilogrammi ad una di 1,5 chilogrammi tramite drastici diradamenti. L’ultima annata di produzione del La Macchia è stato il 2005, anno infausto per Paolo Massone, che in un solo anno ha vissuto la perdita di più familiari.  Nel 2019, come sopra specificato la decisione sofferta di vendere, anche perché i figli avevano scelto un’altra strada. 


Ora Paolo, col quale abbiamo avuto una conversazione telefonica alcuni giorni fa collabora col vecchio amico Gianluca Ruiz de Cardenas nella sua azienda. 
Al telefono ci ha detto che le annate migliori per i suoi vini sono state quelle a cavallo degli anni 2000 ed in effetti, consultando una vecchia guida abbiamo constatato che La Macchia 2000 aveva ricevuto il prestigioso riconoscimento dei 2 Bicchieri Rossi dalla guida Vini d’Italia del Gambero Rosso-Slow Food, non ci resta quindi che provarlo, se riusciremo a scovare qualche bottiglia di quell’annata, a tal proposito, nella ricerca nella nostra cantina abbiamo scovato un Bricco Sturnèl 1998, Cabernet sauvignon con l’aggiunta di un 20% di Barbera, ci ripromettiamo quindi d’assaggiarlo quanto prima. 

L’assaggio 

La bottiglia, tenuta rigorosamente coricata per anni in cantina, si presentava nuda, sia l’etichetta che la controetichetta erano integre ma completamente staccate, l’apertura s’è rivelata un poco laboriosa, siamo infatti riuscire a togliere il tappo in tre step. 


La prima impressione, vedendo il tappo quasi completamente colorato dal vino, non è stata delle migliori, comunque lo stesso non denotava alcun segno olfattivo di degradazione. Scaraffando il vino ecco un altro buon segno dato dal colore ancora molto bello, data l’età, granato di buona intensità con unghia leggermente sfumata verso l’aranciato.


Integro al naso, discretamente intenso, elegante ed ampio, con frutto ancora in evidenza (ciliegia matura e prugna), si colgono in sequenza note balsamiche, accenni di sottobosco e spezie dolci, vaniglia, sentori di noci, sbuffi di pepe.


Dotato di discreta struttura, asciutto, con trama tannica ancora in bell’evidenza, legno ancora presente ma ben integrato ed assolutamente non fastidioso (ricordiamoci che eravamo negli anni dove l’uso del legno, barriques soprattutto, era gestito con disinvoltura), morbido ma con buona vena acida, accenni di caffè in polvere, cioccolata calda, vaniglia e poi ancora la frutta rossa, lunga la sua persistenza su sentori di liquirizia. 

Un grande vino del quale sentiamo la mancanza.

Pratello - Garda Doc "Riesling" 2020


di Lorenzo Colombo

Da vecchie viti di Riesling provenienti dal Colle Brusadilì, nel comune di Padenghe del Garda, a 300 metri d’altitudine, su suolo argilloso di natura morenica si ottiene questo vino dal colore giallo dorato e dai sentori di frutta tropicale con accenni piccanti e con note d’idrocarburi.




Castello Bonomi, tutto il bello della Franciacorta


di Lorenzo Colombo

Castello Bonomi fa parte, dal 2008 di Casa Paladin, una realtà di proprietà della famiglia Paladin, che dispone di tenute in diverse regioni italiane: la casa madre Paladin, in Veneto, Bosco del Merlo, tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, Fattoria di Castelvecchi nel Chianti Classico, Casa Lupo in Valpolicella ed appunto Castello Bonomi in Franciacorta.


Situata nella parte più meridionale della Franciacorta, a sud del Monte Orfano, la tenuta dispone di 24 ettari a vigneto che nelle sue parti più alte si sviluppa su gradoni sino ai 275 metri d’altitudine, tutti i vigneti sono inerbiti, potati a Cordone speronato e condotti in regime biologico. I vigneti sono suddivisi in 32 parcelle, 22 di Chardonnay e 10 di Pinot nero e ciascuna di queste viene vinificata separatamente per poi compiere un certosino lavoro di assemblaggio che andrà a costituire i vari vini.


La tenuta prende il nome dall’edificio a forma di castello (sino ad alcuni anni addietro si chiamava Castellino Bonomi) in stile liberty costruito a fine ‘800 dall’architetto Antonio Tagliaferri, per conte di Andrea Tonelli, acquista in seguito dall’ingegner Bonomi, tuttora proprietario dell’edificio, che negli anni ’90 recuperò i vigneti terrazzati già preesistenti.


La produzione annuale è di circa 150.000 bottiglie, centomila delle quali sono di Franciacorta, prodotto in nove diverse etichette, durante la nostra visita in azienda, accompagnati da Martina Paladin abbiamo potuto degustare cinque di questi vini, ecco le nostre impressioni:

Franciacorta Brut Cuvée 22

Il nome del vino deriva dalle 22 parcelle aziendali di chardonnay dalle quali provengono le uve per la sua produzione. Si tratta del vino d’ingresso dell’azienda e dell’unico Franciacorta non Millesimato prodotto, la fermentazione avviene in vasche d’acciaio ed il processo di spumantizzazione prevede una sosta sui lieviti minima di 24 mesi (erano 30 nel caso del vino da noi assaggiato).
22 euro il suo prezzo in azienda.


Il colore è paglierino scarico luminoso. Fresco al naso, fruttato, sentori di pesca bianca ed accenni di lieviti. Cremoso e sapido, dotato di buona struttura, bel frutto, pesca e accenni di mela, lievi note tostate e lunga persistenza.
Per essere il vino d’ingresso si può certamente affermare che siamo su alti livelli.

