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Cantina Giagnacovo - Orovignale 2019


di Roberto Giuliani

Ancora oggi dei vini del Molise non si sa quanto si dovrebbe sapere. 


L’Orovignale, moscato bianco della Cantina Giagnacovo di San Biase (CB), è un coup de coeur, profuma di arancia gialla, mandarino, salvia e pesca. Il sorso è delizioso, fresco, con note di miele e frutta candita, beva irresistibile.


Cantina Sant'Andrea - Moscato di Terracina Amabile "Templum" 2019


di Roberto Giuliani

Quasi 50 anni che viene prodotto, nella veste più tradizionale, amabile, questo moscato dal colore oro caldo regala note di frutta secca, uva passa, albicocca, sfumature di zenzero. 


B
occa generosa, intensa e sapida, con un buon apporto di freschezza, tanto che la nota dolce quasi non si percepisce.

www.cantinasantandrea.it


InvecchiatIGP: Cantine Ornina - Vallechiusa Toscana IGT Bianco 2018


di Stefano Tesi

Togliamoci subito il dente, anzi i denti, e facciamo tre confessioni.

La prima è che, prima di aprirla, su questa bottiglia avevo qualche perplessità: l’età considerevole e l’inquietante colore carico mi facevano temere marsalature epiche.

La seconda è che del vino, oltre all’annata che vedete, avevo anche la 2012 e la 2013: erano destinate a una verticale che, coi produttori, da luglio scorso ci eravamo reciprocamente promessi di fare insieme ma che poi, per le solite contingenze, è slittata sine die. E, siccome da un mesetto Marco e Greta Biagioli, così si chiamano i proprietari, sono alle prese con la nuova arrivata Flora (congrats!), ho pensato che per un altro un po’ di tempo avranno ben di meglio a cui pensare che a degustare con me.

Mi ero così risolto, terza confidenza, a procedere da solo. Ma stappata e assaggiata la 2011, ho deciso di mettere da parte le altre due per poterle davvero condividere con gli amici di Ornina o almeno con altri amici, nella speranza che fossero come questa.

La storia della cantina e del cammino che ha portato alla nascita dell’azienda è bella e divertente, eccentrica come (almeno in accezione vinicola) è del resto il Casentino, l’area il cui il tutto si trova. Biodinamici e steineriani, così come l’architettura e i principi a cui si ispirano, Marco e Greta puntano però al sodo, non si nascondono dietro il marketing dell’esoterismo e non puntano affatto sulla vera o presunta stranezza che spesso pubblico e critica attribuiscono a certe scelte ritenute a priori troppo radicali.

Basta fare un salto in loco - e io lo feci - per capire invece la linearità della loro visione e comprendere anche il rapporto simbiotico che i nostri hanno col luogo, che è pure dove vivono e ospitano. Cominciarono nel 2008 con la vigna del babbo, nel 2014 hanno costruito la nuova cantina: “Al momento produciamo 7 etichette, ma considerando che ogni anno ci dedichiamo almeno a una quota esperimento, la lista è sicuramente destinata a crescere”, ammettono in rete.


A maggio scorso avevo assaggiato il loro Vallechiusa Bianco, un IGT Toscana a base di Trebbiano, Malvasia e una punta di Moscato, e mi era piaciuto. Macerazione non troppo lunga, mi avevano spiegato, fermentazione spontanea in acciaio e maturazione di 15 mesi in cemento.

“Chissà come si evolve nel tempo”, chiesi.

Da qui l’idea della verticale delle annate più vecchie superstiti: 2011, 2012, 2013.

Ed eccola la 2011, bottiglia impietosamente (o a sommo studio?) bianca. Tappo integro. L’etichetta rivela che, accanto a Trebbiano e Malvasia, dentro all’epoca c’era anche un po’ di Sauvignon Blanc.

Del colore abbiamo detto. Mi aspettavo una botta di trebbianone evoluto e invece, sorpresa, il ventaglio si apre tra fiori di campo appassiti, fieno, sassi bagnati e roccia spezzata, ondate di resina, mirto, macchia marina e una lunga scia quasi salmastra, elegante, che non satura e torna a folate.
La gradevolezza continua in bocca, con una sapidità agile che smorza l’alcool (13,5°) e fa dispiegare con lentezza il lungo retrogusto delicatamente amarognolo. Disorientato dal divario tra le aspettative e l’assaggio, ho ritenuto opportuni riassaggiare e riassaggiare, così se n’è andata mezza bottiglia.


