Intervista a Giulio Somma per i primi 90 anni del Corriere Vinicolo


di Luciano Pignataro

Il Corriere Vinicolo compie 90 anni e proprio oggi questo importante traguardio viene festeggiato. Abbiamo pensato di intervistare il direttore Giulio Somma per affrontare a tutto tondo un po’ di rgomenti, in particolare il cambiamento in atto nel mondo del vino e il ruolo, se c’è ancora, del cartaceo.


Novant'anni sono molto più di un secolo, forse anche più di due. Mai il mondo è cambiato a questa velocità. Com'era il mondo del vino italiano 90 anni fa?

Profondamente diverso nella struttura economica e imprenditoriale; con un livello qualitativo medio del prodotto ben lontano da quello di oggi, seppur con diverse importanti eccellenze produttive, con numeri di export notevolmente ridotti ed un consumo pro-capite interno triplo rispetto all’attuale. Si potrebbe scrivere un libro per rispondere a questa domanda. Comunque un contesto tutto diverso dall’attuale dove il valore della filiera era nelle mani del commercio che aveva il compito, e la responsabilità, di far conoscere e portare il vino sui mercati interno e internazionale. E questo è uno degli aspetti più interessanti raccontati nel volume storico realizzato per i 90 anni del nostro giornale: i commercianti hanno avuto un ruolo molto importante nel costruire l’immagine del vino italiano nel mondo aiutando il settore a crescere e svilupparsi.

Come affrontò il Corriere la grave crisi del metanolo?

Direi con grande coraggio e onestà intellettuale. Ampio spazio viene dedicato alla denuncia dell’Unione Italiana Vini che si costituisce parte civile contro le aziende coinvolte nello scandalo. Viene pubblicato tutto l’elenco delle imprese incriminate (anche se non tutte verranno alla fine condannate) per mettere in evidenza come all’origine di quei fatti molto gravi, ci fosse, in realtà, uno sparuto gruppi di aziende ai margini del settore. Il giornale non si è mai sottratto al coraggio della verità facendosi strumento politico del settore nella battaglia verso la qualità, le leggi a tutela dell’origine e la nascita del moderno sistema dei controlli. Insomma, il Corriere Vinicolo è stato in prima linea nel lungo lavoro che sta dietro il “rinascimento” del vino italiano. Un brano di storia che ripercorriamo nel nostro volume.

Oggi il mondo del vino italiano è la punta di diamante della nostra agricoltura, praticamente tanti prodotti stanno ripercorrendo la stessa strada: investimento sulla qualità assoluta, packaging e marketing, occhio al futuro. Cosa c'è ancora da fare secondo te?

I fronti su cui si sta la lavorando sono molti e tutti importanti. Volendo, però, identificare tre obiettivi macro potremmo parlare di sostenibilità, caratterizzazione e promozione del “sistema paese”. In vigna, la sostenibilità è ormai una priorità che va oltre gli indirizzi e le scelte produttive; in cantina, una caratterizzazione dei vini legata ai territori – che sia  riconoscibile nel bicchiere - è indispensabile per valorizzare le identità dei vini italiani e vincere la sfida competitiva di un mercato diventato globale mentre, sul fronte promozione, le istituzioni pubbliche devono lavorare di più - e meglio - per far conoscere il sistema “vino italiano”. I numeri dell’export, al di là di oscillazioni positive di breve periodo, rallentano: dobbiamo pensare e progettare a medio-lungo termine per garantire un futuro al vino italiano. Ma non sempre si ragione in questa prospettiva.

Parliamo adesso un po' da comunicatori: il cartaceo ha ancora un senso?  E quale?

Continua ad avere un ruolo fondamentale. Se vuoi studiare, approfondire, analizzare, la carta rimane il supporto più utile al lettore. Noi lo vediamo quotidianamente: abbiamo anche la versione digitale del Corriere ma nessuno è disposto a rinunciare al cartaceo. Forse è perché, come settimanale, non inseguiamo l’attualità, che lasciamo ai colleghi dell’on-line, ma proponiamo analisi e approfondimenti che si  leggono meglio sulla vecchia, e da me molto amata, carta. Non è banale dire che i due supporti, oggi, convivono bene quando si rimandano lettori l’un con l’altro. Ed è quello che cerchiamo di fare, mi sembra, con un buon successo.

Come si pone il Corriere rispetto ai social e alle nuove forme di comunicazione?

In generale con grande apertura e interesse anche se la comunicazione politica ed economica del nostro settore ancora non viaggia molto sul digitale. Utile e prezioso per la comunicazione di prodotto, per l’informazione al consumatore – come fai molto bene con il tuo blog - il digitale deve ancora trovare uno spazio specifico nell’informazione istituzionale sul vino. Stiamo lavorando ad un progetto che ci porterà a breve sui principali canali social, ma come supporto e integrazione del settimanale cartaceo, la cui formula giornalistica, a distanza di 90 anni, rimane ancora efficace.

Secondo te il mondo del vino italiano è autoreferente rispetto a quello  che succede nel mondo?