Franciacorta Brut CruPerdu Millesimato 2017

70% Chardonnay e 30% Pinot nero. Parte dello Chardonnay fermenta in barriques dove matura per circa otto mesi, il periodo d’affinamento in bottiglia è di almeno 60 mesi. Il vino deve il nome alla riscoperta, nel 1986, nei pressi di un bosco, di alcune piante di vite coperte dai rovi, da cui Cru Perduto. In azienda viene venduto a 26 euro.


Si presenta con un colore paglierino piuttosto scarico, quasi color platino. Intenso al naso dove spicca un frutto giallo maturo unito ad accenni vanigliati, si coglie inoltre una certa nota evolutiva nel vino che sfocia in sentori di mela matura. Cremoso al palato, strutturato e molto intenso, sapido e dotato di spiccata vena acida, tagliente, quasi citrina, percepiamo sentori agrumati di pompelmo e limone, buona la sua persistenza.

Franciacorta Cuvée 1564 Brut Nature Millesimato 2017

45% Chardonnay, 45% Pinot nero e 10% Erbamat, oltre 40 i mesi di sosta sui lieviti. Prima annata di produzione per questo vino nella cui composizione rientra un 10% di Erbamat (percentuale massima ammessa dal disciplinare di produzione) ed il cui nome deriva appunto dall’anno in cui il vitigno viene citato per la prima volta da Agostino il Gallo che così scrive “Albamate, atteso che fanno vin più gentile d’ogni altro bianco: ma perché tardano à maturare, non è perfetto sin’al gran caldo, & più quando ha passato un anno. Ma taccio le altre uve bianche, per havervi ragionato delle migliori”.


L’Erbamat è un vitigno che è stato inserito nel disciplinare di produzione del Franciacorta nel 2009 e che può essere utilizzato nella quantità massima del 10%, seppur in crescita il vitigno rappresenta una percentuale assai bassa del vigneto franciacortino, se ne posso infatti contare al momento solamente una trentina d’ettari. Il vitigno si presenta con un grappolo dalle dimensioni piuttosto importanti e si configura come un vitigno a maturazione tardiva, la vendemmia, infatti, avviene sino ad oltre un mese dopo rispetto alle altre varietà ed a causa della sua bassa fertilità basale dev’essere potato a Guyot.


Castello Bonomi è stata una delle prime aziende a credere ed a lavorare su questo vitigno, spumantizzandolo in purezza, tanto che è l’unica realtà franciacortina che può vantare una verticale completa dal 2011 al giorno d’oggi.
Il colore è paglierino luminoso di media intensità. Buona la sua intensità olfattiva, al naso si colgono sentori d’erbe officinali uniti a leggeri accenni aromatici.
Fresco e sapido, con spiccata vena acida, leggeri accenni tostati e lunga persistenza. Un vino che ha come dote migliore la coerenza tra naso e bocca. E’ stato prodotto unicamente in Magnum.
Nota: Della Cuvée 1564 sono state prodotte anche in passato alcune annate dove la percentuale di Erbamat era decisamente più consistente (30% - 40%), ovviamente questi vini non sono usciti con la denominazione Franciacorta, ma unicamente come VSQ Cuvée 1564 Millesimato.

La Riserva Lucrezia

La Riserva Lucrezia costituisce il vertice della produzione aziendale, viene prodotto unicamente nelle migliori annate stabilendo in base all’andamento climatico la tipologia di Franciacorta che andrà ad occupare. Nel 2007 è stato prodotto nella tipologia Rosé (Etichetta Rosé) utilizzando unicamente Pinot nero, nel 2008 è uscito in due versioni: Etichetta Bianca, blend di 70% Pinot nero e 30% Chardonnay e Etichetta Nera, Pinot nero vinificato in bianco (vino assaggiato) e nel 2009 si è prodotta la tipologia Saten (Etichetta Bianca), ovviamente con uve Chardonnay in purezza (altro vini di cui scriviamo sotto).

Franciacorta Saten Riserva Lucrezia Etichetta Bianca 2009

Chardonnay in purezza, da vigneti d’oltre 30 anni d’età, fermentazione in barriques con periodici batonnages, una parte del vino s’affina poi in vasche d’acciaio, a primavera s’effettua il blend e quindi il vino viene posto a rifermentare in bottiglia dove rimane per almeno 120 mesi.


Color giallo paglierino luminoso. Buona l’intensità olfattiva, note vanigliate, pasticceria, crema pasticcera, leggeri accenni affumicati.
Morbido e strutturato, sapido, note affumicate, legno percepibile, lunghissima la persistenza. 1.500 le bottiglie prodotte, vendute in azienda a 85 euro.

Franciacorta Riserva Lucrezia Etichetta Nera 2008

Un Blanc de Blancs da Pinot nero in purezza, con uve provenienti dai vigneti aziendali più vecchi situati a 275 metri d’altitudine, prodotto unicamente nelle migliori annate s’avvale d’una sosta sui lieviti di oltre 120 mesi.


Paglierino di buona intensità. Mediamente intenso al naso, discreto, fine, dotato di notevole eleganza, frutto a polpa gialla. Sapido e cremoso, complesso, elegante, composto, dotato di notevole equilibrio, bel frutto, mela, leggeri accenni tostati, lunghissima la sua persistenza. Un grande vino, dotato di rara eleganza ed equilibrio, ne sono state prodotte 2.200 bottiglie, vendute in azienda ad 85 euro.

