InvecchiatIGP: Casal Pilozzo – Dedo 2000


Non sono un grande patito, come altri colleghi sommelier, delle c.d. degustazioni alla cieca sia perché, a volte, mi piace contestualizzare ciò che sto bevendo, sia perché, diciamolo tranquillamente, spesso nel tentativo di riconoscere il vino che ho nel bicchiere sparo delle grandissime cavolate. Ripensando a certe serate, però, non posso non riconoscere il valore educativo di questo tipo di wine tasting soprattutto se, come ha fatto il mio amico Simone Di Vito di Intravino, ti versano nel bicchiere vini talmente inaspettati ed emozionanti da rivoluzionare il mio concetto di estetica del vino.


Come potete vedere anche voi dalla foto, alla vista il colore è di un rosso rubino trasparente e vivissimo tanto che, tra gli ospiti, già qualcuno ipotizzava fosse un nebbiolo di Valtellina o un grande sangiovese.

Al naso rivela già qualcosa in più. Ha un profumo vegetale percettibile, profondo, elegante, non invaso da eccessi pirazinici che spesso rendono pesante e monocorde il quadro aromatico complessivo che in questo vino, cangiante minuto dopo minuto, si arricchisce di sensazioni di pepe, rosa canina, ribes i cui effluvi sono ben racchiusi, come doni preziosi conservati nel tempo, all’interno di uno scrigno sapido che fornisce ulteriore personalità ed equilibrio a questo liquido rosso ancora sconosciuto. Odori terziari? Non pervenuti!

“E’ un cabernet sauvignon in purezza!!!

“Ma no, è un taglio bordolese italiano!!!!

“Sì, è un San Leonardo!!!!!

“Macchè, la veste cromatica è troppo trasparente!”

“E’ francese, di sicuro!!!

Tutto la tavolata, compreso il sottoscritto, a discettare su ogni molecola odorosa che si elevava dal bicchiere per poi tracollare dall’emozione una volta bevuto. Già, tracollare, è il verbo giusto, perché questo vino è un gioiello di armonia, eleganza, spinta acida e progressione sapida. Perfetto nella sua nitidezza e contemporaneità. Nulla, ancora una volta, che faccia presagire un affinamento importante del vino. Nulla!

“E Loira, è Loira!”

“Ma no, è un Loredan Gasparini Montello Venegazzu Superiore!!!”

“ Nooooo, è Francia!, magari una zona poco famosa”

“Qua sento “odore” di grande Toscana”

Simone toglie la carta stagnola dalla bottiglia e arriva il mutismo completo delle sala.


E’ un Dedo 2000, merlot e cabernet franc , prodotto da quel visionario di Antono Pulcini, proprietario di Casal Pilozzo. E’ un vino del Lazio, precisamente prodotto da vigne piantate a Monteporzio Catone, località dei Castelli Romani, dove lo stesso Pulcini, nel lontano 1987, piantò 13 ettari di vigneto su terreno di origine vulcanica. 


Il Dedo 2000 è una della tante perle che potete trovare all’interno della lunga cantina scavata nel tufo che, ancora oggi, conserva migliaia di bottiglie di diverse annate di quelli che lo stesso vignaiolo chiama “Vini da Invecchiamento”. Vorrei scrivere tanto della visione enologica, ormai quasi irripetibile, dei vini di Pulcini ma, mentre scrivo questo articolo, il vino è ancora nel calice e me lo vado a godere. Basta con i rimpianti, almeno per stasera….

Caccia al Piano - Bolgheri Superiore DOC 2018


Questo Bolgheri Superiore, taglio Cabernet Sauvignon (70%) e Cabernet Franc (30%), è stato prodotto da Tenuta Caccia al Piano, di proprietà della famiglia Ziliani, e la 2018 è stata la prima annata prodotta.


Vino di personalità, suadente nei profumi di macchia marina e frutti rossi che regala, cosa per nulla scontata per la denominazione, una beva succosa, equilibrata e dinamica.

Francesco Panella:”Festeggiamo i 100 anni dell’Antica Pesa con un libro”!


Cento anni sono un traguardo importante, storico, e vanno festeggiati nel modo migliori possibile, soprattutto se a compierli è uno dei ristoranti più storici di Roma come l’Antica Pesa gestita da quattro generazioni dalla famiglia Panella. Questo locale, situato nel cuore di Trastevere, è una vera e propria istituzione tanto che la sua storia inizia nel secolo XVII, dove nell’attuale Via Garibaldi c’era un punto di riscossione doganale sul grano. Qui, si usavano strumenti come pesi e bilance per distribuire il cibo portato dagli agricoltori locali e sempre in questo luogo, per i più bisognosi, i doganieri realizzarono una vera e propria taverna, luogo di accoglienza e solidarietà.



Bisogna arrivare al 1922, con la prima generazione dei Panella, alla vera e propria svolta per questa taverna che venne riconvertita in autentica e verace trattoria romana con l’obiettivo di continuare a sostenere i contadini locali utilizzando le produzioni della campagna romana per cucinare i piatti della tradizione. Quando la trattoria cominciò ad essere apprezzata in città i Panella scelsero per il locale un nome emblematico in onore alle loro origini: Antica Pesa.


