Collestefano, il Verdicchio di Matelica alla prova del tempo

Una vecchia canzone di Niccolò Fabi e Max Gazzè più o meno diceva:"vento d'estate, io vado al mare voi che fate....."

Cari ragazzi, ma è ovvio, noi ci vediamo all'Osteria Monteverde e beviamo Verdicchio di Matelica, durante la stagione calda non può mancare soprattutto quando Alessandro ci porta buona parte della verticale storica del Collestefano, vino cult per molti, vino dal grandissimo rapporto q/p per tutti.

Il vino della famiglia Marchionni, proveniente da 15 ettari di vigneto certificato biologico e prodotto per la prima volta nel 1998 attraverso un blend delle varie parcelle aziendali, lo abbiamo declinato in otto annate (dal 2003 al 2012 escludendo 2004 e 2005) al fine di capire se e come può evolvere questo verdicchio che da sempre fa solo acciaio e che oggi viene prodotto in circa 80.000 unità.

Bevitori e ....timidoni..
Verdicchio di Matelica Collestefano 2012 da Magnumcapire come un terreno posto a 450 metri ricco di calcare e scheletro possa influenzare un vino è abbastanza semplice: provate questo vino da giovane! Il verdicchio di Fabio Marchionni in questa fase di gioventù è tagliente e affilato come la lama della spada di Goemon, è acido, vitreo, essenziale canterebbe Mengoni. L'annata calda non la sentiamo, ha solo tempo per migliorare e stemperare i vizi di gioventù.

Verdicchio di Matelica Collestefano 2011: Stanlio e Ollio, questi primi due verdicchio potrebbero tranquillamente andare a braccetto e formare, fisicamente, la famosa coppia di attori che in tanti abbiamo ammirato. Perchè? Se il 2012 prende la fisionomia di Stan Laurel (Stanlio) per il suo essere dritto e magro, la 2011 non può che avere le sembianze di Oliver Hardy per il suo essere più pacioccone e largo. Strana annata questa, il Collestefano sembra quasi non essere lui nonostante la sua fresca adolescenza. Minerale, fruttato, rivela col tempo delle note quasi tostate e speziate abbastanza inaspettate. Manca un pò di freschezza ma dalla sua ha corpo e carattere. Stapperò un'altra bottiglia tra un paio di anni per capire come intende evolvere.

Verdicchio di Matelica Collestefano 2010: si cambia registro, è lui, lo riconosco, è il mio Collestefano ed è tornato più in forma che mai. Se domando a me stesso le caratteristiche di un grande Verdicchio di tre anni non ho dubbi nella risposta: deve essere intenso, dotato di elegante espressione agrumata, vegetale (anice), minerale e floreale. A queste qualità, poi, si ha la necessità di aggiungere doti di freschezza, finezza, equilibrio e persistenza. Ecco, questo Collestefano ha tutti questi requisiti e mentre lo bevo mi ammalia per la sua chiusura sapida e succosa. Basta poco per finire da solo la bottiglia. Grande versione!

Qualcosa, col tempo, è cambiato....
Verdicchio di Matelica Collestefano 2009:  qualcuno mi ha detto che le annate dispari del Collestefano non sono le migliori. Sarà che il confronto con la precedente annata è davvero duro ed impietoso, ma questo Verdicchio al naso risulto abbastanza anonimo, forse è ancora chiuso, forse il marcato tratto minerale imprigiona (troppo) la carica fruttata e vegetale che sento solo in lontananza e che prende la forma dell'anice e del sambuco. Chissà... Fortunatamente i punti li riprende un pò alla gustativa che caratterizza un palato fresco, vibrante e dalla felice chiusura sapida. Mah, chissà se quel qualcuno ha ragione?!?

Verdicchio di Matelica Collestefano 2008: nonostante l'annata sia pari sembra che il dio del  tricloroanisolo, volgarmente del Tappo, abbia fatto visita a questa bottiglia che, dopo un breve combattimento, ha dovuto desistere e alzare bottiglia bianca alla TCA. Che ci siamo persi?

bevitori....schizzati.
Verdicchio di Matelica Collestefano 2007: l'annata calda carica il vino di una evoluzione che fino ad ora non avevo sentito così marcata. Al naso esce immediatamente il miele di castagno affiancato da sentori di frutta gialla matura, quasi esotica e sprazzi idrocarburici. In bocca avverto la stanchezza di questo Verdicchio che parte molle e sembra non avere la forza di ingranare la prima. Ancora una versione larga del Collestefano che si fa ricordare solo per la buona scia minerale nel finale. 