InvecchiatIGP: Marchesi di Barolo - Barolo "Vinclap" 1943


di Stefano Tesi

Guai a parlar male delle vecchie zie. Anche di quelle che quando andavi a trovarle ti inchiodavano col rosolio e i racconti della Belle Epoque, se poi tra tante cianfrusaglie ti lasciavano bottiglie d’epoca di cui ignoravano il valore e che quindi avevano conservato per un’esistenza intera – e bene o purtroppo anche no, sempre involontariamente si capisce – nella fresca penombra di un’odorosa cantina. Se poi le bottiglie in questione oggi si rivelano d’epoca davvero, diciamo con più di mezzo secolo di vita, l’affare si può ingrossare. Al netto dei fatali rischi naturali dettati dall’età, si capisce.


È lo strano caso di questo Barolo Vinclap del 1943, ritrovato in garage tra decine di altre bottiglie di cui spero di poter presto riferire, con l’etichetta distaccatasi dal vetro e rimasta lì integra, appoggiata allo scaffale, come una foglia d’autunno.
Così l’ha prelevata, tra i lasciti, un mio caro amico, nipote di cotante zie.

E ha deciso di testarlo con e la sua famiglia.

Dopo breve ricerca , del vino ho scoperto esistere due versioni, una intestata agli “Antichi poderi dei Marchesi di Barolo” e un’altra, quella de quo, intestata alla Vinclap (acronimo di Vini Classici del Piemonte) con riportato in etichetta “Antichi poderi dei Marchesi di Barolo”. Non ho avuto modo né tempo di indagare più a fondo e di capire le differenze tra le due varianti, né sulla pur intrigante questione della quotazione (in rete si va dai 150 ai 300 euro) delle bottiglie, perché mi pareva inutile e perfino irrispettoso verso un vino di quasi ottant’anni, sopravvissuto a una guerra e che, lo sottolineo o anzi di più, si è rivelato alla fine non solo bevibile, ma perfino godibile. Il che, per tante comprensibili ragioni non era affatto scontato.

Il livello del liquido pareva accettabile e ciò era incoraggiante.
La stappatura, eseguita con mille cautele, è stata più semplice del previsto. Il tappo, per quanto assai corto rispetto agli standard odierni, si è rivelato sostanzialmente integro.


Io e il mio amico abbiamo officiato alla cerimonia sospesi tra l’emozione, la curiosità e i timori. Sulle prime, portato al naso il vino pareva andato, nonostante il colore ancora relativamente pieno e vivo.

Mai, però, dare per morti i grandi vecchi.

Si decide così di concedergli fiato per un’oretta. Diciamo una rianimazione.
E lui risorge. Quasi resuscita, direi.

Lo fa ovviamente come fanno certi anziani parecchio anziani, alternando momenti di lucidità ad altri di appannamento, in una cangianza rutilante che però ha riempito di rabbocchi sorpresi i nostri bicchieri durante il pranzo.



Non ho voglia di addentrarmi nel dettaglio, anche perché le mutazioni, a tratti radicali, si sono susseguite davvero ogni dieci minuti e sono state tante. Ognuna a suo modo piena di pneus, il soffio vitale. Per un paio d’ore nei calici si è avvertito, col disincanto anche dissacrante della circostanza, “di tutto”, come in un bel volo a planare (cit.) sovrastato dal compiacimento e dall’emozione dell’imprevisto successo. Naso e palato hanno potuto esercitarsi, scandagliare.
È stata un’esperienza altamente formativa sul Barolo, sul Nebbiolo e soprattutto sulla libertà mentale che ti aiuta quando avvicini i sensi a qualcosa da cui ti aspetti di tutto e niente.

C’è chi li chiama miracoli enologici, chi magia del vino.

In ogni caso, grazie zia!

La Combàrbia - Vino Nobile di Montepulciano DOCG 2018


di Stefano Tesi

Il Nobile di Montepulciano è un’amante che ora ti esalta e ti gratifica, ora ti tradisce e ti delude. In ciò sta il brivido. 


Qui siamo nella prima categoria: tipico fin dal colore, profumi giusti e ricchi, bocca lunga e composta, profonda ma viva. Bella bevuta e bravi l’enologo Giuseppe Gorelli e il produttore Gabriele Florio. 

Monte Oliveto e i suoi vini di Abbazia


di Stefano Tesi

La settimana scorsa, su questa rubrica, l’ottimo Luciano Pignataro si interrogava sul significato da dare all’espressione “vino elegante”. 

Per parte mia voglio rilanciare e chiedere: che vuol dire, invece, “vino territoriale”?  

In teoria è facile rispondere: dicesi territoriale il vino che rispecchia il territorio in cui nasce e viceversa. 

Ma in pratica? 

In pratica credo sia difficilissimo: per farlo con serietà di argomenti è necessario possedere una conoscenza così specifica e particolare di suoli, luoghi, climi, odori, essenze, usi, tecniche e così via possibile solo a chi )o quasi) nelle zone interessate ci vive ed è perciò capace di cogliere sfumature e sentori “ambientali” altrimenti non individuabili. 

Ebbene, di recente ho avuto l’opportunità di assaggiare dei vini che ho davvero trovato territoriali. E lo dico a ragion veduta, in quanto prodotti più o meno a casa mia, nelle Crete Senesi. 