Ma è negli anni Cinquanta, con la Dolce Vita, che l'Antica Pesa diventa un punto di riferimento, una tappa obbligata per tutti coloro che desiderano immergersi nella vera romanità, nello spirito autentico di una città unica al mondo. Artisti, scrittori, attori, registi, ma anche gente comune, turisti e non, si danno appuntamento alla Pesa per gustare i piatti della tradizione in un'atmosfera "verace" e caratteristica. E negli anni seguenti, grazie a una gestione fortemente radicata nel territorio ma capace di aprirsi alla sperimentazione, l'Antica Pesa, gestita oggi dai fratelli Simone e Francesco Panella, si conferma depositaria della tradizione, che reinterpreta e innova alla luce della propria storia che oggi viene raccontato in questo libro “100 anni di cucina romana nelle ricette e nella storia dell’Antica Pesa” (Newton Compton, pg 192, 16 euro). Il libro è diviso in due parti, una storica, in cui attraverso ricerche effettuate in più archivi hanno tracciato il passato del locale il cui primo riferimento scritto risale al 1871 quando all’interno de “Il Volontario di Pio IX”, scritto da Antonmaria Bonetti, si narra di come l’autore avesse ritrovato il collega e amico soldato seduto alla tavola dell’Osteria della Pesa, a “mangiare mezzo pollastro arrosto”.

La Carbonara dell'Antica Pesa

La seconda parte, invece, è dedicata prettamente alla cucina dell’Antica Pesa raccontata attraverso 40 ricette, tutto spiegate nel dettaglio per replicarle a casa, che rappresentano i piatti più rappresentativi che si sono susseguiti nel menù del ristorante nel corso di questi cento anni. Un libro, perciò, che racconta non solo la passione per la cucina della famiglia Panella visto che, attraverso tante le tante foto e gli aneddoti presenti nel volume, rappresenta un piccolo grande racconto della storia italiana la cui sublimazione è avvenuta anche all’interno delle sale dell’Antica Pesa che oggi, a distanza di cento anni, rappresenta un polo di cultura italiana dai caratteri unici ed inimitabili.

Simone e Francesco Panella

Per parlare di questa nuova pubblicazione, ma non solo, ho intervistato Francesco Panella che ho letteralmente rapito per qualche minuto mentre era ad accogliere gli ospiti nelle sale dell’Antica Pesa.

Francesco, cosa è per te questo ristorante?

L’Antica Pesa non è solo un ristorante ma è un luogo che ha trasmesso ospitalità fin dalla metà del 1800 e quando siamo entrati noi Panella nel 1922 non abbiamo fatto altro che apprendere l’uno dell’altro il miglior modo per dare ospitalità a chi passa a trovarci. In questi cento anni abbiamo passato momenti belli, meno belli come due guerre e tre pandemie ma noi non abbiamo mai mollato per tanti motivi.

Quali sono?

Noi siamo una famiglia che ha avuto ed ha nel DNA un forte spirito di accoglienza, questo è ben più che un lavoro perché abbiamo anche un forte di responsabilità, anche morale, con chi ci ha preceduto. Sai quanto gente viene qua e mi dice: ”Mio nonno si è sposato qua, mio papà anche e io mi sposerò qua…..”. Ecco, quando senti dal cliente queste cose non puoi avere motivi per mollare un’attività che va oltre la ristorazione pure e semplice.

Tornando ai vostri inizi, che tipo di ristorazione fornivate? C’era un piatto tipico del ristorante?

Dai racconti di mia nonna noi eravamo specializzati in “fagottini” dove c’era la pasta che veniva preparata col formaggio, il pepe macinato. I pastori, poi, la andavano a mangiare su per il Gianicolo, un colle di Roma che dista poco dal ristorante. Si lavoravano sicuramente prodotti freschi, genuini che, al tempo, ovviamente, avevano i loro problemi di conservazione….

Quali sono le caratteristiche del cliente abituale dell’Antica Pesa di oggi?

E’ un cliente che cerca rassicurazioni, che cerca un ambiente casalingo e si fida totalmente del nostro servizio e dei nostri consigli. E’ una persona che vuole passare due ore in serenità celebrando occasioni importanti. Non di rado vengono coppie che si sono sposate qua e che, dopo anni, celebrano il loro anniversario in queste sale. L’Antica Pesa non è solo un ristorante ma è anche un luogo della memoria dove si rivivono emozioni.

Questo ristorante, alla fine, per voi non solo un luogo di lavoro. E’ una vera e propria seconda casa…

Quando sei figlio di ristoratori e vivi il lavoro come una passione il ristorante non può non essere casa tua. Lo vivi a 360°, anche da piccolo, quando magari la mattina presto, prima della scuola, andavo con mio padre a comprare le materie prime ai Mercati Generali. Desideravo farlo, quello era il mio Luna Park. Non scorderò mai le cassette di legno che volavano, i profumi, i colori di un luogo magico che era animato poi da personaggi incredibili alla stregua di quelli che poi si vedono, per finta, all’interno dei parchi giochi moderni.

Cosa hai imparato in quegli anni?

Ho imparato sicuramente la contrattazione, che negli anni ’70 e ’80 all’interno dei Mercati Generali, era qualcosa di assolutamente folkloristico e, poi, ho imparato anche a riconoscere la genuinità e la freschezza del prodotto dal suo odore. Ah, ho imparato anche il romanesco stretto!

Antica Pesa Brooklyn

Insieme ai tuoi fratelli Simone e Lorenzo, nel 2012, la famiglia ha aperto il suo primo avamposto di successo internazionale a New York, precisamente Williamsburg. Quali sono le principali differenze enogastronomiche tra Italia e Stati Uniti?

A New York, non avendo una cultura di cucina casalinga, le persone spesso vanno a mangiare fuori avendo anche tantissimi ristoranti di grande qualità dove possono mangiare italiano, indiano, giapponese, cinese, spagnolo, etc... In questo modo, a mio parere, non si riesce a dare un peso culturale elevato a ciò che si ha nel piatto per cui, dal punto di vista enogastronomico, la clientela media dell’Antica Pesa di New York ha una competenza generica, a tratti mostruosa, sulla cucina internazionale, ma non ce l’hanno specifica come per esempio in Italia dove, ad esempio, possiamo non conoscere cosa sia il curry ma magari sappiamo tutto di come si cucina la lasagna e delle sue variazioni regionali.