Verdicchio di Matelica Collestefano 2006: forse non tutti sanno che Fabio Marchionni, prima di condurre con successo la sua azienda famigliare, ha preso la laurea in enologia e per fare esperienza è andato a lavorare in Germania in due piccole realtà vinicole della zona del Reno. Chissà come ha fatto Fabio a portare in bottiglia quei territori e quelle magie ma questo Collestefano sembra in tutto e per tutto un grande riesling e sono sicuro che, se messo alla cieca in un tavolo di vini della Mosella e del Reno, non sfigurerebbe affatto grazie alle sue doti mixate di agrumi e idrocarburi. Il vino preferito di tutta la verticale, una punto di arrivo che in realtà rappresenta un punto di partenza per l'azienda. 

Muffette...
Verdicchio di Matelica Collestefano 2003: quando penso di aver trovato una certezza nel Collestefano, e cioè che le annata calde (e dispari) non vanno a genio al vino, ecco arrivare questo Verdicchio a smentire tutto. Solo il colore giallo paglierino carico tradisce forse l'età non più candida visto che l'olfatto è ancora pimpante e giocato su sensazioni di granito, idrocarburi, camomilla per poi virare su inaspettate sensazioni mentolate e di erbe mediterranee. Bocca più orizzontale che verticale ma tutt'altro che grassa ed alcolica. Chiude , ricco e sinuoso, su note di buccia di arancia amara e mandorla. Vista l'annata e il suo stato di anzianità lo metto al secondo posto del podio a pari merito con la 2010.

La verticale completa
Chiudiamo la cena con il Rosa di Elena, il rosato di Collestefano prodotto da uve sangiovese. Che dire, non mi ha entusiasmato più di tanto, Fabio probabilmente è ancora alla ricerca della via maestra per questa tipologia di vino che mi è sembrato sì fresco e beverino ma anche abbastanza semplice. 


Roberto, lo chef dell'Osteria con la verticale di Collestefano







Lapio e il Fiano di Avellino di Rocca del Principe

Il terroir del Fiano è composto da quattro territori: Montefredane, Summonte, Cesinali e Lapio. Rocca del Principe, azienda nata nel 2004 per volontà di Ercole Zarrella, suo moglie Aurelia Fabrizio e il fratello Antonio, assieme a Clelia Romano è una delle realtà più importante di tutto l'areale che viene spesso considerato uno dei Cru di maggiore pregio.

Con Ercole visitiamo subito i suoi vigneti, 5 ettari coltivati a fiano collocati sulle pendici del colle Arianiello, la parte più alta del comune di Lapio che rappresenta, così dicono, una delle zone più vocate per la coltivazione del vitigno. 

Foto: Lello Tornatore
I vigneti, in particolare, sono stati impiantati tra il 1990 e il 2011 e hanno esposizioni opposte collocandosi sia a nord che a sud. 
Nel primo caso troviamo due appezzamenti, uno in contrada Arianiello, a circa 600 metri di altezza, e l'altro in contrada Tognano a 520 metri di altezza. A nord, ovviamente, il clima è più fresco e ventilato e le escursioni termiche più accentuate. I terreni sono abbastanza sciolti, di origine vulcanica, costituiti da uno strato superficiale  composto da limo, sabbia, arenarie e lappilli mentre l'argilla la troviamo solo in profondità.
A sud/est, invece, troviamo vigneti in contrada Arianiello e contrada Lenze (altezza di 570 metri s.l.m.) mentre con esposizione sud/ovest abbiamo il vigneto in contrada Campore post ad altezza di 500 metri s.l.m.. Il clima qui è decisamente più caldo e il terreno ha natura argillosa e calcarea.

Parte delle vigne di Rocca del Principe
Ercole spiega la sua filosofia a Lello!
Spiegazioni. Foto: Lello Tornatore
Il tempo a disposizione non è tanto, un breve giro nella piccola cantina di vinificazione dove l'acciaio è un pò il padrone, e via di corsa a degustare una mini verticale del loro unico Fiano di Avellino che, a partire dal 2012, esce in commercio con un anno di ritardo. La scelta è ovviamente coraggiosa ma, come visto con altri produttori che hanno scelto da tempo questa strada, il Fiano per essere davvero grande va lasciato riposare affinchè possa esprimersi al massimo in futuro.

La piccola cantina. Foto: Lello Tornatore
Seduti attorno ad una bella tavola di legno abbiamo degustato:

Fiano di Avellino 2011: la nuova annata, messa in commercio per la prima volta con un anno di ritardo, si presenta con due novità estetiche: la forma della bottiglia, che diventa una borgognotta, e la nuova etichetta che vira verso un bianco più lineare ed elegante. Il vino presenta al naso note scalpitanti di frutta gialla e fiori di campo mentre al sorso è avvolgente, delicato e di grande dinamismo. Da mantenere in cantina e riaprire tra due anni.