Abbazia di Monte Oliveto

Si tratta di quelli dell’Abbazia di Monte Oliveto, il grandioso complesso monastico fondata nel 1317 dal beato Bernardo Tolomei e casa madre degli Olivetani, congregazione obbediente alla regola di San Benedetto: “Ora, labora et lege”. Regola che i monaci osservano alla lettera. Sono infatti monaci-agricoltori e pertanto, da sempre, anche vignaioli. 

Perdersi qui e ora nell’inesauribile aneddotica su questo luogo straordinario, dall’atmosfera profondamente mistica, rischierebbe però di distogliere l’attenzione dal vino in sè. Anche se per comprenderlo a fondo occorre anche sapere che, come forse da nessun’altra parte, nella grande fattoria olivetana la compenetrazione tra agricoltura, missione, tradizione, stile di vita è assoluta. E in nessun caso se ne potrebbe prescinderne. “Il rapporto lavoro-liturgia è per noi vitale”, spiegano l’economo generale don Antonio e in responsabile della produzione vinicola don Andrea. “Per restare al comparto vitivinicolo, basti dire che ogni operazione in vigna e in cantina, dall’inizio della vendemmia all’imbottigliamento, fa sempre riferimento a precise ricorrenze liturgiche”. 

Molto più recente, circa vent’anni fa, è invece la messa a dimora del vigneto specializzato per la produzione di vino destinato al mercato: cinque ettari e mezzo in un unico corpo, su un suolo in prevalenza argilloso esposto ad est, sul versante della collina che guarda verso Chiusure e San Giovanni d’Asso, nel cuore della grande tenuta facente capo all’Abbazia, come racconta l’enologo Gianni Terzuoli (uno che, tanto per rendere l’idea del senso della continuità insita nel modello olivetano, proviene da una famiglia a servizio dell’Abbazia da sette generazioni). Varietà coltivate: Vermentino, Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon. 

Ancora più recente la svolta qualitativa, con l’abbandono della cantina storica nelle viscere del monastero (ora trasformata in affascinante luogo di vendita diretta e di degustazione, nonché tappa obbligata della visita al grande complesso), la realizzazione della nuova, il passaggio al biologico (“il biodinamico non è invece di nostro interesse”, specificano i monaci), e un restyling enologico generale i cui frutti si sentono, eccome, nel bicchiere. 


La prima di queste evidenze è la coerenza stilistica tra i vari vini. Il che non guasta, vista anche la vastità della produzione: ben otto etichette, cui si aggiungono liquori, distillati e amari, tra i quali la tradizionale Flora a base di erbe. 

La seconda evidenza è appunto la territorialità. Ho trovato corrispondenza tra le caratteristiche intrinseche dei vini e le aspettative dettate dalla conoscenza dei luoghi di produzione: la sensazione di calore e di compattezza, la mancanza di fronzoli e di concessioni alle mode commerciali, insomma una personalità marcata ma non per questo ostica, o tecnicamente inadeguata, o compiaente. Schiettezza è forse l’espressione più giusta. 

Ecco una carrellata degli assaggi che più ci hanno convinto: 

- In Albis 2021 Toscana Igt, un Vermentino al 100% decisamente fuori dal comune, oro pieno all’occhio, naso screziato con note quasi mature e accenni di ginestra e fiori di campo, bocca sapida e consistente, appena amarognola: un vino godibile e terragno, anzi “territoriale”; 

- Sancte Benedicte 2021 Toscana Igt, Sangiovese 100% fatto solo in acciaio: è il rosso “d’ingresso” della gamma ma spicca per ricchezza olfattiva e pulizia, molto diretto e verace, gratificante nonostante la gradazione importante (14°); 


- “1319” 2018 Toscana Igt, fatto col 60% di Sangiovese, il 30% di Cabernet sauvignon e il 10% di Merlot, è il vino creato per il 700° della fondazione dell’Abbazia: selezione delle uve in vigna, poi vinificate separatamente e messe per un anno in botte da 27 hl (95%) e tonneaux (5%). Rosso ovviamente importante, dal colore rubino intenso e caldo e dal naso solenne, quasi austero, equilibrato ma ricco di sfumature che si ritrovano al palato in una rotondità niente affatto stucchevole (ci sono però cambi in vista: dalla vendemia 2021 viene prodotto in un tino-botte, spiega Terzuol)i; 

- Passito del Priore 2021, Toscana Igt da uve Vermentino 100% lasciate appassire per due mesi sui graticci, poi torchiate e fatte fermentare in acciaio per 45 giorni con un po’ di bucce, il tutto viene messo in barrique per cinque mesi: ne risulta un vino di colore paglierino dai riflessi verdognoli, molto fruttato e suadente al naso, che in bocca si mantiene agile ma dura a lungo, rivelandosi particolarmente gradevole e versatile. 


Facendo la somma delle produzioni dei vini descritti sopra e di quelli di cui parleremo una prossima volta (il vivace Rosatum di Sangiovese vinificato in bianco, il Coenobium Grance Senesi doc a taglio bordolese, il cangiante Monaco Rosso e il singolare Vinsanto), si arriva a circa 50mila bottiglie prodotte. Ora, se dicessimo che i vini di Monte Oliveto valgono da soli la visita faremmo un grave torto tanto all’abbacinante bellezza artistica, architettonica e paesaggistica del luogo, quanto al messaggio più ampiamente culturale e spirituale di cui esso è portatore. 

Ma faremmo anche un torto ai vini dicendo che essi rappresentano solo un quid pluris della visita, nemmeno fossero una sorta di souvenir. Non a caso, su prenotazione, si possono fare anche degustazioni guidate. 