Visto che vai spesso negli States, esiste ancora la vera cucina italo-americana?

Esiste ancora, assolutamente, è una cucina che abbiamo esportato come elemento di valore prendendo dagli Stati Uniti l’opportunità di fare business. La cucina italiana, con le sue ricette tradizionali, ha unito questi due Paesi per sempre e questo simbolo di amicizia tra popoli diversi, ovvero la cucina italo-americana, dovrebbe essere raccontata all’interno di un museo come elemento di socializzazione unico nel suo genere.

Il Made in Italy, pertanto, è ancora una carta vincente?

In un periodo difficile come questo, dove ogni Paese sta cercando di tirare su il proprio PIL, il made in Italy potrebbe essere troppo totalizzante, invadente, per cui sarebbe meglio trasformare il made IN Italy con il made WITH Italy. Si vince con l’Italia e non in Italia. Ti faccio un esempio: se a New York porti un pastaio italiano e adoperi un pomodoro del New Jersey che, credimi, è eccezionale, si fa sistema con lo Stato che ti ospita che, a suo volta, ti aiuta a ripartire.

Torniamo alla tua vita privata e parliamo di un argomento che a me interessa particolarmente: il vino. Quanto è importante per te, anche da ristoratore?

Per me è un elemento fondamentale perché lo lego, visto il mestiere che faccio, al termine della mia giornata lavorativa quando, finalmente, mi rilasso e posso permettermi un calice. Non solo, il vino per me importante anche quando non lavoro perché amo condividere una bottiglia mentre sono in compagnia di un amico o di un famigliare. Un calice di buon vino, inoltre, me lo bevo anche solo mentre magari leggo o vedo un quadro. Insomma, non potrei vivere senza, è un partner irrinunciabile.

L’Antica Pesa ha una cantina fantastica con dei vini molto ricercati. Il cliente medio del ristorante che vini ordina?

Adesso mi chiedono molto vini naturali e la cosa mi piace parecchio perché penso siano prodotti assolutamente godibili e dal buon rapporto qualità\prezzo. Questi vini sono assolutamente stimolanti per chi fa servizio in sala perché sono prodotti che spesso vanno comunicati e per certi versi “spiegati”. E’ facile vendere, ad esempio, i vari Supertuscan ma, se mi permetti, nel corso del tempo, soprattutto nei confronti dei clienti meno esperti, ritengo che più di qualcuno abbia approfittato del loro blasone fornendo prodotti magari non all’altezza o, comunque, dai ricarichi eccesivi.

Cantina dell'Antica Pesa

Quello dei ricarichi, soprattutto nell’alta ristorazione è un problema….

La vera sfida, infatti, è fare i giusti ricarichi perché dobbiamo dare a tutti la possibilità di bere un sogno, anche fosse solo un calice. Oggi ci sono tanti strumenti per arrivare a questo obiettivo e un ristoratore capace deve regalare sogni realizzabili.

Ultima domanda: oltre che essere grande ristorate sei anche un personaggio televisivo conducendo da anni “Little Big Italy”. Visto la tua esperienza, quale è il posto dove si mangia peggio al mondo?

Premesso che ormai la cultura enogastronomica è arrivata a buoni livelli in tutto il mondo, se parliamo di cucina italiana penso che il centro America non sia il posto migliore per noi italiani. Troppe salse, mamma mia!!!

InvecchiatIGP: Portinari - Soave Doc “Santo Stefano” 2006


di Lorenzo Colombo

Ad ulteriore prova che il vino bianco italiano, quando proviene da determinate zone ed è di qualità, regge benissimo il passare del tempo eccovi un Soave ancora in forma smagliante dopo oltre 15 anni dalla vendemmia. E’ prodotto dall’azienda agricola di Umberto Portinari situata ai piedi delle colline di Brognoligo, si tratta di una piccola realtà, dispone infatti unicamente di quattro ettari a vigneto suddivisi in due distinti appezzamenti, Ronchetto, dal quale si ricava un Soave a DOCG ed Albare.


Ne avevamo scritto nel 2011, quando eravamo stati in visita all’azienda ed al seguente link potete trovare tutte le informazioni relative a vini ed azienda:
https://www.ioeilvino.it/portinari, ci sembra quindi ridondante ripetere quanto potete trovare nel suddetto articolo, ci limitiamo unicamente a riferire che, rispetto ad allora c’è da registrare l’ingresso in azienda di Silvio, figlio di Umberto, che ora affianca nella conduzione aziendale la sorella Maria ed il padre. 
Il vigneto Ronchetto, messo a dimora nel 1960, è situato in collina, a 150 metri d’altitudine su suoli di natura vulcanica e con un’esposizione che gli garantisce il soleggiamento per tutto il giorno. Il vigneto Albare invece si trova in pianura, su suoli alluvionali argillosi ed è stato messo a dimora nel 1987, in questo vigneto si applica un tipo di vendemmia chiamata Doppia Maturazione Ragionata.


Dalle uve provenienti da questo vigneto, vendemmiando tardivamente le uve, frutto di una Doppia Maturazione ragionata (sempre nel sopracitato articolo trovate la spiegazione di questo metodo) si ottiene il Soave Santo Stefano, frutto della nostra degustazione.

Il vino

Le uve - Garganega in purezza - vengono raccolte verso la metà del mese di novembre, la fermentazione si svolge in piccole botti di rovere dove il vino s’affina per 24 mesi, seguono quindi ulteriori due anni di sosta in bottiglia prima della commercializzazione. L’avevamo assaggiato in occasione della nostra visita in azienda, undici anni fa ed ora ci accingiamo nuovamente a degustare questo Soave del 2006, acquistato in quell’occasione e rimasto sono ad ora custodito nella nostra cantina. 