Foto: Lello Tornatore
Fiano di Avellino 2010: degustato un anno fa a Roma in occasione dell'evento "I Terroir del Fiano" l'avevo giudicato un vino verticale dove le note minerali e acide erano in grande evidenza. Oggi, lo stesso vino, ha aggiunto complessità e profondità al profilo gusto-olfattivo che si ammorbidisce con le note di agrume maturo, ginestra, timo e una nota idrocarburica che forse denota una evoluzione che sta pian piano iniziando. In bocca ritrovo la grandezza dei 2010, tutto è plasmato perfettamente per dare al degustatore ogni possibile piacere edonistico.

Fiano di Avellino 2009: complice probabilmente un'annata non felicissima trovo questo Fiano abbastanza avanti con l'evoluzione visto che il naso gioca su toni di muschio, foglie secche, farine di castagne. In bocca, invece, si rifà discretamente mostrando un lato gustativo rotondo e di buon equilibrio. Per me da bere subito con grande goduria.

Foto: Lello Tornatore
Fiano di Avellino 2008: è un vino che mostra tutta l'eleganza e la classe di un Fiano con qualche anno sulle spalle. Ritrovo al naso il miele di castagno, la mineralità di Lapio, le note di erbe aromatiche e di idrocarburo mentre al sorso il Fiano si presenta denso, rotondo, avvolgente e presenta una chiusura che vira sulla nocciola tostata. Forse manca un pà di acidità per dargli il giusto "grip" ma è indubbio che è stato e sarà un grande vino di territorio.


Franciacorta Satèn 2008 Arcari + Danesi

Adoro lo Champagne in maniera smisurata ma, nonostante tutto, mi applico poco nello scrivere di "cose frizzanti".
La domanda, come diceva qualcuno, però sorge spontanea: perchè allora scrivi di Franciacorta, cioè di metodo classico italiano? Semplice, perchè quando mi trovo davanti ad un grande spumante come questo mi rimane difficile non prendere carta e penna, pardon, tastiera e PC e non "buttare giù" qualche impressione.
Partiamo però dall'inizio: chi sono Arcari e Danesi? Giovanni Arcari e Nico Danesi, anzitutto sono amici, l'amore per il vino li ha fatti incontrare, discutere, sognare, e così nel 2002, grazie hanno provato a creare il loro progetto che, ancora oggi, ha preso la forma di TERRAUOMOCIELO, un'idea solo in parte imprenditoriale che si propone, così come scritto sul loro blog ufficiale, di salvaguardare il mondo agricolo fatto fatto innanzitutto da uomini capaci di vederlo nel suo insieme, contribuendo alla creazione di vini con una precisa identità e comunicando al mercato la loro unica, irripetibile caratteristica.


L'intuizione visionaria di Giovanni Arcari, allora agente di commercio, e Nico Danesi, enologo, ha preso concretezza quando si sono incontrati con Andrea Arici durante la vendemmia del 2002, primo anno di produzione di una piccolissima azienda franciacortina che oggi, grazie alla loro consulenza, è diventata una splendida perla di come Agricola Colline della Stella. Oggi, dopo oltre dieci anni, TERRAUOMOCIELO è diventata una realtà consolidata interagendo con altre piccole aziende locali come ad esempio Camossi, giovanissima azienda franciacortina che più volte ho avuto il piacere di bere a Roma.

Arcari e Danesi
Qual'è, però, il sogno proibito di tutti gli amanti del vino? Creare un proprio vino, un prodotto che sia a loro immagine e somiglianza. Ecco, perciò, la nuova sfida dei due amici/soci: dare vita ad un loro Franciacorta proveniente da uve chardonnay di due piccoli vigneti situati in zona Capriolo (2 ettari) e Coccaglio (2.5 ettari).
Lo spumante, prodotto in 3000 unità, prevede un tiraggio effettuato solo con lieviti senza aggiunta di liquer, affina 35 mesi sur lie a cui seguono almeno 6 mesi di bottiglia dopo la sboccatura.
Quello che mi davvero impressionato di questo vino è stata la tua temperanza, la sua precisione millimetrica che per certi versi mi ha ricordato certi champagne RM bevuti negli ultimi giorni. E' uno spumante che punta tutto sulla sapidità, sulle durezze che, a centro bocca, vengono smussate abilmente da ritorni di mela matura, pain grillé e fiori di acacia. Pur essendo strutturato è tuttavia agile e scattante, perfetto nella sua misurata freschezza e incredibilmente persistente.


Foto: TerraUomoCielo
L'ho visto venduto online a circa 30 euro, un prezzo davvero egregio vista anche certa concorrenza. Bravi ragazzi, avanti così!