Come spesso accade, la verità sta nel mezzo. Ed è pure la meno prevedibile: tranne qualche rara eccezione nei ristoranti in zona, infatti, attualmente l’unico modo per procurarsi i vini dell’Abbazia è andarci di persona (cosa di cui, come detto, vale assai la pena). Oppure comprarli sull’e-commerce della congregazione. 

Più territoriali di così… 

Amen!

Assovini Sicilia lancia l'allarme:"Il caro energia mette in discussione la vita di tante aziende vitivinicole!"


L’aumento dei costi di energia, del vetro e del packaging, così come i problemi di reperibilità di molti accessori mettono a rischio la produttività delle aziende vitivinicole siciliane. Assovini Sicilia si fa portavoce delle difficoltà delle aziende associate che riscontrano un aumento dei costi dei beni e dei materiali di consumo come tappi di sughero, cartoni di imballaggio, gabbiette per i tappi degli spumanti, etichette, macchinari, costi di trasporto e logistica.

Laurent Bernard de la Gatinais, presidente di Assovini Sicilia, fa il punto della situazione: “Si prospettano tempi difficili per le nostre aziende a causa del caro bollette che rischia di vanificare non solo il recupero post Covid che ha ravvivato i primi mesi dell’anno, ma anche di mettere in discussione la stessa continuità di molte aziende. Il risparmio energetico e i tagli ai consumi elettrici possono rappresentare una risposta non sempre praticabile a livello aziendale. Quello che conta è trovare soluzioni tampone per il breve periodo e percorrere con la massima determinazione la strada della transizione ecologica per il medio-lungo termine”.


“I rincari delle bollette del gas e dell’energia elettrica, anche di cinque volte rispetto alla situazione pre-crisi, sono ingiustificati e generati, molto probabilmente, dalla forte speculazione di molte aziende energetiche, che acquistano, distribuiscono e vendono il gas in Italia” – continua il presidente di Assovini Sicilia.

“Forse la tassazione sugli extra profitti delle compagnie attive in tale comparto potrebbe essere una soluzione immediata per trovare coperture finanziarie alle manovre di sostegno alle imprese. Se oggi ci fosse una azienda statale di produzione di energia, un intervento dello Stato nel calmierare i prezzi di vendita dell’energia ci sarebbero soluzioni più incisive. Dovremmo riflettere sull’eccessiva liberalizzazione del mercato energetico e dei meccanismi di formazioni dei prezzi dell’energia – vedi il sistema dei prezzi agganciato alle quotazioni della borsa di Amsterdam. 
Spero che l’Unione europea riesca ad influenzare il mercato di contrattazione e di acquisto del gas e i prezzi di vendita dell’energia elettrica. Bisogna che la politica – in particolare quelle italiana ed europea – si occupi di attuare un piano energetico efficace ed efficiente e una produzione energetica nazionale sostenibile. 

Laurent Bernard de la Gatinais - Foto: vinup

Mi sembrano molto poco “green” le soluzioni che puntano a riaprire le centrali a carbone e l’utilizzo di gas liquefatto proveniente dagli USA, estratto con metodi devastanti per l’ambiente e dai costi improponibili, rigassificatori compresi. 
Se da un lato, gli aumenti dei costi di produzione delle nostre aziende rischiano di portare ad incrementi di listino in un periodo di incertezza dei consumi, dall’altro, la qualità della vendemmia 2022 si presenta ottima e questo ci fa ben sperare sul posizionamento dei nostri vini sul mercato”conclude de la Gatinais.

InvecchiatIGP: Guido Marsella - Fiano di Avellino 2006


di Luciano Pignataro

L’ultima volta che abbiamo provato il 2006 è stato appunto tre anni fa, prima dell’inizio del Covid e della fine della favola del neoliberismo che tutto aggiusta e tutto fa progredire, il tapis roulant economico della globalizzazione.
Sempre straordinari questi Fiano perché, tanti per cominciare, ormai li apro con la stessa sicurezza con cui potrei aprire un Aglianico: non c’è più dubbio sulla tenuta del vino nel tempo. Di più: non c’è alcun dubbio sulla crescita olfattiva e gustativa. Se abbiamo potuto godere di vini anni ’80 di Mastroberardino vent’anni dopo, tanto più il problema non si pone adesso che molti hanno iniziato a ragionare sui tempi lunghi. Guido Marsella per primo, un anno dopo la vendemmia 1997, ossia nel 1998, e poi due anni a partire dalle 2013.


La 2006 di presentava all’inizio come una annata più diluita, mezzo grado dichiarato in meno rispetto a quella precedente. Beh, nel corso del cammino di questo vino non abbiamo potuto far altro che godere della sua tenuta e della sua inarrestabile crescita fino ad una strepitosa magnum stappata, appunto, nel settembre 2019.


Questa bottiglia esce invece dal cappello a cilindro di Nando Salemme, grandissima cantina nella sua osteria Abraxas a Pozzuoli, ove si beve e si gode sempre buon prezzo. Il Fiano di Avellino di Marsella non teme di arrivare dopo uno Champagne, o un rosso. Tanta è la sua struttura, anche in una stagione più debole come questa, da appagare le sensazioni tattili del palato a tutti i livelli. Al naso prende corpo l’idrocarburo che in ogni degustazione fa pronunciar la parola Riesling ma che a me riporta in mente i bagni nel porto che facevo da bimbo.
Immutata la freschezza che trascina il vino velocemente, immersa nelle buone sensazioni di mela matura, un po’ di miele millefiori, zafferano, sino alla chiusura piacevolmente amara. Un grande vino, un bianco chiamato a fare la storia enologica in un settore che ha in Italia ancora troppi bevitori distratti dalla Borgogna.