Certo non ci aspettiamo di ritrovarvi le stesse sensazioni provate allora e sappiamo benissimo che stiamo correndo il rischio di trovare un vino a fine carriera, se non ormai decrepito.

Ma così non è!

Il colore è oro intenso e luminoso, sembra olio. Buona la sua intensità olfattiva, vi cogliamo note di fiori gialli, frutta gialla matura, pesca e mela, scorza d’arancia, netti i sentori d’erbe officinali, fieno, fiori essiccati, nocciole. Morbido ed alcolico al palato, frutta dolce, pesca ed albicocca sciroppate, uvetta, note boisé ed accenni di distillato affinato in legno, leggeri accenni tannici, buona infine la sua persistenza.


Un vino che ha pienamente ricompensato la pazienza d’averlo lungamente atteso.

Conti Degli Azzoni - Colli Maceratesi Doc Ribona 2020


di Lorenzo Colombo

La Ribona, o Maceratino, è un raro vitigno coltivato prevalentemente in provincia di Macerata. 


Il vino che andiamo ad assaggiare viene vinificato in vasche d’acciaio con l’utilizzo di lieviti indigeni e s’avvale di un breve affinamento in bottiglia, si presenta quindi fresco, fruttato e floreale, succoso ed agrumato al palato, pulito e persistente.

Vinã Arnáiz - D.O. Rueda Verdejo 2019


di Lorenzo Colombo

La D.O. Rueda è conosciuta per i suoi vini bianchi, la sua superfice vitata è infatti costituita per il 98% da vitigni a bacca bianca con il verdejo - principale vitigno della denominazione - che con una superficie di 17.764 ettari su un totale di 20.650 ettari copre l’86% del vigneto regionale. Nella vendemmia 2021 su 1.210.672 q.li di uva raccolta ben 1.065.330 erano di Verdejo, mentre la quantità di sauvignon blanc, che è il secondo vitigno più coltivato, si è fermata a 80.000 q.li.


Il territorio della D.O. Rueda è situato su un altopiano pianeggiante, tra i 700 e gli 870 metri sul livello del mare, qui gli inverni sono freddi e lunghissimi, le primavere brevi con gelate tardive ed estati calde e secche, rinfrescate da sporadici temporali.
I suoli, color marrone scuro, prendono il nome di "cascajosos" e sono in genere sabbiosi, limosi e sassosi, ben drenanti e ricchi di calcio e magnesio.
Le precipitazioni sono scarse, solitamente tra i 300mm ed i 500mm/anno mentre l’insolazione è elevatissima, raggiungendo le 2.600 ore/anno.


Il Consejo Regulador della D.O. Rueda ha messo a punto un sistema pratico per consentire ai consumatori di riconoscere facilmente la tipologia di vino che andranno ad acquistare, questo sistema si basa su una serie di etichette di diverso colore posizionate sul retro della bottiglia che, per quanto riguarda i vini bianchi, vanno ad indicare se si tratta di vino fermo, spumante, fortificato o prodotto da vigne vecchie (almeno trent’anni d’età). Stessa modalità, con colori diversi delle etichette, è stata adottata anche per i vini rossi e rosé.
Inoltre, attraverso un codice numerico stampato su quest’etichetta colorata è possibile conoscere la tracciabilità del prodotto.


Nella Rueda l’uva Verdejo è presente da oltre dieci secoli, il suo germogliamento è solitamente tardivo e il lavoro di potatura può arrivare fino al mese di marzo o all'inizio di aprile, anni fa a fine inverno veniva effettuato uno scavo attorno a ciascuna vite per concentrare l’acqua e all’inizio dell’estate la buca veniva nuovamente ricoperta di terra, pratiche che al giorno d’oggi non vengono più eseguite.

L’azienda

La sede dell’azienda Viña Arnáiz si trova nella città di Haza, nella provincia di Burgos, nel cuore della D.O. Ribera del Duero ed è situata in un’antica fortezza medioevale, attorno alla quale s’estendono 92 ettari di vigneti con vitigni a bacca nera. La capacità di stoccaggio di questa enorme cantina è di 90.000 ettolitri di vino, vi si trovano infatti 51 serbatoi d’acciaio e ben 6.000 barrique, sia di rovere francese che americano.
La capacità di lavorazione è di 80.000 bottiglie al giorno.


Viña Arnáiz è un marchio appartenente al Gruppo García Carrión, primo gruppo vitivinicolo europeo e quarto al mondo, è presente sul territorio di ben dieci tre le più prestigiose Denominazioni d’Origine spagnole, tra cui per l’appunto quella di Rueda e possiede 15 impianti di vinificazione dislocati nei vari territori. Nato nel 1890 a Jumilla, il Gruppo è ancora gestito dalla quarta e quinta generazione della famiglia García Carrión.

Il vino

Si presenta nel bicchiere con un color giallo paglierino luminoso di buona intensità. Intenso e fresco al naso dove si colgono sentori di frutta a polpa gialla, mela, fiori gialli, note di fieno e leggeri accenni aromatici.


Succoso e dotato di buona struttura, sapido, nuovamente cogliamo il frutto giallo, la mela e sentori d’erbe officinali che si percepiscono sul lungo fin bocca.In definitiva si tratta in un vino semplice ma dalla piacevole e scorrevole beva.