Del resto lo diceva anche la pulzella Amanda Sandrelli a non distaccatissimo messere Massimo Troisi in una scena cult di “Non di resta che piangere”, no? Bisogna provare, provare, provare, provare…

Alessandro Motta - Vino Bianco Lazzardo


di Carlo Macchi

Un Moscato secco passato in legno? Un azzardo! E invece è stata una grande sorpresa! Naso “da moscato” ma con aromi più eleganti e senza alcun ricordo del legno, bocca fresca, sapidissima e niente finale amaro. 


Lazzardo di Alessandro Motta, anche ottimo produttore di Barbera d’Asti, è riuscito pienamente.

Degustiamo i vini in lattina della Zai Urban Winery. Sarà questo il futuro?


di Stefano Tesi

Tanto per chiarire, vengo dalla generazione che più di trent'anni fa assaggiò i cosiddetti wine cooler, una specie di bevanda alcoolica fatta tagliando il vino col succo di frutta, roba alla quale pure il coevo 8 e 1/2 Giacobazzi (sponsor prima e poi sponsorizzato nientepopodimento che da Gilles Villeneuve) faceva vento.


Figuriamoci quindi se mi fa impressione la notizia dell'uscita sul mercato di un nuovo vino in lattina, lanciato settimane fa dalla veronese Zai (l'acronimo sta per Zona Altamente Innovativa ed è identico alla Zona Agricola Industriale che ospita il Vinitaly, "in cui l’azienda ha avuto origine", ammettono i fondatori), che tanto fa arricciare il naso al conformismo enoico nazionale. Quindi nessun pregiudizio, solo curiosità.


Infatti mi sono fatto mandare i campioni e, lo dico subito, l'assaggio del prodotto non è affatto catastrofico come era facile pronosticare. 
Anzi diciamo pure che, al confronto, questi vini molto facili ma corretti, perfino piacevoli se consumati col giusto approccio, che non provano a spacciarsi per quello che non sono, escono bene - chi più, chi meno - dal confronto con prodotti imbottigliati di pari categoria e prezzo: "Il prezzo a scaffale sarà di circa 3,50/4,50 euro a lattina. Il prodotto è in fase di lancio e sono in corso trattative con vari mercati stranieri in primis, ma anche in Italia con gruppi della GDO e altre realtà del mondo Horeca che hanno mostrato interesse" mi risponde, a domanda, il loro ufficio stampa.


Perchè non è solo l'aspetto organolettico ciò che conta in questi casi, ma quello sociale e commerciale. 
Andando per ordine, i canned wines sono sei e sono modulari, nel senso che fanno parte di un progetto di marketing unico e coordinato, all'interno del quale nessun prodotto può fare a meno degli altri. Diciamo insomma che si tratta di un paniere di lattine che fanno capo a un'unica storia, disegno, grafica e filosofia.


Zai, che si autodefinisce "urban winery", punta dichiaratamente ai mercati nel Nord America o almeno ad essi si ispira e si ammanta di un'aura green. "Le nostre referenze sono frutto di un lungo studio enologico. Per esempio Gamea, uno dei vini top di gamma è il frutto di ben quattro vendemmie, anziché una, condotte tutte a mano”. 


A riprova che la leva principale dell'operazione commerciale si basa sullo storytelling c'è il fatto che ognuno dei sei vini corrisponde a un personaggio di fantasia, cronologicamente collocato "nel 2150, anno che vede l’estinzione del 99% delle specie animali e vegetali, uva compresa, a causa del cambiamento climatico. Anche nel packaging le lattine rimandano ai personaggi, protagonisti di un viaggio per risolvere il mistero dell’antica profezia sul vino e salvare il mondo. Una storia che sarà in continua evoluzione, che non mancherà di colpi di scena, al pari di un vero e proprio fumetto".


C'è da sorridere?

Sì, ovviamente, se si vuole parlare con disincanto. Ma anche no. Può anche darsi infatti che il business possa funzionare e di per sè non ha nulla di scorretto.

Ecco i vini (nb: tutti vegani e bio, tranne il PJ White, e tutti confezionati in lattine di alluminio da 25 cc), con relativa "storia" e mie note si assaggio:

Dr. Corvinus, 100% Corvina Verona IGT, gradazione alcolica 11% Vol.: è l’ultimo erede di una dinastia di sommelier, vive con il suo assistente Cork Borg nel castello di famiglia cercando un modo per produrre il vino senza usare le uve, ormai estinte, ma con esiti poco soddisfacenti. Naso discreto, piacevole in bocca, da tutto pasto. Se bevuto alla giusta temperatura è piacevole.