Tasca D'Almerita - Sicilia Chardonnay DOC "Vigna San Francesco" 2017


di Luciano Pignataro

Un grande classico pensato oltre 40 anni fa in Sicilia, ricco di fruttae di sentori speziati, cremoso, complesso al palato, pulito e lungo nel finale. 


Perfetta fusione tra frutto e legno. Una delle più belle espressioni di Chardonnay che con gli anni migliora senza sosta.

Proprietà Sperino - Lessona DOC 2016


di Luciano Pignataro

Non sono un grande esperto di alto Piemonte, ma voglio approfittare del turno di Garantito IGP per urlare il mio assoluto godimento dopo aver provato questo rosso di assoluta eleganza.


Già, ma quando possiamo definire tale un vino? Cosa significhiamo con questo termine sempre più di moda e che ha sostituito potenza? Diciamo che l’eleganza è equilibrio, nelle persone come nei vini, quando tutti gli elementi si compensano a vicenda senza che un, un particolare, sovrasti sull’altro al punto da distrarre l’attenzione dal resto. L’eleganza si può avere anche con la potenza, chi non ricorda Cassius Clay, ma in questi ultimi tempi si associa sempre più alla finezza: dei profumi, dei tannini, della beva al palato, nella chiusura.
Il Nebbiolo ha questa vocazione anche se negli anni ’90 molti hanno pensato all’Amarone o al Primitivo mentre lo lavoravano e la finezza, il riserbo di questo vitigno lo si trovava spesso altrove, nel. Barbaresco tanto per cominciare, ma soprattutto in Valtellina e poi, sempre più chiaramente, in Alto Pimonte. Ed è qui che è nata la fortuna di tante denominazioni ritenute minori ma che hanno conquistato la simpatia degli appassionati, anche perché sicuramente più accessibili per i prezzi. Il Lessona, siamo in provincia di Biella, suolo sabbio sotto le Alpi, è uno di questi e Proprietà Sperino, ripreso dalla famiglia De Marco lo ha rilanciato alla grande interpretando alla perfezione il ruolo a cui aspira questo vitigno. Dodici ettari di vigneto, poco più di 50mila bottiglie l’anno.


Il gioco è tutto nell’uso del legno, che dipende a sua volta dalla esperienza maturata anno dopo anno, a seconda dell’andamento vendemmiale.. In questo caso la stagione è apparsa regolare, Primavera giustamente piovosa ed estate non troppo calda. Un settembre che ha permesso la assoluta maturazione del Nebbiolo, vendemmia fra il 15 e il 19 ottobre. Fermentazione spontanea su tini aperti. Il vino passa poi in maturazione nei tonneaux e botti da 15 ettolitri per altri tre anni. Ancora un anno di bottiglia e ci siamo.


Il risultato lo abbiamo visto su un piato di polipetti alla luciana, con il rosso che ci ha deliziato non solo per l’abbinamento, ma anche quando poi ci siamo goduti l’ultimo bicchiere in assoluto. Giusto tono di freschezza, beva immediata, facile ma non banale, bella complessità olfattiva. Finale lungo, lunghissimo.
Un grande rosso piemontese. Un grande rosso italiano.

InvecchiatIGP: Zidarich - Teran 2002


di Carlo Macchi

Ci sono bottiglie che segnano momenti particolari e questa magnum di Terrano di Beniamino Zidarich ne incarna uno preciso. Siamo all’inizio del nuovo millennio e Benjamin, persona di una dolcezza e disponibilità uniche, aveva da poco fatto il grande passo, quello di lasciare il posto fisso in fabbrica per dedicarsi definitivamente alla sua, allora microscopica, cantina sul Carso. 


Una volta presa la decisione però le cose si erano mosse in fretta e ricordo ancora lo stupore con cui mi affacciai sul “buco”, che sarebbe diventato la sua attuale cantina. Bisogna sottolineare una cosa: in Carso la terra è un dono celeste e, se va bene scavando ne hai 50 centimetri: poi è tutta roccia e quel buco quasi quadrato non era scavato solo nella roccia ma nel coraggio di un ragazzo che aveva scelto la sua strada e vi aveva messo tutto se stesso, anche e soprattutto dal punto di vista finanziario. 

Si dice che la fortuna sia cieca ma la sfiga ci veda benissimo e quindi ecco arrivare una vendemmia come la 2002: fredda, piovosa, difficilissima, specie per un vitigno/vino particolare come il Terrano. 


I miei amici triestini mi hanno sempre detto che il Terrano in passato era un vino che doveva essere bevuto in quattro persone: due ti tenevano fermo e uno ti infilava il vino in gola. In effetti quest’uva è della famiglia dei Refosco e da questa varietà, complice anche la roccia carsica, ha sviluppato l’acidità, in certi casi quasi insostenibile. Ma se l’acidità era (ed è) il suo “pregio” la mancanza o quasi di tannini era il suo cruccio e da molti questo vino è sempre stato considerato, nella migliore delle ipotesi, un rosso da bersi giovane. 

Quindi ricapitoliamo: un Terrano (vino da bersi giovane) di un’annata difficilissima per i rossi. 