InvecchiatIGP - Tenuta Friggiali, Brunello di Montalcino Riserva 1999


di Stefano Tesi

Quando, per puro diletto e quindi senza taccuino di scorta né velleità tecniche, vai a trovare degli amici con altri amici (tutti del settore del vino, ma questo è un destino fatale!), pur confidando di bere buone cose non ti aspetti di trovare ad attenderti un vecchio Brunello stappato a tempo debito e pronto per il calice.  E se invece lo trovi, compiacimento a parte, due sentimenti ti solleticano. 


Da un lato la curiosità di riassaggiare un grande vino da invecchiamento di un’annata ormai antica (4 le stelle attribuite all’epoca alla vendemmia) e per di più nel formato che dovrebbe esaltare al massimo proprio la vocazione alla lunga sopravvivenza. Da un altro il timore che, come talvolta spesso accade, certi millesimi di quella denominazione e certe annate di quel periodo storico si rivelino deludenti, stanche, non di rado esauste, con buona pace dello spreco di astri sanciti al momento del rating e delle ottimistiche previsione di una vita centenaria. 

La bottiglia che bel bella mi aspettava era una magnum di Tenuta Friggiali Riserva 1999, una delle due proprietà montalcinesi (questa ha una serie di vigne degradanti dai 450 ai 250 metri sul versante sud-ovest di Montalcino; l’altra è invece Pietranera, dalle parti della Velona) della famiglia Peluso Centolani. Con mia grande consolazione, i dubbi sono stati subito fugati e la curiosità appagata. 


Il vino era integro già nel colore, fitto e pieno, con un leggerissimo accenno di unghia granata. Integro e intenso anche al naso, di primo acchito quasi compatto direi, con un frutto maturo ma ancora pimpante, lacerti di freschezza, una vaga speziatura e una composta coda terziaria che dava al tutto una complessità misurata, niente affatto senile. E anche in bocca ho ritrovato un Brunello vivo, tutto da bere, senza cedimenti, anzi sorprendentemente giovanile nella sua composta rotondità, pur in un’importanza e in una struttura di fondo innegabili. Qualità che hanno agevolato assai il consumo conviviale, dialettico, puramente edonistico e senza liturgie a cui nella circostanza la bottiglia era stata destinata. Ma, ciononostante, rimasta capace di tenere desta l’attenzione dei commensali sul bicchiere. 

Bene in tutti i sensi insomma. 

Quanto in generale alla stappatura delle vecchie bottiglie, inclusa l’ipotesi di trovarle non più buone, bisognerebbe forse recuperare la componente ludica di tutto questo, per invogliare la gente a ravanare meglio nelle proprie cantine. Ma se ne parla un’altra volta.

Poggerino - Chianti Classico Riserva "Bugialla" 2018


di Stefano Tesi 

Ecco un altro della serie che la Gran Selezione doveva uccidere le riserve: da un’annata non semplice ecco un vino di potente eleganza, pronto ma non troppo, rotondo ma fragrante.


Il vino 100% Sangiovese da un’unica vigna che convince all’olfatto con la ciliegia matura e gratifica al palato con la mordidezza.

La disfida delle frittelle di San Giuseppe senesi


di Stefano Tesi e Walter Peruzzi

Or sono tre anni che, qui sulla rubrica GARANTITO IGP, mi diffusi su quello che gli angloamericani chiamerebbero “Siena’s best kept secret“, ovvero le impareggiabili frittelle di San Giuseppe. Quelle senesi ovviamente, fragranti e asciutte, che, con tutto il rispetto per le altre, nulla hanno da spartire con gli omonimi cloni mollicci prodotti, credo, ovunque in Toscana e forse anche fuori.


Inutile dire che si tratta di una delle mie leccornie preferite, nonchè una delle principali cause dei miei dissesti di salute giacchè, nel periodo tra Carnevale e il 19 marzo (l’unico durante il quale si preparano, almeno per la vendita al pubblico), ne ingollo in quantità imbarazzanti.

Ma se la volta scorsa mi limitai a un racconto individuale venato di amarcord e a qualche generica informazione, stavolta ho pensato di fare le cose in grande: non solo una degustazione tecnica, analitica e circostanziata delle frittelle di tutti e tre i produttori cittadini, ma addirittura un raffronto a quattro mani, o a due palati se preferite, in tandem con un collega anche lui senese doc, Walter Peruzzi, che co-firma questo articolo. Anzi, di più: per comprovare la veridicità e l’immediatezza del nostro frittelle-tasting, abbiamo girato anche un video di pochi minuti che ci riprende durante gli assaggi e i soppesamenti organolettici.

“Per noi senesi le “frittelle di piazza”, come tutti le chiamiamo, sono indissolubilmente legate al Carnevale. Ne sono anzi un simbolo olfattivo e gustativo indelebile per tutte le generazioni“, spiega Walter. “I più vissuti ricordano ancora i tre “banchetti” (a Siena non si dice “chiosco”!) di Piazza del Campo, equidistanti ed efficacissimi nel diffondere quell’inconfondibile aroma nei pomeriggi freddi e umidi di febbraio e marzo. Difficile resistere alla tentazione di quelle caldissime palline di riso appena staccate dalla “piccia” e servite nel cartoccio, cosparse di zucchero semolato. Ogni banco aveva i suoi affezionati clienti, che si dividevano su quale fosse il migliore. Discussione di lana caprina, perché poi erano diverse solo le sfumature ed era una questione di gusto personale. Oggi in piazza ne è rimasto solo uno, quello storico del Savelli della Torre, da sempre il primo a montare e ultimo ad andarsene. Gli altri due, prima uno, poi anche l’altro (ricordo il suo nome, il Bianchi), sono stati spostati verso la periferia ed hanno cambiato proprietario. Ma non le ricette. Neanche i fedelissimi estimatori. E nemmeno le discussioni su chi sia il più bravo. Noi ci abbiamo provato a stabilirlo, ma è dura…”.