Gamea, 100% Garganega Verona IGT, gradazione alcolica 9.5% Vol.: è una donna avventurosa e indipendente, che ama la natura e ha una laurea in scienze biologiche. Dedica la sua vita alla salvaguardia del Pianeta. E' un vino con qualche pretesa, piuttosto ruffiano soprattutto al naso. In assaggio bendato coi pari grado non sfigura.


Mr. Bubble, 100% Glera Veneto IGT, è un vino frizzante con gradazione alcolica 9.5% Vol.:
è un viveur che, usando il suo razzo a forma di lattina, ha battuto ogni record di velocità, tanto da guadagnarsi il nickname di “pilota del millennio”. Mi sembra decisamente il più debole dei sei vini.


Lady Blendy, Merlot e Cabernet Veneto IGT, gradazione alcolica 10.5% Vol.: è una gatta dalla doppia anima. Specializzata in meccanica e riparazioni, si prende cura degli altri e ama dormire. La notte si trasforma in uno spietato cacciatore di taglie. Organoletticamente è corretto ma eccessivamente commerciale, un vino per tutti i palati.


PJ White, 100% Pinot Grigio Terre Siciliane IGT, gradazione alcolica 10% Vol.: è l’anarchico del gruppo, il ribelle piantagrane. Pigro per natura, è convinto che tutti ce l’abbiano con lui. Passa le sue giornate ascoltando musica, suonando la chitarra e giocando ai videogame. E' nel bene e nel male esattamente quello che ti aspetti.


Cork Borg, 100% Moscato Veneto IGT, vino frizzante con gradazione alcolica 7% Vol.: è un robot a forma di cavatappi, costruito da un antenato di Dr. Corvinus. Il suo mestiere è assistere i più famosi sommelier della terra. La sua evidente mancanza di pretese lo rende coerente al tipo, un divertissement.


Conclusioni: fuori dallo snobismo, è un'operazione commercialmente interessante e, probabilmente, anche indice di un trend abbastanza netto. Non nel senso della novità in sè, ma il fatto che ci si investa con modo così deciso significa che il mercato potrebbe essere maturo. Sul piano puramente qualitativo, si tratta di prodotti ben fatti e dignitosi, spesso non peggiori di quelli di pari prezzo in bottiglia. Del resto, è chiaro che chi compra vini del genere lo fa con la leggerezza di chi non cerca bevute impegnative, ma anzi, col vino, acquista ciò che esso ha intorno: praticità, evasione, intrattenimento. La cosa più divertente? 

Prima la ricerca e poi l'assaggio comparativo alla cieca con vini comprati in GDO. Non si finisce mai di imparare.

Cascina Castlet - Piemonte Moscato Passito Avié 2015


di Roberto Giuliani

Da una storica azienda di Costigliole d’Asti, un Moscato Passito che racconta tutto fuori e dentro, l’etichetta con l’impronta femminile dorata, il nome che significa “veglia”, i profumi di albicocca candita, nocciola, banana sciroppata ed erbe aromatiche.


Al gusto vivo, non stucchevole, appassionante.

Feudi Dei Sanseverino - Moscato di Saracena 2006


di Luciano Pignataro

Un sorso antico di Calabria, non quella calda dello Jonio, ma la fresca e fredda del Pollino. Da Saracena, dove il passito si fa con un antico metodo per lungo tempo anche presidio Slow. 


Il 2006 appare fresco, 
giovane, complesso e infinitamente piacevole.

Joy Kull è La Villana di Gradoli!

di Andrea Petrini

Ci sono storie che partono da lontano, molto lontano, dove l’amore per il vino può diventare la scintilla decisiva per cambiare l’andamento di una realtà che non era così come la progettavamo o, meglio, la sognavamo.

Joy Kull

Joy Kull, originaria del Connecticut, a due passi dalla frenetica New York, può essere tranquillamente la protagonista di una di queste storie dove la trama ha imboccato strade talmente vorticose ed inaspettate da farle cambiare vita in pochissimo tempo “scaraventandola” dai grattaceli di Manhattan fino alle più bucoliche colline di Gradoli, nella zona nord-ovest del Lago di Bolsena, dove oltre a vecchie vigne di aleatico ha trovato un altro amore, forse più grande, quello per suo marito Simone, pastore locale, con il quale da qualche anno ha anche messo su famiglia. 


E’ proprio tra i vigneti della sua azienda agricola, La Villana, che incontro Joy Kull la quale, dopo anni di gavetta, è diventata in tutto e per tutto uno dei tasselli fondamentali della “nuovelle vague” del vino dell’Alta Tuscia laziale che ha preso il via circa 15 anni fa grazie a Giammarco Antonuzi che è stato un punto di riferimento fondamentale per avviare la sua attività.