Quando un vino si può dire "alla francese"?

Giuro che non mi va di parlare male dei miei "colleghi" blogger, però leggendo l'ultimo post uscito su Avvinando (wine blog del TG COM) mi è scappato più di un sorriso. 
Il titolo dell'articolo era abbastanza stuzzicante: Tenuta Rapitalà Casalj: il grande bianco siciliano “alla francese”.

Ah però, penso, fammi vedere fino a che punto si spinge il paragone tra un vino siciliano e uno francese?

Nell'articolo si parla del Casalj, vino bianco della grande e nota azienda siciliana che, leggo, dal 2011 viene prodotto solo con Catarratto. Il perchè della scelta è spiegato nell'articolo di Sergio Bolzoni che ha riportato le seguenti affermazioni di Laurent Bernard de la Gattinais, titolare di Rapitalà insieme al Gruppo italiano vini:“Volevo andare verso un vino che si caratterizzasse per l’eleganza e quindi abbiamo deciso di fare a meno dello Chardonnay”.


Caspita, un francese figlio di un conte francese che rinnega lo chardonnay battezzandolo come simbolo di non eleganza? Boh, vabbè, proseguo la lettura cercando a sto punto di capire sempre di più perchè il Casalj è un grande bianco siciliano "alla francese". 

L'articolo va avanti presentando una piccola verticale di tre annate del vino in questione, dal 2010 al 2012. Dando una scorsa alla descrizione dell'annata 2011 si può leggere quanto segue: vira sulla mineralità, sulla sapidità e su una certa asciuttezza e compostezza il 2011 che si rivela con grande sorpresa uno dei bianchi con la maggiore persistenza assaggiati negli ultimi mesi (dove per persistenza si intende quanti secondi il sapore di un vino resta intatto nel palato prima di sparire o degenerare). Diremmo quasi alla francese..

Ecco, siamo forse arrivati al punto. Forse ho capito male io ma, secondo l'autore, un vino può definirsi "quasi francese" solo quando questo ha questi tre caratteristiche: mineralità, sapidità e persistenza. Tutti gli altri, per esclusione, saranno "quasi qualcosaltro".

O forse il "quasi" è dovuto alla NON presenza di chardonnay....

O forse il "quasi" è dovuto al fatto che il vino è,  a prescindere da tutto, prodotto in Italia....

Ma il titolo non diceva che il Casalj era un grande bianco alla francese senza il quasi??

Intanto, per esercizio, comincio a buttar giù una lista delle caratteristiche di un vino "quasi italiano". Idee a tal proposito? Magari se qualche amico francese mi risponde.....


Belva 2010: c'è del buono tra San Gimignano e Scansano

Eravamo a Monte Compatri per partecipare a Degustando 2013, ospiti dell'amico Paolo Gherardi de Candei che, grazie alla sua professionalità, ci aveva riservato uno stand. EnoRoma, Enoclub Siena e Riserva Grande tutti assieme per promuovere il vino di qualità. Quella domenica di maggio erano presenti anche Gianpaolo Paglia e Mattia Barzaghi, due produttori a me cari che sono venuti dalla Toscana solo per un motivo: rendere onore a Simone Morosi, scomparso prematuramente poco tempo prima e che con tanti appassionati abbiamo voluto ricordare con un bel brindisi in piazza.


Giampaolo e Mattia
Questo post non vuole essere triste però, assolutamente, perchè oggi il mio intento è quello di scrivere due righe su un vino che proprio quel giorno Mattia e Gianpaolo hanno portato in degustazione. Il nome è tutto un programma: Belva 2010.
Il vino è nato da un'ispirazione di Simone che dopo aver lavorato a San Gimignano da Mattia è passato a Poggio Argentiera
L'idea, così come mi ha riferito lo stesso Paglia, era al tempo stesso semplice ed audace: mettere assieme due mondi apparentemente diversi come San Gimignano e la Maremma Toscana. L'obiettivo: capire se la rocciosa mineralità della Vernaccia si poteva sposare con la solare mediterraneità dell'Ansonica.
Gianpaolo e Mattia si sono messi subito a lavoro nelle rispettive cantine dove ognuno ha vinificato il proprio vino. Successivamente, Barzaghi ha portato le prime 10 damigiane di Vernaccia (distruggendosi anche una mano) a Banditella di Alberese dove il vino, una volta unito all'Ansonica, è andato in bottiglia senza filtrazione, chiarifica o altri accidenti per essere poi dimenticato in cantina per circa un anno e  mezzo.