Ed ecco infatti le nostre schede.

FRITTELLE CIOFI (Via Massetana-Romana 56, Siena).

Peruzzi: si presentano ben dorate, con la giusta quantità di zucchero semolato attaccato alla superficie. All’esterno rimane un po’ di untuosità di troppo, che tuttavia non si ritrova all’assaggio. Croccanti fuori, l’interno è ben alveolato, con la pasta di riso cremosa distribuita uniformemente. Il sapore c’è tutto, con note di scorza d’arancia e giusta sapidità; non si avverte zucchero all’interno.



Tesi: la croccantezza è quella giusta, la granulosità dello zucchero aggiunge quel poco di scricchiolio ulteriore che invita al morso. Il profumo è intenso, con una piacevole nouance di agrumi, mentre dalla crosta trasuda in abbondanza l’olio di frittura, che sporca un po’ le mani ma senza dare sensazioni olfattive sgradevoli. Al palato la frittella è saporita, intensa, appetitosa, con un riso giustamente cremoso, non stucchevole.

Punto di forza: sapore e persistenza.

FRITTELLE GIORNI (Via Bernardo Tolomei, Angolo Via Savina Petrilli).

Peruzzi: anche queste ben dorate e zuccherate all’esterno, si presentano più asciutte e scolate di quelle del Ciofi. Al palato risultano ben croccanti fuori e cremose dentro. La pasta è umida, con un’alveolatura più limitata delle precedenti. Inoltre si nota l’aggiunta di zucchero nell’impasto, anche se moderato, che sostituisce o sovrasta il gusto della scorza di arancio. Un’interpretazione più casalinga, in qualche modo, che si avvicina al gusto di qualche decina di anni fa.



Tesi: la doratura appare perfetta e la frittura molto asciutta, ingentilita da uno zucchero di grana piuttosto fine. L’impasto di riso è decisamente cremoso, piuttosto dolce e compatto, buono ma senza le altre sfumature che ci si potrebbero attendere. Una frittella gustosa e semplice, di piacevolezza più immediata e meno lunga, olfattivamente più neutra della precedente.

Punto di forza: equilibrio e tradizione.

FRITTELLE SAVELLI (Piazza del Campo).

Peruzzi: esterno in linea, dorate e zuccherate. Si presentano meno compatte delle altre ed infatti all’interno il riso è poco, concentrato verso il bordo e quasi vuoto in centro. Sono le più gonfie e leggere, la crema interna ha una buona cremosità, con tracce evidenti di scorza di arancia, che al palato non risulta tuttavia così presente come ci si aspetterebbe. Non c’è zucchero nell’impasto, il sapore è molto delicato, quasi neutro.



Tesi: l’aspetto è invitante, le tracce dell’olio di frittura non disturbano, la dose di zucchero è abbondante. La frittella è assai croccante e cedevole al morso, molto alveolata, di una consistenza gradevole. Il profumo è tenue, fine, delicato come del resto il gusto, gentile e senza eccessi, pressochè liscio e quindi anche privo dell’impennata che ci si attenderebbe.

Punto di forza: leggerezza e croccantezza.

InvecchiatIGP: Cantine Endrizzi - Masetto Bianco 2008


di Luciano Pignataro

Chi mi conosce sa la mia passione per i bianchi invecchiati. Un segmento enologico in cui c’è ancora tanto da lavorare in Italia dove la cultura del bianco è quasi all’anno zero nella stragrande maggioranza dei consumatori mentre tra gli esperti si preferisce misurarsi sui grandi rossi di cui per fortuna il nostro Paese è ricco da Nord a Sud.
Eppure i bianchi invecchiati regalano sensazioni uniche e costituiscono un grande affare per chi compra. Come sempre accade, avevo dimenticato in un angolo recondito della mia cantina questa bottiglia da moltissimi anni, ma, avendo un pranzo domenicale a base di pesce, ho deciso di tirarla fuori e di rischiare. 


Bene ho fatto: ho trovato questo IGT Vigneti delle Dolomiti al massimo della sua espressione possibile e non ci voleva molto ad indovinarlo visto che alla base di questa cuvèe di famiglia ci sono due grandissime, uve, da sempre coltivate dalla Cantina Endrizzi a San Michele all’Adige: il Riesling Renano e lo Chardonnay, uve che amano il lungo invecchiamento.
Non è stato necessario neanche decantare il vino, tappo perfetto, giallo paglierino carico, profumi intensi di pesca sciroppata, note fumé, zafferano, anice: lo stesso protocollo produttivo prevede al tempo stesso un perfetto bilanciamento fra il legno usato (barrique nuove moderatamente tostate, tonneaux) e il frutto assolutamente integro. Il mosto in parte fermenta in tini d’acciaio, inox, parte in botti di rovere e parte in barrique. La conservazione sui lieviti di fermentazione con batonnage prosegue fino ad aprile, quando il vino viene unito in fusti di rovere per l’ulteriore affinamento di alcuni mesi.


Insomma, conta molto l’esperienza per un vino che già viene presentato almeno dopo un anno dalla vendemmia. L’evoluzione di tutti questi anni nella bottiglia dimenticata ha fatto sicuramente il resto dando la possibilità allo Chardonnay e al Riesling di evolversi in maniera davvero straordinaria e interessante. Al palato evidenzia agilità e freschezza assoluta, il Masetto 2008 non ha alcun segno di cedimento, anzi, con l’ossigenazione riprende vigore e forza. Un vino che esprime al tempo stesso il caldo del Mediterraneo e la freschezza alpina del Nord in un blend straordinario. Davvero una delle sorprese più belle degli ultimi anni.