Sempre meno, anche se vanno fatte valutazioni differenziate a seconda dei soggetti di cui si parla. Le aziende, ormai, che vivono di export, hanno occhi e sensibilità globali avendo superato quel certo provincialismo che per molti decenni si sono portate dietro. Il sistema fieristico, Vinitaly in testa, sta velocemente recuperando un gap di internazionalizzazione che abbiamo più volte segnalato negli anni scorsi. Anche se una maggior apertura al dialogo con le imprese non guasterebbe. Le istituzioni pubbliche e la politica, invece, sono ancora drammaticamente indietro. Al di là delle contingenze di posizioni politiche dell’oggi, ad ascoltare i politici o gli amministratori locali sembra proprio che anche Bruxelles – dove ormai si decide la politica del vino - sia in un altro mondo. Per non parlare dei grandi mercati, dagli USA al far-east: realtà sconosciute, lontane, indecifrabili nonostante rappresentino oltre il 50% del nostro fatturato.

Anche le fiere stanno cambiando. Quest'anno Bordeaux,a detta di molti,  ha segnato un po' il passo. Come valuti l'azione di Vinitaly e cosa vedi  in Italia da questo punto di vista?

Le fiere del vino, nonostante la rivoluzione digitale, continuano a svolgere un ruolo importante forse perché questo prodotto, alla fine, per conoscerlo veramente va assaggiato. Ma la capacità di promozione internazionale delle nostre imprese è ormai molto sviluppata e non c’è più bisogno di aspettare lo stand per farsi conoscere sui mercati. E Vinitaly ha colto questo trend evolvendosi da fiera a sistema di promozione globale del vino italiano. Ma anche gli altri competitor fieristici stranieri lo stanno facendo. Per questo, ribadisco, è importante e urgente che Vinitaly si apra di più al dialogo con le imprese del vino. Non avrebbe che da guadagnarne anche nei confronti delle istituzioni. Noi, e Veronafiere lo sa, ci siamo.

Giulio Somma, una vita dedicata al vino con ruolo diversi ma sempre prestigiosi e interpretati con professionalità. Come è cambiato questo mondo da quando hai iniziato ad occupartene? Era più facile prima o adesso? E quali sono le cose che davvero non sopporti di questo mondo?

Il mio battesimo nel vino avviene negli anni del metanolo. Stagione molto difficile. Nella comunicazione del vino eravamo pochissimi; giornali e tv erano insensibili all’argomento, considerato volgare. Oggi il mondo sembra essersi ribaltato ma, come ben dice Aldo Grasso nella sua videointervista realizzata per i 90 anni del Corriere, la situazione del vino in televisione è peggiorata rispetto al secolo scorso. La distanza da Soldati o Veronelli sembra incolmabile. Oggi è forse più facile portare un vino in televisione o sui giornali: ma il racconto si è fatto banale, superficiale, ripetitivo. Ed è questo che non sopporto: l’approssimazione e la superficialità dei media, il dilettantismo di chi si avventura a fare il “comunicatore” del vino senza preparazione, facilitato, a volte, anche da un certo provincialismo dei produttori. Il mondo del vino, e tu lo sai bene, è un mondo serio, articolato, fatto di lavoro ed economia. Ma raramente la comunicazione rende giustizia di questa complessità.

Quali obiettivi hai come direttore del Corriere nei prossimi anni, diciamo almeno sino ai festeggiamenti del primo secolo di vita?

Reinterpretare la mission originaria del giornale, essere “voce della classe”, che oggi significa travalicare gli steccati degli interessi di settore, pensare il vino italiano nel più ampio contesto economico, sociale e culturale del paese, e non solo, con una politica dell’informazione fedele nel racconto, arguta, pungente verso le istituzioni e le rappresentanze politiche, efficace nel fornire strumenti culturali e professionali all’imprenditore e al management dell’impresa. Un giornale di servizio, in forte sviluppo, dove arriveranno nuovi dorsi, rubriche di approfondimento e spazi giornalistici orientati a far crescere i contenuti sui temi della ricerca e della qualità produttiva, del management, dello sviluppo d’impresa e del lavoro. Sempre più piattaforma di contenuti verso una multicanalità dove carta e digital diventano complementari per una informazione che sa proporsi come strumento culturale di crescita del settore.

Candidaterra - Pandataria 2016

Vino e mare, un binomio assolutamente intrigante soprattutto se i ricordi dell'estate, non troppo rarefatti dall'imminente stagione autunnale, ancora mi regalano i colori e i sapori di uno dei luoghi più belli del nostro Mediterraneo: l'isola di Ventotene.
Situata al largo della costa al confine tra Lazio e Campania. L'isola ha origini vulcaniche, e fa geograficamente parte dell'arcipelago pontinomentre geologicamente è parte delle isole flegree, insieme a Ischia, Procida e Vivara.