Il risultato di questo lavoro/gioco tra amici è stato di assoluto livello. Il vino dopo tre anni ha raggiunto un bellissimo equilibrio con un naso che esprime in maniera chiara e netta la visione primitiva del progetto. L'energia e l'ardore della Maremma Toscana, infatti, si fondono perfettamente con il rigore minerale e la frutta turgida della Vernaccia di San Gimignano.
Il legame diventa intenso ed avvincente soprattutto alla gustativa dove, al momento, sembra prevalere la parte algida della vernaccia che caratterizza un sorso teso, fresco, roccioso, persistente. Qualcuno ha azzardato un paragone con uno Chablis francese....
Io, senza pretese, penso solo che il sogno un pò visionario di Simone, Gianpaolo e Mattia sia diventato realtà e, da appassionato, li ringrazio per questo regalo che forse nemmeno loro pensavano di farci così grande.
Ah, il costo del vino si aggira attorno alle 10 euro. Ottimo anche il rapporto q/p!

Quando bere è un lusso per pochi eletti

Ha iniziato Salvatore Calabrese, barman del “Salvatore at Playboy” di Londra. Il suo Salvatore’s Legacy, con un prezzo di 5.500 sterline a bicchiere, veniva giustamente considerato il cocktail più costoso al mondo tanto da entrare di prepotenza nel Guinness dei Primati. Il motivo? E' realizzato con quattro ingredienti: Cognac Clos de Griffier Vieux del 1778, liquore Kummel del 1770, Curacao Dubb Orange del 1860 e due gocce di angostura bitter del 1900.

Salvatore Calabrese, l'ideatore
Le bottiglie

C'era una volta il Salvatore's Legacy perchè in Australia Joel Heffernan ha deciso di strappare lo scettro del barman più cool del mondo. 
Infatti, all'interno del Club Crown Melburne 23, ha realizzato The Winston, un cocktail da ben 12.900 dollari composto da un rarissimo cognac Croizet del 1858, con l’aggiunta di un pizzico di Grand Marnier Quintessence, Chartreuse Vieillissement Exceptionnellement Prolonge e un sorso di buon Angostura Bitters.

Joel Heffernan e il suo The Winston

In questo contesto di bevute sfarzose per pochi eletti non poteva mancare sua maestà lo Champagne che balza all'onore delle cronache per la sinergia appena costituita tra la Maison Goût de Diamant e il designer Alexander Amosu al fine di realizzare per un facoltoso cliente una bottiglia speciale, unica, tanto che per acquistarla ci vogliono ben 1.2 milioni di sterline.....!!!!
Come si fa ad arrivare a queste cifre mostruose? si prende una placca di oro bianco massiccio da 18 carati (simile allo stemma di Superman) e la si piazza sulla bottiglia assieme ad un diamante da 19 carati
L'etichetta, anche essa in oro, è lavorata a mano e porta inciso il nome del cliente. Dentro, ma non sembra essere importante in questi lidi, c'è pinot nero, pinot meunier e chardonnay proveniente dal villaggio di Oger. Insomma, anche le uve sono Grand Cru.



La domanda che mi pongo è: quando dovremo aspettare perchè anche questo record sia battuto? Secondo me poco, molto poco....

Cantine Federiciane oggi in degustazione

Si terrà venerdì 28 giugno alle 20, la serata evento che apre le porte delle Cantine Federiciane, un percorso sensoriale che unisce le due anime delle cantine: la tradizione e l’innovazione.
Vino da osservare, da annusare, da assaporare, da toccare e ascoltare.
Un viaggio per solleticare i sensi che lega ogni prodotto delle cantine ad una diversa percezione sensoriale, un gioco divertente per proporre una nuova idea di degustazione, per rendere l’esperienza dell’assaggio di un vino ancora più coinvolgente.
Accanto al Piedirosso, al Lettere, al Gragnano ed alla Falanghina, storici prodotti delle cantine, ognuno dei quali sarà associato ad uno dei nostri sensi, i riflettori saranno puntati su Flaegreo, lo spumante di falanghina, simbolo del rinnovamento e della speranza per le Cantine Federiciane.
La famiglia Palumbo produce vino da ben quattro generazioni nel territorio dei Campi Flegrei. La loro storia affonda le radici nei primi del 900:  ha origine a Bacoli con Paolo che vinificava le uve tipiche del territorio, falanghina e per’’e palumm’ ed offriva ospitalità ai villeggianti di Napoli.
L’effetto di un marketing rudimentale, ma quanto mai efficace, il passaparola, ha richiamato sempre più acquirenti aprendo la strada a quella che oggi è diventata una vera e propria realtà imprenditoriale.