“Dopo la laurea – mi spiega Joy mentre passeggiamo tra i grappoli di aleatico - ho subito iniziato a lavorare negli USA nel Food and Beverage Management svolgendo quasi tutti i lavori dedicati al vino, dal sommelier fino alla vendita on-line, ma nessuno di questi mi dava piena soddisfazione. Allora, quasi per sfida, mi sono detta: “Joy, perché non inizi a produrre vino?”. L’idea iniziale, ti confesso, era quella di venire in Italia, imparare il mestiere e poi ritornare negli USA, magari in Oregon, e avviare là la mia azienda agricola. Grazie ad un mio amico ristoratore di New York, amante dei vini naturali, sono stata messa in contatto con Antonuzi (Le Coste) al quale ho chiesto di fare un anno intensivo di stage al fine di imparare tutto il possibile. Era il 2013, me lo ricordo bene, sono bastate due settimane a Gradoli, che non conoscevo assolutamente, per innamorarmi visceralmente di questo territorio e dei suoi vini. Sono bastate due settimane di lavoro per capire che questo era il mio sogno e che non sarei più tornata negli Stati Uniti…”


Dopo un anno passato a lavorare presso Le Coste, Joy ha deciso di fare il passo successivo ovvero mettersi in proprio e capire se poteva concretizzare tutto ciò che aveva imparato. Per perseguire questo obiettivo, per capire se la strada intrapresa era quella gusta, inizia a prendere in affitto e gestire tre ettari di vecchi vigneti non più gestiti dagli anziani della zona e nel 2015, all’interno di una grotta, quasi clandestinamente, produce le sue prime 3000 bottiglie che, mi confida, verranno quasi tutte bevute l’anno dopo durante i festeggiamenti per il suo matrimonio.

Oggi, dopo quattro vendemmie, Joy Kull alleva secondo metodi biologici (certificata dal 2017) e biodinamici vigne, sia vecchie che di nuovo impianto, di aleatico, grechetto rosso, montepulciano, ciliegiolo, procanico, roscetto, malvasia e moscato e gli ettari vitati, grazie anche al contributo economico di una sua amica americana, sono passati da circa tre a cinque col progetto di costruire finalmente una nuova cantina più funzionale alle esigenze di una azienda agricola in fase di crescita come La Villana.


Joy, a proposito, perché questo nome, La Villana?”

Beh, quando sono arrivata a Gradoli molti anziani della zona mi raccontavano storie agricole locali al centro delle quali, spesso, c’erano i litigi e le contrapposizioni tra il villano, ovvero l’agricoltore, e il pastore che con le sue pecore rovinava i suoi raccolti. Da queste parti, perciò, sono considerata una vera e propria villana anche se molto atipica visto che ho sposato un pastore le cui pecore, strano il destino, sono invece mie care amiche visto che mi aiutano moltissimo nella concimazione delle mie vigne. Secondo me questi racconti contadini dovrebbero essere rivisti…...”


Con Joy decidiamo di scendere giù a Gradoli per degustare qualche bottiglia e per farmi visitare l’attuale cantina di vinificazione, circa 60 metri quadri, ospitata all’interno di un locale posto al piano terra di un vecchio palazzo nel centro del Paese.


Il Bianco La Villana 2019, blend di procanico e malvasia, è un po’ il simbolo dell’artigianalità del lavoro di Joy che dà vita ad un bianco deciso, essenziale, spiazzante per chi è abituato ai vini troppo tecnici ed industriali. Con questo Bianco si beve puro succo d’uva, sembra di masticare le uve da cui proviene e la territorialità è assolutamente debordante grazie alla sapidità finale di questo vino che ti fa ricordare che Gradoli è territorio vulcanico.


Il Rosato La Villana 2019, 100% aleatico, è succoso, dinamico, la sua leggera aromaticità lo rende poliedrico nei profumi e assolutamente complesso al palato caratterizzato da acidità vibrante che dona freschezza, carattere e, soprattutto, una beva irresistibile.


Il Rosso La Villana 2019, greghetto (sangiovese) in purezza, è pieno, polposo, nitidamente varietale. L’ho apprezzato per il suo essere vivo, tagliente, per certi versi rustico, ma al tempo stesso appagante grazie ad un sorso scorrevole grazie ad una trama tannica viva ma decisamente controllata. Vino assolutamente delizioso e senza sovrastrutture che rende bene l’idea del timbro che Joy vuole dare a tutti i suoi vini che, dietro un’apparenza di semplicità, sono di una purezza e di una territorialità disarmante.