Musto Carmelitano - Aglianico del Vulture DOC "Pian del Moro" 2015


di Luciano Pignataro

Tempo tempo tempo, l'Aglianico ha bisogno di tempo. 


Questo nato dall'omonima vigna di Maschito e vinificato in tonneaux dalla piccola 
azienda vulturina è succoso, fresco, bevibile, di grande stoffa. Piccolo, grande rosso!

2004, 2011 e 2016, tre annate per valutare il Graticciaia nel tempo!


di Luciano Pignataro

Graticciaia. Per chi ha qualche anno in più è un nome evocativo della Puglia come da qualche anno lo è Es di Gianfranco Fino. Graticciaia, Notarpanaro, Cappello del Prete, Patriglione erano parte della fenomenale squadra di capolavori messi in campo da Severino Garofano che, insieme a poche altre realtà, segnarono la rinascita del vino pugliese, anzi la liberazione da una visione antica e mortificante di silos rovesciati dai contadini francesi. Anche la Puglia divenne protagonista della rivoluzione vitivinicola italiana, un processo iniziato appunto negli anni ’90 e che oggi è una realtà concreta ancora in crescita.


Francesco Vallone

Per presentare l’ultima annata di Graticciaia, la 2016 interamente curata da Marco Mascellani, Francesco Vallone ha deciso di fare a Lecce una piccola verticale molto coraggiosa affiancando il 2011 firmato da Graziana Grassini e la 2004 di Severino Garofano. Il tempo vola, era dal 2011 che non partecipavamo ad una verticale di Graticciaia, anche questa a Lecce organizzata dall’Ais in occasione del congresso nazionale. Ieri come oggi il tema di questa degustazione è il seguente: come si deve valutare un mostro sacro quando c’è il cambio di mano? E’ bravo l’enologo che riesce a garantire una continuità di stile o quello che invece riesce a dare una nuova impronta personale? Come al solito la verità sta in mezzo, non solo perché cambia l’enologo, ma anche perché cambiano i gusti e cambiano soprattutto le vendemmie sotto la pressione del global warming.

Ed è proprio questo equilibrio che secondo noi è stato centrato nella degustazione perché al di là dei tre stili diversi, è emersa la forza del vigneto Caragnuli ad alberello di Negroamaro piantato su terreno argilloso e sabbioso nella zona di San Pancrazio negli anni 50. Se ne producono circa 25mila bottiglie, 200 ettolitri in sette ettari. La raccolta avviene a metà settembre e le uve vengono lasciate ad un leggero appassimento, per circa 15/20 giorni, su graticci disposti sulle terrazze del Castello di Serranova.

Marco Mascellani

Si potrebbe dire una goccia per una azienda di 500 ettari suddivisi in 3 unità produttive nei comuni di San Pancrazio Salentino, San Pietro Vernotico e Carovigno. Ma è la goccia più rappresentativa dell’Agricola Vallone gestita dal 2014 da Francesco, quarta generazione, figlio del mitico Franco scomparso prematuramente dopo aver ristrutturato e riorganizzato la cantina negli anni ’70.

Ma ecco le note di degustazione:

Graticciaia 2016

Colore rubino, nota giovanile. Ancora più snello e moderno grazie alla estrema bevibilità, alla buona morbidezza. Insomma, il Graticciaia ha fatto un po’ di cura dimagrante e gli ha fatto bene. I tannini sono stati trattati in maniera davvero eccellente, come del resto nei due precedenti. Un vino che deve ancora distendersi, ha bisogno di ancora almeno un altro anno di bottiglia per riequilibrarsi. Molto piacevole il finale. Grande acidità che fa salivare. Non ha ancora la complessità dei due predecenti. Usati Tonneaux e barrique

Graticciaia 2011

Le note sono di frutta rossa, più snello e meno appariscente. Il colore è rubino. Un naso che deve essere cercato nel bicchiere, il tono più austero. In questo caso si cerca soprattutto l’eleganza più che la potenza. Il palato è un po’ più avanti rispetto al naso: si ritrova meglio il sentore di frutta matura più che sotto spirito. Si è lavorato maggiormente sulla morbidezza, la setosità dell’impatto sul palato, ma alla fine si rivela più verticale del primo, sicuramente più snello. Lungo, con una chiusura pulita e amara che, come il precedente, rimanda alla voglia di ricominciare la beva. Barrique primo e secondo passaggio.

Graticciaia 2004

Colore granato. Grande freschezza, al naso si percepisce ancora la ciliegia sotto spirito. Il naso è arricchito da piacevoli note balsamiche, perfetta la fusione fra il frutto e il legno usato. Note di china, rabarbaro, mandorla, rimando tostato, carruba e tabacco. Si tratta di un vino tipico di quelli pensati da Severino Garofano, di quelli che si impongono con autorevolezza immediatamente al naso. L’alcol, la potenza, i sentori dolci che costituiscono l’arma segreta vengono ampiamente compensati dalla enorme e insospettabile freschezza che si mantiene inalterata nel corso degli anni. Il finale amaro lascia pulita la bocca con una grande voglia di ripetere il sorso.

Una miniverticale coraggiosa, senza rete potremmo aggiungere che regala una certezza: il Graticciaia ha una lunga storia da raccontare dal 1986 ad oggi, ma quella che ci riserva il suo futuro sarà ancora più lunga e appassionante.

InvecchiatIGP: Fattoria Corzano e Paterno - Il Corzano 1993


di Carlo Macchi

Questa bottiglia, trovata in cantina con l’etichetta ridotta in queste condizioni, è stato un modo sia per ritornare indietro negli anni sia per confermare una mia teoria sul periodo dal 1991 al 1996, da me chiamato “dell’ultima piccola glaciazione”. 