Ventotene - Credit: Corriere.it

Conosciuta sin dai tempi preistorici come tappa commerciale obbligata nelle rotte del Mediterraneo, denominata dai Greci "Pandataria o Pandateria" (dispensatrice di ogni cosa) per la sua floridezza, Ventotene nel corso dei secoli è diventata non solo isola di pescatori ma, strano a dirsi, soprattutto culla di abilissimi agricoltori che hanno cercato sostentamento sfruttando intelligentemente anche la loro terra diventando eccezionali produttori di legumi ed ortaggi. 



L'isola, nonostante l'antica dominazione dei Romani che usavano Ventotene come porto per commercializzare il Garum, non ha mai avuto una grande vocazione per la coltivazione della vite soprattutto, almeno penso, per via del clima non particolarmente facile visto che il vento (da cui deriva il nome Ventotene) da queste parti la fa da padrone rendendo più facile e meno onerosa la coltivazione dei lenticchie e fave che già a partire dagli anni '50 venivano esportate in grande quantità anche negli Stati Uniti. 


Luigi Sportiello

Fortunatamente, la mancata luna di miele tra vino e isola di Ventotene ha subito un brusco stop grazie a Luigi Sportiello, un ragazzo di 25 anni di Ventotene, che assieme al bravo enologo Vincenzo Mercurio hanno dato vita ad un progetto vitivinicolo, nato nel 2012, chiamato Candidaterra (il nome è un omaggio a Santa Candida, patrona di Ventotene) che vede in località "Colle Ulivi, al centro dell'isola, l'impianto di circa un ettaro e mezzo di varietà di greco, moscato di Terracina, falanghina e fiano piantate su aspri terreni di origine piroclastica.



Il primo vino prodotto, un vero e proprio esperimento che ha preso la forma di poco più di 1000 bottiglie, è stato etichettato nel 2016 col nome di Pandataria ed è un blend di fiano, falanghina e greco che si fa apprezzare per la vivacità della sua carica di melone e pesca gialla matura e per una succosità gustativa dove l'ampia carica fruttata viene smussata da veementi nervature sapide che riportano al terroir di appartenenza.
Purtroppo il vino è di difficile reperibilità ma, da quello che ho capito, già la prossima annata  dovrebbe essere in vendita in quantità decisamente più consistenti, circa ottomila bottiglie pronte ad invadere le nostre e le vostre cantine.

Decugnano dei Barbi - Dosaggio Zero 2014

di Carlo Macchi

Non è un Orvieto, ma un metodo classico  50% chardonnay e 50% pinot nero prodotto da più di 25 anni. 


Il 2014 mi ha fatto innamorare  al naso, opulento e con “una catena” di pasticcerie, per poi conquistarmi definitivamente  con un palato grasso, rotondo e una bollicina setosa e cremosa. BBBono!!!

A Bardolino c'è un ristorante da provare: il Gardino delle Esperidi!


“Permessen, permessen!” In certi momenti per le stradine di Bardolino ti viene voglia di parlare tedesco maccheronico perché, specie d’estate, la concentrazione  di pance e  polpaccioni  teutonici (per sorvolar su masnade di bambini vocianti) è veramente impressionante. I locali naturalmente si adeguano e da questo si può capire come sia praticamente impossibile mangiare bene nel centro di questa bellissimo borgo affacciato sul Lago di Garda.


Ma per fortuna c’è la Susi, al secolo Susanna Tezzoni, che nel suo Il Giardino delle Esperidi non solo ti fa mangiar bene, ma ti fa sentire a casa.
Diciamo che dal parcheggio più vicino alla via centrale, dove si trova Il Giardino delle Esperidi,  ci vogliono 7-8 minuti e almeno una ventina di “permessen”. Il ristorante è in una vietta strapiena di locali, naturalmente tutti con tavoli all’aperto: anche da Susi ci sono tavoli all’aperto, ma vi consiglio di stare all’interno, anche d’estate.
Basta passare oltre la porta e il mondo cambia: da una vociante e accaldata (o infreddolita se venite d’inverno) Bardolino si entra in un mondo non ovattato ma equilibrato, piacevole alla vista, con i giusti profumi di cucina, contornati da arredi accoglienti ed eleganti ma soprattutto con tante belle bottiglie di vino che fanno capolino da ogni parte. Concedetevi un attimo per far spaziare lo sguardo sul tovagliato di qualità, sulle apparecchiature irreprensibili, sui tavoli, tavolini, tavolinetti che modulano lo spazio (non grandissimo) e creano un atmosfera particolare.

Susanna Tezzoni

Al centro di questa atmosfera c’è naturalmente lei, la Susi, una signora elegante con lo spirito di una ventenne  e  la verve di una ragazzina. Sarà lei a farvi accomodare e subito vi sentirete a vostro agio.
Di solito dei vini si parla alla fine ma qui non si può far finta  “dell’elettricità enoica” che circola per la sala e che la Susanna  emana presentando la carta dei vini e dando anche una serie di rituali consigli fuori carta. Infatti se l’amore  per la gastronomia è parte fondante della sua vita, quella per il vino è qualcosa che va oltre, è una passione che si ciba continuamente di curiosità, di voglia di conoscere, assaggiare, capire. E la Susi di vino ci capisce, alla grande!
Non aspettatevi una carta dei vini da tristellato, ma una serie di scelte mai scontate, curiose, in qualche caso imprevedibili ma sempre puntate sulla piacevolezza e la possibilità di abbinamento.