In anteprima ho anche degustato sia il Bianco che il Rosso “Uovo” che Joy affina in cemento all’interno di un'altra cantina. Il bianco è il blend di due uova di cemento dove il procanico, proveniente sia da vigne giovani che vecchie, ha tempi diversi di macerazione (una settimana e quattro giorni). Il risultato? Un vino che ad oggi è assolutamente graffiante, denso, dalla sapidità esplosiva la cui complessità non potrà che essere esaltata col tempo in bottiglia.


Il Rosso Uovo 2019 invece sembra già avere quella maturità e quella eleganza che il bianco ancora deve ricercare. A mio giudizio già oggi è un vino di assoluta piacevolezza e finezza e, tra i tanti greghetto assaggiati in zona, per me è quello che, ad oggi, potenzialmente avrà il futuro più radioso.

Il Vinco: l'Alta Tuscia, con il Mistione, ha il suo vino rock!


Non c’è assolutamente dubbio che, assieme al basso frusinate, l’Alta Tuscia viterbese (delimitata a sud dalla provincia di Roma, ad est dall'Umbria, a ovest dal Mar Tirreno ed a nord dalla Toscana) sia l’area vitivinicola più dinamica, e per certi versi anche più anarchica, del Lazio.
Da qualche anno, infatti, tanti giovani vignaioli stanno cercando di dar vita a vini, spesso “naturali”, attraverso i quali si punta decisamente a rompere con un passato e, purtroppo, con un presente costellato da DOC, la più importante delle quali è l’Est!Est!!Est!!! di Montefiascone, che poco hanno valorizzato, tranne eccezioni, la viticoltura di un territorio la cui caratteristiche, se adeguatamente sfruttate, potrebbero senza problemi portare ad una alta qualità diffusa di tutto il comparto vitivinicolo locale.

L'Alta Tuscia

Il centro nevralgico di questa “nouvelle vague” del vino della Tuscia è caratterizzato da un luogo ben preciso: il lago di Bolsena. Questo specchio d’acqua, con i suoi 114 Kmq di superficie, rappresenta il più grande lago vulcanico d'Europa (tecnicamente è considerato una caldera) e la viticoltura in questa zona, storicamente, si è sviluppata attorno alle colline dei comuni più importanti: Montefiascone, Marta, Capodimonte, Gradoli, San Lorenzo Nuovo e Bolsena.

Il Lago di Bolsena

L’areale, come facile pensare, è costituito da terreni di origine vulcanica e ricchi di potassio anche se è possibile avere al loro interno delle importanti differenziazioni: nell’area nord-ovest l’attività intercalderica ha prodotto prettamente terreni ricchi di lave e scorie saldate, la sabbia è praticamente assente mentre la troviamo in abbondanza nella zona sud-orientale accanto, ovviamente, ad abbondanti formazioni di tufo. Le vigne, in queste zone, godono soventemente di una esposizione sud, sud-ovest e possono avere altezze variabili che possono arrivare anche ad oltre 600 metri s.l.m. da dove, ve lo posso garantire, si aprono scorci panoramici sul lago di Bolsena e le sue due isole (Bisentina e Martana) che lasciano senza fiato.
I principali vitigni a bacca bianca che possiamo trovare camminando tra questi filari sono procanico, grechetto, malvasia, moscato, verdello mentre a bacca rossa troviamo canaiolo, aleatico, ciliegiolo, roscetto e greghetto rosso (clone locale di sangiovese).

Gianmarco Antonuzi - credito: tutto wines

Come scritto in precedenza, l’Alta Tuscia Viterbese oggi è una vera e propria fucina di giovani produttori che stanno più o meno sperimentando nuove vie del vino riprendendo e sviluppando, è opportuno sottolinearlo, il grande lavoro fatto da Gianmarco Antonuzi (Le Coste) che nel lontano 2004, prima di tutti, aveva compreso la grandezza di un territorio vitivinicolo soprattutto se vigna e cantina venivano in qualche modo “slegati” da protocolli convenzionali poco rispettosi della Natura. Questo movimento “naturale ed indipendente” iniziato da Antonuzi, nel corso del tempo, ha avuto altri punti fermi come, ad esempio, Andrea Occhipinti arrivando oggi a contare almeno sei o sette cantine di riferimento tra cui Il Vinco