Oggi, infatti, le Cantine Federiciane continuano a produrre vino nel territorio dei Campi Flegrei ed i giovani fratelli Luca, Antonio e Marco hanno preso, con grande energia, le redini dell’azienda di famiglia. Luca ha appena 27 anni, si è laureato in enologia presso l’Università degli Studi di Milano con il professor Attilio Scienza. 
Lo spumante da falanghina Flaegreo segna la sua entrata in campo e le bollicine flegree sono quindi simbolo di rigenerazione e di temperamento giovane. 
Le uve utilizzate provengono dal vigneto ai Camaldoli, entro le mura della città di Napoli. Una vera e propria chicca considerando la forte urbanizzazione cittadina. Anche se, pochi sanno che Napoli è uno dei centri urbani italiani più vitati.

I vigneti sono posti ad un’altitudine che va dai 350 ai 500 metri, particolare che permette di mantenere una certa acidità delle uve e un buon corredo aromatico. 
Il suolo sciolto e vulcanico dà il timbro territoriale al vino, arricchendolo di sentori minerali e conferendo una buona agilità al sorso. 
Flaegreo fa quindi da ponte tra la storia millenaria legata alla viticoltura di questo territorio e l’innovazione delle tecniche moderne ben presenti in cantina. 

La filiera di produzione si compie interamente in azienda, dove le uve, appena arrivate dalla vendemmia, sono vinificate e poi spumantizzate con il metodo Charmat nelle proprie autoclavi. Se ne producono con grande successo 60.000 bottiglie. E’ uno spumante molto versatile, che offre grandi possibilità di abbinamento con il cibo. I profumi minerali e agrumati insieme al sorso sottile e fresco lo rendono particolarmente piacevole. 

Flaegreo sarà il protagonista della serata Welovewine, i cinque sensi, la grande festa prevista per venerdì 28 giugno.

Vino + cooperazione + buone pratiche = la ricetta per il successo?

Vi segnalo questo interessante workshop organizzato per sabato 29 giugno 2013 presso il Teatro Castagnoli di Scansano nell’ambito delle celebrazioni per i 40 anni della Cantina Vignaioli del Morellino di Scansano.

L’obiettivo di questo workshop sarà quello di sondare la ricetta del successo, raccogliendo testimonianze variegate e importanti, anche da fuori regione, su vino, cooperazione e buone pratiche, cercando di offrire spunti di riflessione utili in un’epoca di crisi. E se fosse infatti proprio la cooperazione, assieme alle buone pratiche e a un vino di qualità, vera ricetta vincente? Non a caso i due universi a confronto saranno quelli della Toscana, ovviamente, ma anche del Veneto, un’altra regione di fondamentale importanza nel panorama vitivinicolo e cooperativo italiano.

Nel corso della mattinata interverranno Flavio Tosi, sindaco di Verona, Matteo Renzi, sindaco di Firenze, l’antropologa dell’alimentazione Lucia Galasso, Luigi Turco, presidente di Cantina Valpantena, Gianni Bruno, brand manager di Vinitaly e per finire Sergio Bucci, direttore della Cantina Cooperativa dei Vignaioli del Morellino di Scansano.
Saranno presenti anche Leonardo Marras, presidente della Provincia di Grosseto, Gianni Lamioni, presidente CCIAA di Grosseto, Sabrina Cavezzini, Sindaco di Scansano. A chiudere la mattinata, le conclusioni verranno tirate dal presidente della cantina dei Vignaioli del Morellino di Scansano, Benedetto Grechi.

Hashtag ufficiale per seguire il live-tweeting dell’evento: #coopevino


Il Greco di Tufo di Cantine dell'Angelo: percezioni sulfuree allo stato puro

Pietre intarsiate di giallo e di bianco che affiorano dal terreno, ovunque le calpesti all'interno di questo vigneto che gira dietro la collina. Tutto attorno solo il silenzio squarciato a tratti dal rumore dei trattori agricoli.

A Tufo, da questo parti, l'aria sapida ti entra nei polmoni, il respiro sulfureo non esce dalla bocca del drago ma direttamente dalla terra che fa da tetto alle vecchie miniere di zolfo che Francesco Di Marzo scoprì nel lontano 1866 e che per molto tempo furono il fulcro dell'attività economica non solo locale ma di tutta la Campania visto che, in pieno regime, davano lavoro ad oltre 900 persone provenienti da tutta la Regione.




Angelo Muto, terza generazione di una famiglia vignaioli, è orgoglioso della sua Terra, del suo Territorio e dei suoi Vigneti di Greco di Tufo situati in zona Campanaro, cinque ettari le cui altitudini variano dai 350 metri ai 500 metri s.l.m.