E adesso veniamo alla cucina: io la definisco una  “grande cucina di casa, curiosa ed  evoluta” mantenendo sempre una sana base di concretezza. Nel menù inoltre, per fortuna, non troverete trecento piatti e soprattutto non incontrerete le  “cose per turisti” .
Naturalmente il menù cambia ogni stagione  (e non solo) e quindi quelli che vedete nelle foto sono piatti “primavera-estate” che magari adesso saranno già stati sostituiti, almeno in parte, da proposte più fresche: certo che la carne di toro marinata in olio extra vergine di oliva con mostarda, oltre a sembrare una tavolozza, è un piatto perfetto per l’estate. Come lo è il filetto di pesce d’acqua dolce con zucca, spinacine, zenzero e vongole.


Sono partito dai secondi, ma qui dalla Susi il mondo può anche andare alla rovescia, tanto il risultato è sempre di alto livello: lo stesso dei tortelli di patate viola con persico e salsa al tartufo e degli gnocchi di ortiche con guanciale di mangalica, datterino giallo e finocchietto. Arriviamo quindi agli antipasti dove secondo me è imperdibile la Tartare di pesce d’acqua dolce e sarde in crosta di pane, pomodori secchi, olive polvere di pesto.


A forza di andare indietro rischio di scordarmi il dolce, ma sarà perché dalla Susi io chiudo sempre con il formaggio e un mio carissimo amico, Angelo Peretti, come dessert quando è in carta prende il coniglio in umido, i dolci ve li farò scoprire da soli.
Vi annuncio invece che alla fine spenderete tra i 50 e i 60 euro vini esclusi: una cifra veramente equilibrata considerando una cosa che mi ero scordato di dirvi, cioè la certosina ricerca della Susi per delle grandi materie prime.
Uscirete felici e sazi, pronti per una passeggiata, speriamo senza “permessen”, sul lungolago. Parola di lupetto.

Il Giardino delle Esperidi
Via Mameli, 1, Bardolino
Telefono: 045 621 0477
Orari: aperto la sera, a pranzo solo sabato e domenica.

Langhe Riesling Hérzu 2017 Ettore Germano


Il Riesling in Italia difficilmente esprime quelle caratteristiche che lo hanno reso famoso, ma quello di Sergio Germano vanta una bella personalità, gli idrocarburi ci sono, ma c’è anche una bella vena agrumata, poi camomilla e fiori di campo. 


Bocca sinergica, sapida, rinfrescante, bella energia.


Il Pacchero Solitario ad Aprilia è una piacevole scoperta!


di Roberto Giuliani

Il confine fra osteria e ristorante è diventato, con il tempo, sempre più labile, deve essere la ragione per cui Slow Food ha inserito Il Pacchero Solitario nella guida Osterie d’Italia 2017; in effetti oggi, la differenza che ancora si può notare fra le due tipologie è principalmente nell’arredamento (nelle osterie è più rustico, semplice), poi nella disponibilità di vini, nel modo di presentare i piatti e nella differenza di prezzo (tendenzialmente l’osteria costa un po’ meno).


Ovviamente non dobbiamo considerare il locale più famoso d’Italia, ovvero “Osteria Francescana” del tristellato Massimo Bottura, che dell’osteria porta solo il nome ma rappresenta il vertice assoluto della ristorazione.
Certamente Claudio Scaringella, con la moglie Lorena, non ha avuto dubbi nel chiamare “ristorante” il suo Pacchero Solitario, e ha ragione, perché il locale è curato, con un tocco di modernità, arricchito da eccellenti quadri d’autore che nulla hanno a che vedere con quelli che si trovano in molte osterie, con una carta dei vini più che soddisfacente e un menu di pesce davvero interessante, il tutto a un prezzo assolutamente onesto (se ordinate dall’antipasto al dolce, non arrivate a 50 euro, vini esclusi ovviamente).
A proposito di vini, la scelta è piuttosto ampia, con una buona presenza di etichette laziali, io ho scelto il Latour a Civitella 2014 di Sergio Mottura, annata che è stata fin troppo sottovalutata e che spesso cerco nei ristoranti, finora non sono rimasto deluso, il Latour poi è una sicurezza.