Daniele, Nicola e Marco: Il Vinco

Questa azienda agricola, situata nella parte sud del Lago di Bolsena (Montefiascone), è un progetto fortemente voluto e realizzato da tre amici Daniele ManoniNicola Brenciaglia e Marco Fucini che attorno al 2014, dopo una serata ad alto contenuto di alcol, decisero di diventare anche soci intraprendendo questa nuova via di vita assieme.
Attenzione – mi blocca Nicola mentre giriamo per le vigne – eravamo alticci, euforici, ma non pazzi perché alla fine, tutti e tre, oltre ad essere grandi appassionati di vino, proveniamo da ambiti agricoli che conosciamo bene. Infatti, io e Daniele siamo anche produttori di olio mentre Marco alleva vacche da carne. In zona, poi, ogni famiglia tradizionalmente ha un pezzetto di vigna con la quale fa il vino di casa, per cui qualche rudimento enologico già lo sapevamo. Ci siamo detti, perciò, visto che avevamo un minimo di esperienza, un po’ di terra e anche i mezzi meccanici, perché non iniziare?”


E così Daniele, Nicola e Marco hanno cominciato a rimboccarsi le maniche prendendo in affitto piccole parcelle di vigneto dagli anziani del posto che lasciavano. Le vigne in produzione, gestite dal 2017 secondo i principi della biodinamica, sono coltivate solo con uve locali (canaiolo nero, rossetto, procanico, malvasia bianca lunga) e sono site a Capodimonte (la parcella più grande di circa 1.2 ettari), Montefiascone, da dove si produce il bianco, mentre una vigna più piccola, di canaiolo nero a piede franco, si trova a Marta. In totale circa tre ettari a cui si devono aggiungere altri tre ettari e mezzo di nuovi impianti (tutti attorno la cantina) dove troviamo anche piante di verdello (clone locale di verdicchio).


Mentre scrivo mi trovo all’interno della nuova cantina de Il Vinco, a due passi da Montefiascone, dove i ragazzi stanno vinificando in autonomia, non senza difficoltà, dopo essere stati ospitati da Andrea Occhipinti per i primi due anni di produzione. All’interno della nuova cantina, che in futuro si avvarrà anche di una sala degustazione con vista sui vigneti, troviamo sia vasche di cemento, usate per la fermentazione a scalare dei vini, sia tini in vetroresina (i loro preferiti) ed acciaio inox che sono invece usati per l’affinamento dei vari vini della gamma. Per ora non viene usato legno anche se per la prossima annata, la 2020, è in programma di acquistare una botte grande per affinare il greghetto rosso.


Dopo vari assaggi da vasca, tutti sorprendenti per identità e territorialità, chiedo di degustare il loro rosato, il così detto Mistione, che tanto sta spopolando, soprattutto in queste giornate estive, tra gli amanti dei vini naturali. Il vino non altro che un blend, ovvero un mischione\mistione (da qua il nome), di uve sia a bacca bianca che rossa come canaiolo nero, procanico, rossetto, malvasia bianca lunga che dopo una breve macerazione di due giorni vengono fermentante spontaneamente in cemento per poi affinare, una volta creata la cuvée, in acciaio e vetroresina per circa sei mesi a cui seguono altri tre mesi di bottiglia. 


Degustandolo, capisco perché questo rosato sta facendo tanto parlare di sé: è assolutamente originale, parte leggermente abboccato ma poi la forte componente sapida del vino, tipica della zona vulcanica dove sono piantate le viti, tende subito a controbilanciare la beva che, come un perfetto equilibrista, scorre lenta ma inesorabile su quel filo sottile che si chiama emozione gustativa e voglia di riempire un altro calice. Amici, siamo ovviamente di fronte ad un vino pop, sicuramente non è il miglior rosato bevuto nella mia vita ma, vivaddio, siamo nel bicchiere finalmente ho qualcosa di assolutamente inedito ed innovativo per l’Alta Tuscia abituata forse un po’ troppo abituata a vini tecnici e troppo uguali a se stessi.


Ultima curiosità: Il Vinco deriva il suo nome dal salice da vimini (Salix viminalis) con il quale un tempo si formavano delle corde per legare i le viti o le piante dell’orto. Il Vinco, perciò, sta ad indicare il forte legame con la terra di origine del progetto ma suggella anche il forte rapporto di amicizia tra Daniele, Nicola e Marco.

Tra Piemonte e Liguria: il Moro a Capriata d’Orba è il regno del piacere gastronomico

di Carlo Macchi

Sarà un caso, ma tutte le volte che arrivo a Capriata d’Orba mi accoglie un silenzio che, per dirla con Paolo Conte “Descrivervi non saprei”. In questo silenzio si cela la tranquillità di un paese del Piemonte ligure, cioè di quella terra di confine che ingloba una bella fetta delle tradizioni gastronomiche di entrambe le regioni. Siamo nel Monferrato e dal centro di Capriata d’Orba con gli occhi da una parte tocchi le colline del Gavi e dall’altra i vigneti dell’Ovadese.