Il vigneto sopra la miniera


Una parcella di Greco di Angelo Muto. Viticoltura eroica!
Dopo aver visitato i suoi vigneti, Angelo ci porta a scoprire un pò tutta la zona vinicola di Tufo che, a mia sorpresa, è composta quasi esclusivamente da piccolissime parcelle di vigneto, a volte suddivise tra più proprietari, il cui aspetto mi richiama, più che la Campania, i paesaggi della Mosella.
Passiamo di fianco al Vigneto Cicogna di Benito Ferrara, ai vari appezzamenti di proprietà Di Marzo (bellissima la loro storica cantina) fino a giungere al "mitico" Vigneto Cutizzi, quello dei Feudi di San Gregorio. Il loro vino non è più nelle mie corde ma la bellezza del paesaggio merita la foto!


Cutizzi
Dopo un giro per il centro di Tufo arriviamo nella casa/cantina/sala di degustazione di Angelo per una mini verticale del suo Greco magistralmente vinificato e maturato in acciaio grazie anche all'ausilio di Luigi Sarno, giovane enologo e produttore di Cantina del Barone. Prima, però, piccola visita nella cantina!


Angelo Muto in cantina
Greco di Tufo 2010: il terreno che entra dentro l'uva che restituisce tutto al vino. E' questo quello che ho pensato dove aver odorato il vino che sbuffa zolfo e gesso da ogni atomo. E' un vino duro, tosto, al cui corredo aromatico vanno aggiunte anche incalzanti note di idrocarburi e frutta tostata. Al sorso è come mordere e succhiare quei sassi visti all'inizio, ha un'acidità sferzante e tagliente che crea dinamicità e beva compulsiva. Se ti innamori di Tufo non puoi non apprezzare questo vino che nasce dalle sue viscere.



Greco di Tufo 2011: rispetto alla precedente annata c'è un maggiore bilanciamento tra la parte fruttata e la parte minerale. Col tempo, infatti, le durezze tipiche di questo Greco vengono smussate dal vigore del frutto che prende le sembianze dell'agrume, sopratutto cedro e pompelmo, e della mela quasi verde. Echi di erbe aromatiche e fiori bianchi. In bocca il vino è perfettamente bilanciato e dotato di suprema sapidità che ben si armonizza con una certa avvolgenza del Greco di questa annata.



Angelo produce mediamente 20.000 bottiglie. Non perdete occasioni di portare un piccolo pezzo del terroir Tufo a casa vostra!

Cantina Bambinuto e la scoperta di un grande Greco di Tufo: il Picoli!

Marilena Aufiero, "La Tosta", come l'hanno soprannominata da queste parti, ci aspetta dietro il bancone della sua saletta per degustazioni attigua alla cantina. Per certi versi tutto il suo mondo, vigneti esclusi, si trova racchiuso in pochi metri quadrati.

E' primo pomeriggio e, sebbene abbiamo fatto un piccolo spuntino a pranzo, la frittata con asparagi selvatici che ci aspetta è troppo invitante per non sbranarla in un attimo. 


Marilena, la figlia e...la frittata

Nel frattempo, Marilena ci racconta un pò di sè e degli inizi di Cantina Bambinuto datati 2006 dopo che le uve del territorio avevano subito un brusco calo di prezzo. Il valore agricolo e il lavoro famigliare dovevano essere difesi per cui, invece di vendere le uve a terzi, tutta la famiglia decise di mettersi in proprio per dar vita ad un progetto enologico coadiuvati dal bravo Antonio Pesce.

Prima di passare alla degustazione dei vari vini, Marilena ci porta nella piccola cantina, una spazio ristretto ma ben modulato dove trovano spazio vasche di acciaio e poche barrique.


Torniamo a sedere perchè ci aspetta il primo bianco, una Falanghina IGT Campania 2011 molto fresca e fruttata che scorre giù che è una meraviglia. Finale pulito, sapido, un ottimo aperitivo. Notare anche olive di fianco...


Questa zona, però, è famosa per il Greco di Tufo, l'antico vitigno indicato col nome di Aminea gemina dai Georgici latini ed importato dai Greci della Tessaglia nel 2000 a.C. circa.

Siamo nel territorio di Santa Paolina dove, a differenza di Tufo in cui prevale il calcare, i terreni sono costituiti in larga misura da puddinghe poligeniche, più o meno cementate, generalmente con alternanze di livelli sabbiosi o sabbioso–argillosi di età pliocenica.

Marilena produce due tipologie di Greco, un "base" e un Cru chiamato Picoli. 

Il primo, che ci viene declinato nell'annata 2011, si caratterizza per un corpo snello e dinamico e per un bel bouquet aromatico che spazia tra i fiori bianchi e la frutta, mela limoncella e pesca su tutti. Sorso nervoso, sapido, di ottima persistenza. Gran bel Greco di Tufo, accidenti.

