di Stefano Tesi
La cosiddetta
riapertura è alle porte, anche se nessuno ancora ha capito di preciso se,
come, quando sarà. E, soprattutto, se funzionerà.
Il
funzionamento si giudicherà su tre parametri: sanitario - e non è
compito nostro - sociale ed economico. Il secondo e il terzo,
come cronisti, ci investono invece in pieno.
Tra le preoccupazioni
generali, quelle maggiori (non per importanza in assoluto, ci mancherebbe, ma
per gravità e implicazioni delle conseguenze) riguardano quel vastissimo
settore che fa leva sulla socialità, lo stare insieme quindi, e
comprende turismo, ristorazione (che da sola vale 86 miliardi di euro e
1,2 milioni di posti di lavoro) e relativi indotti: dai produttori di
vino e cibo alla distribuzione, dall’industria del divertimento al commercio al
minuto, dai trasporti alla stampa specializzata e giù a cascata. In Toscana,
un'aggregazione spontanea di ristoratori preoccupati ha dato vita in
pochi giorni a un movimento trasversale che riunisce migliaia di operatori
del settore in tutta Italia. A rincarare la dose è venuta la Fipe, che
per i pubblici esercizi - bar, ristoranti, pizzerie, catene di ristorazione,
catering, discoteche, pasticcerie, stabilimenti balneari - prevede "30
miliardi di euro di perdite il rischio di veder chiudere
definitivamente 50mila imprese per 300mila posti di lavoro"
Ovunque, del
resto, imperversano da un lato simulazioni da post virus, tra paratie di
vetro e camerieri coi guanti (ma di gomma, come quando si puliscono i cessi),
dall’altro fantasiosi e nuovi “modelli di business” che, in buona
sostanza, suggeriscono ai ristoratori di cambiare mestiere,
trasformandosi in imprenditori del catering o dell’asporto. Sbocchi non certi
praticabili per tutti e che comunque, in quanto pecetta momentanea
pensata più per passare il tempo che non per fare affari, già mostrano la
corda.
Insomma è un
subbuglio di domande e di ansie per il futuro.
Al netto di commenti
miopi, o emotivi, o cointeressati (tutti purtroppo presenti in abbondanza,
anche sui giornali) , dividerei il discorso in due parti molto
nettamente separate, dove il confine è segnato tra la fine dell'emergenza
e il post emergenza.
Finchè non
si sarà conclusa la prima non potremo infatti realmente conoscere la
seconda. Sulla quale, quindi, sbilanciarsi ora è prematuro. Può darsi accada di
tutto, dal massimo del bene al massimo del male, ma ancora nessuno può saperlo.
Concentriamoci dunque sulla prima.
Per come si
delinea adesso, con il periodo transitorio e le relative norme, le conseguenze
più evidenti saranno due (scegliete voi quale precederà l’altra, secondo
me saranno concomitanti):
- la decimazione di una
vasta fetta dei ristoranti in attività, che chiuderanno per
impossibilità tecnico/architettonica di adeguarsi, per asfissia
finanziaria, per mancanza di prospettive imprenditoriali, per
scoraggiamento o per incapacità di riciclarsi in qualcos’altro;
- per i superstiti, il crollo
del 50% della clientela e quindi dei ricavi, ma col mantenimento o la
lievitazione dei costi (perciò anche dei prezzi?), perchè sfido
chiunque ad aver voglia di andare a ristorante tra pannelli di
vetro, guanti e mascherine, accessi contingentati, atmosfere ospedaliere,
servizi acrobatici e distanze sanitarie. Oltre a situazioni quasi
comiche: ad esempio, il vino chi lo versa? Chi tocca la
bottiglia potrebbe contaminarla e deve comunque avvicinarsi. Che si fa, si
stappa una bottiglia per commensale, con conseguenze etiliche ed
economiche conseguenti?
Insomma, la
gran parte della gente starà a casa e, se proprio avrà voglia di
qualcosa, se la farà portare. Ma ovviamente non sarà la stessa cosa né
per il cliente, né per il ristoratore.
Il tutto si
risolverà con una facilmente vaticinabile catastrofe e la caduta a
scalare di tutti i settori del comparto. Più una variabile inquietante:
a chiudere non saranno solo i più deboli o i meno capaci. Insomma
non ci sarà una selezione qualitativa. La decimazione potrà dipendere da
mille altri fattori contingenti: ubicazione, regione, architettura,
interpretazione locale delle norme generali e così via.
Ma il punto
focale è forse un altro, sebbene meno appariscente in un periodo di
emergenza come questo.
Sarà capire,
al netto del danno percentualmente maggiore che subiremo in Italia in
quanto paese economicamente molto dipendente dalla filiera
turismo-ristorazione-cibo-vino, se la crisi che si profila sarà anche
globale, e perciò planetaria, oppure più nazionale che altro.
Ovvio che
se, per ragioni di prevenzione sanitaria, andare a ristorante diventerà ovunque
pressochè impossibile, o pericoloso, o troppo scomodo, o comunque spiacevole,
anche le conseguenze e i rimedi andranno visti in un’ottica
planetaria e i contraccolpi negativi spalmati sull’intera industria
mondiale del settore.
Se invece il
problema, per questioni normative o epidemiologiche, riguarderà solo o
soprattutto l'Italia, allora saranno dolori peggiori.
Anche alla
luce del quadro sociopolitico generale, è difficile essere ottimisti.
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