Mentre mi giro la bottiglia tra le mani noto due cose: la retroetichetta è quella di una bottiglia bordolese (probabilmente anche l’etichetta, ma allora Beniamino di magnum ne faceva pochissime e questa è stato un regalo) e il vino arriva a malapena a 11.5°. A questo punto non posso non stapparla, anche perché davanti a me ho nientepopòdimenoche Burton Anderson, anche lui incuriosito da questo vino e dalla sua storia. 

Anche se avevo e ho grande fiducia nei vini di Beniamino mi aspettavo, nella migliore delle ipotesi, un rosso piuttosto stanco che, attaccato alla sua acidità, stesse tramontando con onore. Invece… 


Un bel rubino, brillante anche se non intenso, mi ha fatto capire subito che il vino non accettava impunemente i 20 anni e la vendemmia sfigata. 


Addirittura contrattacca al naso con, accanto a note di terra, funghi e erbe officinali, chiare note di lampone e ciliegia. Naso ancora integro e complesso quindi, ma è in bocca che il vino sorprende tutti, non solo grazie a un’acidità modulata e stimolante ma anche appoggiandosi a una tannicità spargola e suadente che rende il sorso equilibrato e molto lungo. Lo beviamo e lo ribeviamo con piacere accanto a un menù che, partendo dai crostini e arrivando al cinghiale in umido, più toscano non si può. A distanza di venti anni non posso che dire “Grazie Beniamino!”

Fontezoppa: Serrapetrona DOC "Pepato" 2020


di Carlo Macchi

La vernaccia nera di Serrapetrona, liberata “dall’incubo” di dover essere passita e spumantizzata, mostra tutta la sua semplice e agreste bontà. 


Naso che spiega subito il perché del nome, affiancato da fini note di amarena. Bocca con un tannino deciso ma armonico. Perfetto con i vincisgrassi al ragù.

Anteprima Bolgheri Superiore 2020: la bellezza della diversità


di Carlo Macchi

Del Castello di Donoratico, costruito dai Della Gherardesca nel XII° secolo, oramai è rimasto poco. Una torre, diruta ma che comunque svetta per una ventina di metri ed essendo posta sulla cima di una collina nell’immediato retroterra bolgherese, si vede da lontano. 

Da vicino, all’ombra di questo inquietante e austero rudere, guardando verso il mare è facile immaginarsi di vedetta, magari mentre navi nemiche si stanno avvicinando alla costa e tu gridi per avvisare del pericolo. 


Ma noi non siamo venuti fino alla Torre di Donoratico per avvistare navi nemiche ma vini amici, in particolare i Bolgheri Superiore 2020 in anteprima nazionale a Bolgheri Divino, grazie ad una degustazione perfettamente organizzata dal Consorzio Bolgheri e Bolgheri Sassicaia. 

Cinquantadue vini che usciranno in commercio nel 2023, di cui una ventina ancora campioni da botte o appena assemblati, sono stati assaggiati in circa tre ore da giornalisti e/o blogger italiani e esteri, che a questo punto (magari più gli italiani degli esteri) avranno già scritto le loro impressioni. 

Prima di dirvi le mie devo confessare una certa titubanza verso verdetti precisi e quasi definitivi su annate in divenire, ma soprattutto su vini che dovranno entrare in commercio, come minimo, tra un anno. 

Per farvi capire il mio stato d’animo combattuto vi faccio un esempio: mettiamo per assurdo che tutti noi degustatori si venga trasformati in esperti di maglioni di lana. Conosciamo benissimo il materiale con cui è fatto, Il modo in cui viene lavorato, colorato, preparato per andare in commercio, insomma il prodotto finito. Però una degustazione in anteprima è come mettere degli esperti di maglioni di lana di fronte a un gregge: al suo interno ci saranno le pregiate merinos, le cheviot che danno lane ruvide e poco adatte ai nostri amati maglioni, le crossbred, una via di mezzo tra le due e magari anche delle capre hircus, dal cui pelo si ricava il pregiatissimo Cashmere. 

La lana (e quindi il vino) c’è, però si parla comunque di pecore o capre, che vanno tosate e il ricavato pulito, lavato, lavorato, filato e poi trasformato in maglioni: per questo non è detto che un esperto di maglioni riconosca al volo la pecora (o la capra) che darà la lana migliore. In queste degustazioni mi sento come l’esperto di maglioni di fronte al gregge e così cerco prima di tutto di capire com’è il gregge nel suo insieme e poi, magari passo a valutare i singoli animali. 

Fuor di metafora: se dovessi dare una valutazione sull’annata 2020 del Bolgheri Superiore sinceramente… non la darei, o almeno la darei (e la darò) suddivisa per le tipologie di Superiore che ho incontrato assaggiando i vini. 


La prima suddivisione di tipologie la fa il disciplinare: infatti i Bolgheri Superiore (e i Bolgheri Rosso) nascono da cabernet sauvignon, merlot e cabernet franc, in purezza o in percentuali/mix a piacere. Entra nel mazzo anche la possibilità di usare syrah e sangiovese fino al 50% e petit verdot fino al 30%. Anche se da qualche anno si producono Bolgheri Superiore da vitigni in purezza la stragrande maggioranza è frutto di “uvaggi bordolesi”, di blend delle varie uve con percentuali diverse : Insomma, le pecore del nostro gregge sono quasi tutte frutto di incroci “tra razze” e questo rende l’assaggio ancor più complesso. 

Ma veniamo alle tipologie, in particolare a quella dei campioni da botte o da vasca: una buona parte mostravano dei nasi molto maturi, sicuramente dovuti all’imbottigliamento “artigianale”, altri note giovanili e classiche delle uve bordolesi, altri erano semplicemente coperti completamente da legni quasi sempre non bellissimi. Quasi tutti avevano, logicamente, tannicità molto importanti e spesso mancavano di freschezza. 