Ma i miei occhi, quando arrivo nella silente piazza centrale di Capriata, sono tutti per l’insegna e l’ingresso di un ristorante che conosco bene e che frequento con gioia da tanti anni, il Moro.


In un paese così tranquillo un nome come “Il Moro” potrebbe riportare a guerre e invasioni, ma come entri nel locale e ti accoglie la tranquillità e la sobrietà fatta persona, cioè Claudio, l’unica invasione a cui puoi pensare e quella dei profumi che già ti solleticano le narici.
In cucina c’è Simona, moglie di Claudio, mano sicura e esperta che non sbaglia un colpo (e se ve lo dico io, che ci ho mangiato decine di volte, credeteci!) e che riesce sempre a sorprenderti con piatti che poggiano i piedi nella tradizione per spiccare poi il volo verso la semplicità e la concretezza di grandi sapori. Come scordarsi le semplicissime ma monumentali acciughe fritte che, quando è stagione, Claudia “mi obbliga” ad ordinare e potrei andare avanti con altri piatti e sapori ma prima voglio farvi sedere comodamente, nelle linde e accoglienti sale e salette (d’estate c’è anche un grande spazio esterno) dove ti senti come un bambino nella pancia della mamma. Apparecchiatura perfetta ma non ricercata e piglio distinto degli altri ragazzi in sala vi faranno scordare anche la mamma, ma non la pancia che avrà già iniziato a borbottare.

Agnolotti - Foto: http://ristoranti.travelitalia.com

E per far fermare il borbottio niente di meglio che una piemontesissima carne cruda di fassona battuta al coltello o uno sformato di peperoni con salsa di acciughe sotto sale, che punta più verso i lidi liguri, mentre di estremamente locale c’è la testa in cassetta di Gavi.
Naturalmente vi sto parlando del menù autunno-inverno, perché Claudio e Simona lo variano spesso, anche se alcuni piatti (per fortuna!!) ci sono sempre, come gli agnolotti nei tre modi della tradizione, cioè “a culo nudo” “nel vino e “al tocco”. Questi non ve li potete perdere perché mettono assieme leggerezza, sostanza e storia.
Naturalmente in questa stagione autunnale non mancano i funghi per un gustoso risotto e i tartufi bianchi. L’ultima volta sono stato al Moro a fine settembre e vicino a me, sotto la cupola di vetro, c’era un tartufo bianco che (nonostante non fosse ancora stagione piena) aveva un profumo che faceva resuscitare i morti. Ma ci sono altri modi con cui Simona e Claudio vi faranno resuscitare, tipo lo Stoccafisso in insalata con patate e olive taggiasche o la Lingua bollita con bagnetto verde. Naturalmente c’è sempre qualche fuori carta: l’ultimo era una trippa con i fagioli da applauso a scena aperta.
Se vi resta ancora spazio vi consiglio di provare la loro scelta di formaggi e magari un Bunet con zabaione al moscato.

Formaggi - Foto: Marcel Egger

Sui vini brilla il Piemonte con tante etichette locali molto interessanti (Gavi e Monferrato in primis) ma naturalmente la carta spazia sull’Astigiano e sulla Langa, puntando anche a mirate etichette fuori regione, tutte con ricarichi assolutamente onesti.
Un pranzo luculliano dall’antipasto al dolce vi costerà meno di 50 euro (vini esclusi) e soprattutto vi farà gustare piatti che non scorderete facilmente. Se ve li scordaste niente paura, Simona e Claudio sono sempre lì, nel centro del silenzio di Capriata d’Orba, pronti a accogliervi.

Claudio e Simona - Foto: Tripadvisor

Candidaterra - Pandataria 2016

Vino e mare, un binomio assolutamente intrigante soprattutto se i ricordi dell'estate, non troppo rarefatti dall'imminente stagione autunnale, ancora mi regalano i colori e i sapori di uno dei luoghi più belli del nostro Mediterraneo: l'isola di Ventotene.
Situata al largo della costa al confine tra Lazio e Campania. L'isola ha origini vulcaniche, e fa geograficamente parte dell'arcipelago pontinomentre geologicamente è parte delle isole flegree, insieme a Ischia, Procida e Vivara.


Ventotene - Credit: Corriere.it

Conosciuta sin dai tempi preistorici come tappa commerciale obbligata nelle rotte del Mediterraneo, denominata dai Greci "Pandataria o Pandateria" (dispensatrice di ogni cosa) per la sua floridezza, Ventotene nel corso dei secoli è diventata non solo isola di pescatori ma, strano a dirsi, soprattutto culla di abilissimi agricoltori che hanno cercato sostentamento sfruttando intelligentemente anche la loro terra diventando eccezionali produttori di legumi ed ortaggi. 