Certo, per andare proprio ad Aprilia devi avere una ragione, non è un rinomato posto di villeggiatura, non è un paese ma una signora città con ben oltre 70mila abitanti, quota superiore ad alcune province laziali come Rieti, Frosinone e Viterbo, ha dalla sua di essere a meno di mezz’ora dal lido di Anzio e altrettanto dai Castelli Romani, a meno di un’ora da Roma.
Ma tutto questo è relativo, perché se siete abituati a muovervi con la macchina, a viaggiare da nord a sud e viceversa, passare per Aprilia non è certo un problema, trovo giusto però raccontare qualcosa di questa cittadina: fu fondata nel 1936 nell’area sud dell’Agro Romano, dopo opportuna bonifica, poiché come nel vicino Agro Pontino, la zona era paludosa e soggetta alla malaria.
Era dunque il periodo del Fascismo e Aprilia nacque dopo Littoria (l’attuale Latina), Sabaudia e Pontinia, dopo aver espropriato i terreni alla famiglia Caffarelli, che ne era proprietaria da quasi cinque secoli.
All’inizio era composta da soli quattro grandi fabbricati, su progetto del quartetto chiamato 2PST, ovvero le iniziali degli autori: Concezio Petrucci, Emanuele Filiberto Paolini, Riccardo Silenzi e Mario Tufaroli.
Durante la seconda guerra mondiale, con lo sbarco degli alleati nel gennaio del 1944 alla vicina Anzio, le forze armate tedesche decisero di bombardare Aprilia, che venne praticamente rasa al suolo, costringendo tutta la popolazione a spostarsi in ambiti più sicuri.
A fine guerra, la gente tornò e, faticosamente, operò una ricostruzione; negli anni a venire la città cambiò progressivamente volto: dapprima l’agricoltura fu determinante, dai pascoli ai vigneti, poi arrivò l’industria, fu istituita la Cassa del Mezzogiorno, si insediarono importanti aziende come la Simmenthal, insomma divenne poco alla volta uno dei più importanti poli industriali del Lazio. Non mancano monumenti e, soprattutto, chiese che meritino una visita, come quella di San Michele Arcangelo, patrono della città.
Ma torniamo a Claudio e al suo lodevole ristorante situato in Via Giuseppe Verdi 29, facile da raggiungere, non ho avuto neanche problemi per il parcheggio. Prenotato un tavolo per quattro, abbiamo avuto modo di apprezzare subito la qualità della cucina con l’entrée, un trittico di assaggi composto da Gambero rosso marinato, Merluzzo al vapore e pantesca, Cuscus con crudité di gamberi; dei tre ho preferito il merluzzo, molto equilibrato e con un ottimo accostamento di verdure.

Antipasto

Poco dopo è arrivato l’antipasto, otto piccole ma gustose portate, dall’Involtino di pesce spada a beccafico alle Cozze gratinate con pecorino, dalla Mazzancolla fritta dorata alla Polpettina fritta con ricciola, patate e peperoni, per seguire con l’Alice fritta con cipolla rossa e lo Scampo fritto in pastella su crema di ceci, fino all’Involtino di pasta fillo, triglia e scarola. Tutto buono, forse avrei variato di più le cotture, un po’ meno fritture avrebbero dato maggiore freschezza, profumi e dinamicità alle preparazioni.
Davvero gustosi i Paccheri con ricciola e melanzane “arraganate”, un piatto giusto sia nella dose che nell’equilibrio dei sapori.

I paccheri con ricciola e melanzane "arraganate"

Non ha sfigurato il Rombo alla mugnaia con carciofi croccanti, una scelta azzeccata, alla tenerezza del pesce il carciofo forniva un piacevole contrasto “fisico” e i due sapori si fondevano a meraviglia.

Rombo alla mugnaia

I Filetti di orata selvaggia al vapore, con zucca confit e mandorle è uno dei piatti che ho preferito, un accostamento davvero riuscito che ha contribuito ad arricchire il gusto delicato dell’orata senza sovrastarla.

Filetti di orata selvaggia

Finita la serie di piatti a base di pesce, io e i miei tre compagni di banchetto non ci siamo fatti sfuggire i dolci; la mia predilezione per il cioccolato fondente mi ha spinto a optare per un pregevole Millefoglie di lingue di gatto, crema inglese alla vaniglia del Madagascar e cioccolato "Samana'" della Repubblica Dominicana, pericolosamente buono.

Millefoglie!

Va detto che il rischio con i dolci è che proprio la dolcezza possa essere eccessiva e toccare livelli di stucchevolezza, così non è stato, tantomeno con il Millefoglie alla crema inglese alla vaniglia del Madagascar, Fragola Favetta di Terracina e fiori eduli, che grazie alla presenza di fragole non arricchite da zucchero permetteva di apprezzarne meglio la qualità.

Cheesecake alla ciliegie

Infine abbiamo provato anche l’ottimo cheesecake alle ciliegie nel loro sciroppo, una preparazione riuscita anche nella presentazione.
Alla fine avremmo potuto chiudere con qualche gradevole liquore, ma il senso di responsabilità ci ha imposto di evitare di appesantirci dovendo guidare l’auto. Una bottiglia di vino da 75 cl. divisa in quattro ci ha permesso di godere senza problemi e alzarci dalla tavola in condizioni perfette.
Ah! Dimenticavo di sottolineare che Il Pacchero Solitario dispone di una piccola dispensa di prodotti alimentari interessanti che si possono acquistare, dall’olio al vino, dalla pasta ai formaggi.