La freschezza, questa sconosciuta, potrebbe essere il nome di un altro gruppo, in questo caso però di vini imbottigliati in affinamento. Certo i Bolgheri Superiore non devono basarsi su un’acidità importante ma l’impressione è che la 2020, con una estate molto calda e secca, darà a tanti vini corpo e tannini ma un contraltare non molto importante di freschezza. Già che ci siamo metto sul piatto il dato che una fetta di vini mostra un’alcolicità un po’ fuori dalle righe. 

Inoltriamoci tra le varie trame tanniche e troviamo quel gruppo di vini già in bottiglia che definirei “scivolatori” cioè vini che già adesso “scivolano”, che non mostrano tannini fermi, se non quelli del legno e che danno la sensazione di essere un po’”vuoti” a metà palato. Questi difficilmente potranno migliorare nel tempo e probabilmente faranno parte della sezione più “beverina” dei Superiori. 


All’opposto troviamo il gruppo dei “roboanti” quelli che nel corpo, nella potenza, nei tannini (adesso ruvidi) ci sguazzano. Tra questi molti, con un discreto numero di anni di invecchiamento (diciamo da 6 a 8), daranno buone soddisfazioni. Non avranno magari grande finezza ma sicuramente il tempo gli porterà equilibrio. 

Arriviamo così ai cashmere, a quei Superiore importanti al palato e dotati di nasi ancora giovanissimi dove si percepiscono legni di alto profilo e complessità futura e soprattutto in bocca hanno quel “dolce peso” di tannini importanti e setosi. Questi non sono molti, diciamo un 10-15% del totale e, almeno per quanto mi riguarda, all’interno del gruppo mancano alcuni di quei nomi che dovrebbero esserci. 

Una piccola annotazione per un piccolo gruppo di vini (non più di 3-4), chiamiamolo gruppetto nouvelle vague, che mi hanno sorpreso per freschezza affiancata a buona, giovane e vibrante tannicità e a un naturale equilibrio. Questo vuol dire che a Bolgheri, in annate con estati calde e siccitose si possono fare vini sin da subito non solo vini freschi ma anche armonici e eleganti. 

Insomma, come avete visto, almeno per me non si può presentare la vendemmia 2020 in maniera univoca: questa è forse la vera caratteristica di quest’annata: una diversità notevole tra i vini, credo dovuta in buona parte alla conduzione del vigneto. Considerando la consistenza numerica dei vari gruppi suddetti alla fine, se proprio dovessi dare un voto all’annata non andrei oltre il 7 di media, con un grosso gruppo di vini tra il 6 e il 7, un altrettanto folto gruppo tra 7 e 8 e 4-5 vini di grande/grandissimo livello. 

Questa è la conformazione del gregge, secondo me. Se qualcuno volesse invece nomi e cognomi… dovrà aspettare.

A Roma 40 cantine per Lugana Armonie Senza Tempo - Giovedì 15 settembre


Torna a Roma per la seconda edizione
Lugana Armonie senza Tempo


Evento degustazione dedicato alla Doc Lugana
Giovedì 15 Settembre
Villa Piccolomini - via Aurelia Antica 164 - Roma
Ore 16 Masterclass condotta dal giornalista Daniele Cernilli dedicata alla stampa e operatori

Dalle 18.30 fino alle 23 apertura al pubblico


Si terrà giovedì 15 settembre Lugana Armonie senza Tempo, evento degustazione che arriverà per la seconda volta nella Capitale per raccontare, con un viaggio affascinante, tutte le sfumature della DOC del Lago di Garda.


Il Lugana, una tra le prime DOC istituite in Italia, è un vino prodotto dal vitigno turbiana che affonda le proprie radici nei territori a sud del Lago di Garda fin dall'epoca romana. Uva dalla buccia dura e dal grappolo compatto dà vita a vini di bella acidità, versatili e longevi.

Grazie a Lugana Armonie senza Tempo, che si terrà nei suggestivi spazi di Villa Piccolomini, accanto al Colle del Gianicolo ed immersa nel verde e nell'atmosfera magica che contraddistingue questo splendido angolo della città, si potrà assaporare la produzione della Doc Lugana con le sue tipologie Lugana, Lugana Superiore, Lugana Riserva, Lugana Vendemmia Tardiva e Lugana Spumante.

Passando da un banco all'altro, dove ad attendere il pubblico ci saranno oltre 50 vignaioli con le loro storie e le loro etichette, si avrà a disposizione una mappa esaustiva e coinvolgente della produzione enologica di questa speciale denominazione racchiusa nel territorio di cinque Comuni, a cavallo tra il Veneto e la Lombardia.

Armonie Senza Tempo è un evento a cura del Consorzio Tutela Lugana Doc.

PROGRAMMA

Ore 16.00 Masterclass curata e condotta dal giornalista Daniele Cernilli
A numero chiuso e riservata alla stampa e ai professionisti. Solo su invito o con richiesta ed approvazione accredito. Per richiesta accredito: accreditolugana@robertaperna.com

Ore 18.30-23.00 Wine Tasting
Aperto al pubblico con ticket di ingresso

Il biglietto di ingresso comprende

- Degustazione delle etichette di circa 40 cantine del Consorzio Lugana
- Assaggi di prodotti del territorio
- 1 calice con tracolla marchiato Consorzio Lugana