L'isola, nonostante l'antica dominazione dei Romani che usavano Ventotene come porto per commercializzare il Garum, non ha mai avuto una grande vocazione per la coltivazione della vite soprattutto, almeno penso, per via del clima non particolarmente facile visto che il vento (da cui deriva il nome Ventotene) da queste parti la fa da padrone rendendo più facile e meno onerosa la coltivazione dei lenticchie e fave che già a partire dagli anni '50 venivano esportate in grande quantità anche negli Stati Uniti. 


Luigi Sportiello

Fortunatamente, la mancata luna di miele tra vino e isola di Ventotene ha subito un brusco stop grazie a Luigi Sportiello, un ragazzo di 25 anni di Ventotene, che assieme al bravo enologo Vincenzo Mercurio hanno dato vita ad un progetto vitivinicolo, nato nel 2012, chiamato Candidaterra (il nome è un omaggio a Santa Candida, patrona di Ventotene) che vede in località "Colle Ulivi, al centro dell'isola, l'impianto di circa un ettaro e mezzo di varietà di greco, moscato di Terracina, falanghina e fiano piantate su aspri terreni di origine piroclastica.



Il primo vino prodotto, un vero e proprio esperimento che ha preso la forma di poco più di 1000 bottiglie, è stato etichettato nel 2016 col nome di Pandataria ed è un blend di fiano, falanghina e greco che si fa apprezzare per la vivacità della sua carica di melone e pesca gialla matura e per una succosità gustativa dove l'ampia carica fruttata viene smussata da veementi nervature sapide che riportano al terroir di appartenenza.
Purtroppo il vino è di difficile reperibilità ma, da quello che ho capito, già la prossima annata  dovrebbe essere in vendita in quantità decisamente più consistenti, circa ottomila bottiglie pronte ad invadere le nostre e le vostre cantine.

Antonino Caravaglio - Chianu Cruci Salina IGP 2018

di Luciano Pignataro

Capperi o malvasia? Questo è il dilemma che si vive a Salina dove entrambi danno molta soddisfazione a chi li produce.Antonino Caravaglio, quest’anno benemerito per la viticultura al Vinitaly, ha risolto piantando capperi e viti negli ultimi vent’anni passando da cinque a tredici vitati per la precisione.

Antonino Caravaglio

Questo vino nasce a Piano Croce, un piccolo territorio pianeggiante chiamato Valdichiesa che unisce i due vulcani dell’isola, sempre carezzato dal vento, una caratteristica che rende più facile la gestione biologica dell’agricoltura e non a caso Antonino Caravaglio ha subito imboccato questa strada. Anno dopo anno ha comprato i terreni, si è ingrandito e conduce la sua giornata da una parte all’altra dell’Isola di Salina dopo aver acquistato anche a Lipari e adesso a Stromboli con l’ex direttore del TG1 Andrea Montanari dove riporta la vite dopo alcuni decenni di assenza.

vigneti a Valdichiesa

Per il cappero ha una idea tutta sua: meglio una dop Eolie che una solo Salina e sul piano della comunicazione è impossibile dargli torto vista la dimensione così piccola dell’Arcipelago.Dalla sua caverna delle meraviglie, parliamo della cantina dello stellato Signum, Luca Caruso decide di iniziare a farci bere il territorio partendo proprio da questo bianco, ottenuto da malvasia delle Lipari all’80 per cento con un saldo di vitigni autoctoni tra cui prevale il Catarratto.


La tecnica è quella di una macerazione prolungata sulle bucce per poi tenerlo in sosta in vasca d’acciaio fino al momento dell’imbottigliamento. Malvasia e Moscato vinificati in secco da sempre sono la mia passione e questo bicchiere mi colpisce non solo per i profumi esuberanti tipici del vitigno, ma soprattutto per la sostanza, il corpo, la complessità. Presentato come vino da aperitivo, secondo me ha molto da raccontare nei prossimi due tre anni, quando avrà raggiunto la maturità necessaria e al naso si comincerà a sentire il tipico effetto dei suoli vulcanici che arricchiscono il vino con il passare del tempo.
Al palato è amaro, fresco, ampio. Un esempio concreto di cosa voglia dire biodiversità quando stappiamo una bottiglia di vino. Non è importante che sia la più buona del mondo quanto, piuttosto, che sia una chiave d’ingresso nel territorio che viviamo e ci faccia conoscere le bellezze le persone che ci vivono.