Il Pacchero Solitario
Via Giuseppe Verdi, 29 Aprilia (LT)
Tel. 06 92062042

Isolabella della Croce – “Bricco del Falco” Pinot Nero Piemonte DOC 2014


A Loazzolo, nell’Alta Langa Astigiana, terra della più piccola DOC italiana, esiste un visionario ovvero quel Luigi Isolabella della Croce che ha capito perfettamente che il “suo terroir” gli permetteva di dar vita ad un pinot nero di eccellenza. 


Questo Bricco del Falco 2014 ne è la riprova: fresco, leggiadro, floreale, di beva compulsiva. What else?

La giovane Irpinia di Villa Raiano

“Terra fertile l’Irpinia, terra di acqua e di vino, figlia del Lupo, orgogliosa delle proprie tradizioni e della sua storia. Orgogliosa come noi che in questa terra, nella nostra terra, abbiamo deciso di portare avanti l’attività di famiglia”.

Così si presentano Brunella e Federico Basso, la nuova generazione che prenderà col tempo le redini dell’azienda fondata nel 1996 dai fratelli Sabino e Simone Basso e dal loro cognato Paolo Sibillo.
A questi due ragazzi, che assieme avranno poco più della mia età, l’onere e l’onore di portare avanti l’importante rinnovamento dell’azienda che dal 2009, con la costruzione della nuova cantina sita a Raiano di Serino (AV) e la contestuale acquisizione di vigneti di proprietà (all’inizio quasi tutte le uve provenivano da conferitori locali), sta cercando sempre più di ritagliarsi uno spazio importante nel panorama del vino italiano.

Fortunato Sebastiano, Brunella e Federico Basso

L’azienda gestisce oggi circa 27 ettari di vigneti dove troviamo piante di fiano (circa 11 ha), greco (7 ha) e aglianico (9 ha) che in questo caso non è frazionato in tante parcelle ma, al contrario, è presente in un unico corpo all’interno del Comune di Castelfranci.


Coadiuvati Fortunato Sebastiano (consulente agronomico ed enologico) e da Raffaele Del Franco (marketing) abbiamo ripercorso la storia recente di Villa Raiano attraverso una doppia verticale del Fiano di Avellino “Alimata” e del Fiano di Avellino “Ventidue” che, grazie alle differenze tra i due terroir, sono estremamente rappresentativi del territorio irpino che Brunella e Federico vogliono sempre più valorizzare.


Alimata è il nome della contrada del comune di Montefredane in provincia di Avellino che si incontra salendo verso il paese sul versante della collina che guarda ad Est. Qui, a 350 metri s.l.m., si trova la vigna di due ettari, datata 1995, piantata su suolo argilloso estremamente tenace. La vinificazione è semplice ma sviluppata su tempi lunghi: avviene in tini di acciaio dove affina sulle fecce fini per 12 mesi a cui seguono ulteriori 12 mesi di affinamento in bottiglia.
Per la verticale sono state degustate le seguenti annate: 2013, 2014, 2015 e 2016.

Villa Raiano – Fiano di Avellino DOCG “Alimata” 2013: l’annata, i più esperti lo sanno bene, in Irpinia ha regalato vini di grandissima qualità grazie ad un settembre/ottobre dove il caldo ha risolto una prima parte di stagione con qualche pioggia di troppo. Dal punto di vista organolettico anche i neofiti del vino, mettendo il naso nel bicchiere, potranno accorgersi che davanti a loro c’è un Fiano di Avellino pazzesco per intensità e complessità di aromi che spaziano dall’idrocarburo all’agrume fino ad arrivare alla nocciola quasi tostata. Un ventaglio di sensazioni che ritrovo anche al sorso assolutamente didattico per larghezza, lunghezza e coerenza.


Villa Raiano – Fiano di Avellino DOCG “Alimata” 2014: annata piovosa, decisa in cantina a livello di cernita delle uve che sono state vendemmiate attraverso raccolte scalari. Rispetto al precedente vino il naso in questo caso è decisamente più “scarico”, senza troppi orpelli, ma non manca comunque di una certa eleganza che prende più le forme nordiche che campane. Sorso decisamente agrumato, salino, verticale, godurioso per chi come me ama la sostanza alla forma.

Villa Raiano – Fiano di Avellino DOCG “Alimata” 2015: annata non facile, caratterizzata prima da grandinate e poi da un caldo decisamente sopra la norma. Fiano di Avellino decisamente materico, giocato più sulla frutta e sul vegetale che sulle “classiche” note tostate rappresentative del terroir di Montefredane. Alla beva è generoso ma al tempo stesso decisamente equilibrato e pronto per la beva.

Villa Raiano – Fiano di Avellino DOCG “Alimata” 2016: annata decisamente bizzarra caratterizzata da gelate (fine aprile) e da tempo instabile fino ad autunno inoltrato che hanno delineato una raccolta eterogenea e leggermente tardiva. Il vino è ancora giovanissimo, scalpitante, ricco di spunti aromatici dove la frutta gialla sembra soggiogata da un tappeto di erbe aromatiche, dove ritrovo la salvia, il finocchietto selvatico, a cui seguono sbuffi di camomilla romana. Al sorso è vivacissimo, fresco, accogliente e decisamente dissetante in quanto causa beva compulsiva.