Il Picoli, rispetto al precedente, proviene da uno specifico vigneto situato nell'omonima località e, come ci racconta la stessa Marilena, viene vendemmiato circa 10 giorni dopo il greco base e fa sosta per circa sei mesi sulle fecce. Ovviamente, essendo un vino "importante" ha colore e struttura più intensi del "base" e, visto che è spesso più  indietro del suo fratellino minore, esce sul mercato più tardi. Quando? Ovviamente quando "La Tosta" decide assieme all'enologo che è pronto!


Del Picoli abbiamo degustato un mini verticale iniziando dall'annata 2011 che caratterizza il vino con tutte le durezze che un greco minerale deve avere. Sorso sontuoso, teso, di grande progressione e sapidità. E' giustamente ancora molto indietro ma la materia prima c'è tutta. Da aspettare!

La 2010 si conferma grande annata per i bianchi qua in Irpinia ed il Picoli, ovviamente, non è esente dalla questione. Anzi! Rispetto alla 2011 questo millesimo si caratterizza per una maggiore profondità, sia olfattiva che gustativa. Al naso la ricchezza di frutto fa da contraltare alla mineralità mentre la ginestra e le erbe aromatiche creano una cornice aromatica di grande personalità. Al sorso è un vino assolutamente tridimensionale con un equilibrio tra morbidezze e durezze da far invidia. Non so se è nel momento di massima espressione ma, oggi, è una bevuta assolutamente di livello.

La sorpresa Marilena la riserva sul finale della degustazione quando apre una bottiglia del suo spumante metodo classico a base Greco.


Come è possibile notare dalla foto sopra, il vino è ancora in fase di affinamento e la nostra visita è stata la scusa per valutare tutti assieme lo stato evolutivo della spumante che, alla vista, si presenta in questo modo....


Di buone speranze la parte olfattiva mentre al sorso il vino è ancora molto indietro, ha un'acidità assolutamente tagliente e, per questo, ha ancora bisogno di molto...molto...riposo. Vero Lello?

Prima di andare, ci salutiamo con un piccolo bicchiere di Gre.Cò, splendida acquavite a base di greco e mele cotogne Marilena ha magistralmente abbinato ai cioccolatini fatti da lei stessa.  

Fonte: Pignataro Wine Blog


Come salutarsi in maniera migliore?


Ciro Picariello: Fiano di Avellino 2011

Se passi in Irpinia come fai a non andare a trovare Rita e Ciro Picariello? No, non si può, soprattutto se per questa famiglia hai una stima e una simpatia infinita.

La prima cosa che noti, arrivando a Summonte, è che Ciro ha messo i cartelli stradali per indicare la cantina. Gli investimenti, in tempo di crisi, crescono. Sorriso.

La seconda cosa che noti, arrivando in azienda, è che le vigne ubicate proprio davanti sono meravigliose anche se, così mi confida Ciro, leggermente in ritardo. Il cattivo tempo dei mesi scorsi sta lasciando i suoi strascichi nonostante il caldo improvviso che è arrivato.

Le vigne di Ciro
Non vogliamo rubare troppo tempo a Ciro e a sua moglie Rita, conosciamo bene la gestione dei loro vigneti e la loro cantina per cui, visto che è anche ora di pranzo, ci dirigiamo verso la piccola sala di degustazione per capire quanto sarà grande il loro Fiano di Avellino 2011.

Ciro mi dice simpaticamente di "andarci piano", che il vino è quasi finito e che lo stanno centellinando per andare incontro a tutte le richieste. 

"Beati voi! Vuol dire che se mi piace mi ruberò solo poche bottiglie...". 



Rita sorride mentre il  marito stappa con orgoglio la sua ultima creazione.

Annuso il vino e penso subito alla fondatezza circa tutti i responsi positivi che ho letto in giro su questo vino irpino.


Questo è un Fiano profondo, carnale, che sbuffa mineralità, energia, vivacità, corroborato da un contorno aromatico che prende la forma del biancospino, del mughetto e della pesca nettarina. Le "classiche" note fumè, almeno in questa annata e in questa fase evolutiva del vino, sono ancora piuttosto nascoste.
In bocca è fremente per la sua carica acido e per un epilogo fruttato e quasi salino. Persistenza da vendere.



Da questi parti, da questo angolo della provincia di Avellino, non si sbaglia un colpo e a me, come al solito, non resta che fare ulteriore spazio nella mia cantina per accogliere ancora qualche cassa di Fiano di Ciro Picariello. Sono i problemi della vita....

P.S.: ho bevuto anche il Brut Contadino 2011 e il ragazzo sta migliorando...eccome.....