Il Fiano di Avellino “Ventidue” prende il nome dal numero dei chilometri per giungere dalla cantina aziendale fino al comune di Lapio, altra zona vocatissima per la produzione di Fiano che, grazie al particolare terroir, è sempre dotato di grande struttura rispetto a quelli prodotti in altre zone irpine. La vigna di Lapio, di un ettaro e datata 1990, è posta a 450 metri s.l.m. su terreni argillo-calcarei ricchi di arenarie gialle. Giunte in cantina, le uve vengono delicatamente lavorate con una breve macerazione sulle bucce per poi affinare prima 12 mesi sulle fecce fini in tini di acciaio a cui seguono, come per il Fiano di Avellino precedente, 12 mesi si affinamento in bottiglia.

Per la verticale sono state degustate le seguenti annate: 2013, 2014, 2015 e 2016.

Villa Raiano – Fiano di Avellino DOCG “Ventidue” 2013: in questa grande annata il territorio di Lapio si sviluppa ai massimi livelli al naso dove l’impatto della frutta gialla matura e succosa il cui abbraccio caloroso è appena stemperato da tocchi di bergamotto e spezie gialle. Al sorso si conferma un vino avvolgente, poderoso ma, al tempo stesso, ricco di equilibrio e precisione e con un finale lungo e sapido, quasi ammandorlato.

Villa Raiano – Fiano di Avellino DOCG “Ventidue” 2014: pensi all’annata, pensi a quanto percepito con l’”Alimata” ed invece ti trovi spiazzato perché ancora una volta Lapio ha preso il sopravvento regalando un vino decisamente complesso e ricco di sfumature aromatiche. Non c’è nulla di nordico in questo “Ventidue”, tutto riporta alla sua terra di origine e la bottiglia, se non state attenti, finisce in un amen grazie ad un equilibrio di precisione millimetrica.


Villa Raiano – Fiano di Avellino DOCG “Ventidue” 2015: probabilmente è la bottiglia che mi ha convinto di meno delle due batterie ma non per l’impatto olfattivo, molto equilibrato e complesso e giocato su sensazioni di frutta e fiori gialli, ma per una fase gustativa abbastanza segnata da un calore sovrabbondante e da una persistenza non ai massimi livelli. Peccato perché avevo letto recensioni decisamente migliori della mia. Problemi di bottiglia?

Villa Raiano – Fiano di Avellino DOCG “Ventidue” 2016: concludiamo alla grande la degustazione con questo vino che, seppur ancora in fasce, regala presente già radioso dove la mela golden, la pera matura, le erbe aromatiche e le spezie gialle sono già tutte disposte in parata per regalarci briosità ed avvolgenza. Al sorso è sapido, vibrante e decisamente materico. E’ un Fiano di Avellino buono oggi ma sicuramente ancor più splendido tra qualche anno. Da lasciare in cantina e riaprire nel 2022 dura.

Giovanna Tantini - Bardolino Doc 2013


di Lorenzo Colombo

C’è ancora chi sostiene che il Bardolino sia un vino da bersi unicamente giovane. 


Da tempo siamo convinti che questo sia un luogo comune, basta infatti approcciarsi ad un vino come quello prodotto da Giovanna Tantini che, dopo sei anni dalla vendemmia s’esprime con una succosità, un equilibrio, un’eleganza, ed una piacevolezza di beva, da far invidia a vini assai più blasonati.


Tenuta di Capezzana - Ghiaie della Furba e i suoi primi quaranta anni

di Lorenzo Colombo

Il 2019 segna il 40° compleanno del Ghiaie della Furba. Il vino infatti, uno dei primi Supertuscans, fu creato nel 1979 da Ugo Contini Bonaccossi, utilizzando in parti uguali, le uve tipiche del bordolese: Cabernet sauvignon, Cabernet franc e Merlot.
Il nome che gli fu dato deriva dal fatto che il vigneto si trovava nei pressi del torrente Furba, che scendendo dal Montalbano ha originato nel corso degli anni un suolo estremamente ciottoloso e sassoso.

Da qui Ghiaie della Furba.

Per festeggiarne il compleanno, durante lo scorso Vinitaly, l’azienda Tenuta di Capezzana ha previsto, su invito, una degustazione personalizzata (face to face) di sei annate del vino, dall’ultima in commercio, ovvero la 2015, risalendo fin quasi agli albori con l’annata 1981.
Noi abbiamo avuto la fortuna di potervi partecipare, ecco quindi le nostre impressioni sui vini, assaggiati dall’annata più recente sino alla più vetusta.
Per comodità nostra, nel redigere il pezzo anche da un punto di vista dell’evoluzione stilistica dei vini, abbiamo preferito elencarli partendo da più vecchio.
Prima però eccovi alcune informazioni relative all’azienda: un documento, ritrovato nell’archivio di Stato di Firenze e datato 804 dC, attesta che sin da quella data erano presenti, a Capezzana, vigneti ed oliveti, coi quali si produceva vino ed olio.

Tenuta di Capezzana - foto: MTV Toscana

Nel 1475 si trova citato per la prima volta il nome Bonaccossi, allorché Monna Nera Bonaccossi “costruiva la prima “casa da Signori” e nove case poderali con i relativi impianti viticoli”.
Nella storia della Tenuta ci sono molti passaggi di proprietà, sinché non fu acquistata, nel 1920, dal Conte Alessandro Contini Bonaccorsi.
Attualmente s’estende su una superficie di 670 ettari, di cui 104 a vigneto e 140 a oliveto.
I vitigni francesi, in particolar modo il Cabernet sauvignon, si trovano nel territorio di Carmignano da oltre cinque secoli, parrebbe infatti che ad introdurli in Toscana sia stata Caterina De’ Medici. Questo fa si che la zona di Carmignano possa essere considerata la zona d’origine di quelli che negli anni ’70 del secolo scorso furono denominati Supertuscans.

Ma eccoci ora ai vini degustati: un filo conduttore che abbiamo comunque trovato nel percorso di quarant’anni, seppur segnato da notevoli cambiamenti nella composizione del vino è data dalla nota un poco austera che si ritrova sia in quelli più giovani e che permane nei più vecchi, l’importante trama tannica, caratteristica che permette la longevità dei vini rimane importante anche col passare del tempo, inoltre le note terziarie compaiono abbastanza presto, soprattutto quelle legate ai sentori di cuoio.

1981: (⅓ Cabernet sauvignon, ⅓ Cabernet franc, ⅓ Merlot) - 12 mesi in barriques
La composizione del vino rispetta la formula iniziale, ovvero parti uguali di Cabernet franc, Cabernet sauvignon e Merlot. Già alla vista denota l’avanzata età, il colore infatti è mattonato-aranciato.Intenso al naso dove emergono i sentori terziari, si colgono note di fiori secchi. Asciutto al palato con bella vena acida e legno non ancora completamente digerito, leggeri accenni ossidativi su buona persistenza. 


Nel 1992 entra in produzione la Vigna Sant’Alessandro, dove viene coltivato Cabernet sauvignon, vitigno che vedrà aumentata la sua percentuale nella composizione del vino. Nel 1998 la responsabilità enologica viene assunta da Benedetta Contini Bonaccossi che effettua il suo primo cambiamento, ovvero l’eliminazione del Cabernet franc dalla composizione del vino, sostituito, seppure ancora in percentuale modesta, con lo Syrah. 

1999: (60% Cabernet sauvignon, 30% Merlot, 10% Syrah) – 14 mesi in barriques
Color granato. Intenso al naso, note terziari di cuoio e fiori appassiti. Asciutto, sentori di cuoio, legno ancora percepibile, buona la persistenza. 



2004: (60% Cabernet sauvignon, 20% Merlot, 20% Syrah) - 14 mesi in barriques
Qui la percentuale di Syrah aumenta, a scapito del Merlot. Color granato di buona intensità. Intenso ed austero al naso, balsamico, con sentori di cuoio. Strutturato, succoso, asciutto, tornano le note di cuoio, lunga la persistenza. E’ l’annata che in assoluto abbiamo preferito. 


Nel 2009 inizia il percorso di avvicinamento al biologico

2010: (50% Cabernet sauvignon, 25% Merlot, 25% Syrah) - 15 mesi in barriques
Le percentuali di Merlot e Syrah salgono leggermente, a scapito del Cabernet sauvignon. Color granato. Intenso al naso, austero, sentori terziari di cuoio, accenni balsamici. Asciutto, tannico succoso, sentori di cuoio su lunga persistenza. 


2013: (50% Cabernet sauvignon, 25% Merlot, 25% Syrah) - 15 mesi in barriques
La composizione rimane la stessa del 2010. La maggior gioventù del vino si coglie già dal colore, rubino di buona profondità. Intenso al naso, austero, cuoio, frutto rosso speziato. Strutturato, asciutto, tannico, con legno ancora in evidenza, lunga la persistenza su note balsamiche. 


2015: (40% Cabernet sauvignon, 25% Merlot, 35% Syrah) - 24 mesi in barriques
Nuovo incremento della percentuale di Syrah e conseguente riduzione di Cabernet sauvignon. Molto bello il colore, rubino-purpureo, luminoso. Bel naso, intenso, un poco austero, sentori di spezie dolci. Di buona struttura, con tannini importanti ma ben integrati, note piccanti (spezie), legno ancora percepibile.



Corteaura - Franciacorta Docg Pas Dosé "Insé" 2012

I veneti sono tosti anche quando escono dal Veneto. Federico Fossati ha smesso di fare il commercialista a Padova ed è andato in Franciacorta a fare spumante. 


Questo gli è venuto assai bene: sei anni sui lieviti, un naso con qualche suadente nota verde, pieno di asciutta fragranza e in bocca corposo, deciso, lungo, da tutto pasto.

www.corteaura.it