Ma andiamo con ordine. La Fattoria di Corzano e Paterno, che si trova nel comune di San Casciano Val di Pesa, è famosa oramai da anni sia per il vino che per i formaggi che produce. Nei primi anni ’90 muoveva i primi passi in entrambi i settori e quello del vino era completamente in mano all’ora giovanissimo Aljoscha Goldschmidt. 
Erano anni difficili per il Chianti Classico, figuratevi per chi non poteva fregiarsi della parola “Classico”: infatti Corzano e Paterno, pur essendo nel comune di San Casciano Val di Pesa che fa parte del Chianti Classico si trova sulle colline ad ovest della valle del fiume Pesa e così i suoi vigneti sono nel territorio del Chianti. Allora (e oggi non è molto diverso), anche se imbottigliavi dell’ottimo Chianti, se non avevi un Supertuscan nel mondo del vino di qualità non ti si filava nessuno. Così arrivarono le vigne di cabernet sauvignon e merlot, che ancora oggi concorrono, assieme al sangiovese, a creare Il Corzano (ultima annata in vendita il 2017). 


Come ho accennato sopra, dopo la grande annata 1990 ci furono 5/6 vendemmie che definire fresche è un eufemismo e forse sono state le ultime annate veramente "non calde" degli ultimi 30 anni. Il mio amico Ernesto Gentili sta giustamente ragionando sullo “spostamento del nord”, cioè sulle caratteristiche climatiche che servono, ieri e oggi, per avere grandi vini longevi: questo vino è veramente esplicativo, è un qualcosa da tenere in considerazione per capire come è cambiata e sta cambiando la faccia dei grandi vini negli ultimi 30 anni. 
Nel 1993 si andava inutilmente a ricercare rotondità, magari spacciata in bottiglia da un uso maccheronico del legno, mentre oggi si ricerca quella freschezza ( non parlo solo di acidità, ma di pH bassi) che allora abbondava. Una freschezza che ha permesso a questo uvaggio di sangiovese, cabernet sauvignon e merlot (non chiedetemi le percentuali) di lasciarmi a bocca aperta per finezza e profondità gustativa e per armonica complessità olfattiva. 


Un vino che dopo quasi 30 anni mostra ancora non solo freschezza ma una tannicità adesso vellutata pur ben presente. Sicuramente al naso il cabernet sauvignon fa la parte del leone con note balsamiche, mentre il sangiovese mostra la sua vena austera. Perfetta, adesso, la gestione del legno. 


Per capire meglio il vino ho lasciato la bottiglia ammezzata per quasi due giorni ma il vino è solo migliorato, presentando al naso note di spezie che mancavano al primo appello e in bocca una linearità austera ma meno tagliente e decisa. 
La frase “oggi vini così non si fanno più” deve essere vista alla lettera e cioè che con le attuali condizioni climatiche vini con questo pH, questa freschezza, questa verticale bonomia, è praticamente impossibile ripeterli. Per fortuna ho scoperto che ne ho altre due bottiglie in cantina.

Villa Bucci - Rosso Piceno DOC “Villa Bucci” 20158


di Carlo Macchi

Dici Bucci e pensi a un grande Verdicchio, ma Ampelio è bravissimo anche con i rossi. 


Il Villa Bucci 2018, blend di montepulciano e sangiovese lo dimostra. Porpora, naso con tanta frutta rossa e un accenno di carruba e cassis. Bocca piena ma con garbo, grazie a tannini già dolci ma incisivi. Fresca la chiusura.

“Il cuore del vino”, un libro per capire di più sul vino naturale e la biodinamica


di Carlo Macchi

Al termine della lettura del complesso e profondo libro di Piero Riccardi “Il cuore del vino”, da non seguace dei vini naturali, ho provato due cose: rispetto e ammirazione. 


Rispetto perché una posizione così chiara e ben motivata non può che meritare profondo rispetto. Ammirazione perché il percorso personale che ha portato Piero Riccardi dalla cinematografia alla produzione di vini naturali a Olevano Romano non solo è stato una crescita e un arricchimento continuo, ma si è basato su importanti radici culturali che riescono a rendere i suoi ragionamenti a favore del vino naturale e biodinamico, anche quelli che stento maggiormente a avallare, molto più ariosi, profondi e comprensibili. 
In realtà questo non è un libro sul vino naturale e/o biodinamico, o meglio non è solo e soltanto un libro su queste tipologie di vino ma è molte cose. 

Piero Riccardi

E’ un motivato e inattaccabile atto di accusa contro l’agricoltura industriale moderna, fatto da uno che di agricoltura se ne intende e ha girato diverse inchieste sul tema, anche per trasmissioni importanti come Report. Non si può negare (anche se per il vino credo, per esperienza diretta, che la cosa si declini in maniera diversa) che l’agricoltura intensiva, industriale renda gli agricoltori schiavi di un sistema e di una catena economica che gli lascia solo le briciole, mentre il consumatore (bella la definizione di questa parola come “termine vorace”) è costretto a utilizzare prodotti sempre meno nutrienti, sempre più pieni di sostanze che hanno ben poco a che vedere con l’alimentazione e sempre più difficili da digerire. In questo contesto non si può non essere d’accordo (io per primo) sulle sue considerazioni riguardo ad un termine con cui spesso ci sciacquiamo la bocca, “sostenibilità”. 


Ma è anche un percorso sul concetto di natura, attraverso il pensiero filosofico antico e moderno che, partendo dall’antica Grecia porta il lettore a inquadrare il momento in cui è avvenuto il distacco definitivo dell’uomo dalla natura che lo circonda e la prevaricazione del primo sulla seconda: e quel momento, riassumendo, si identifica con il periodo della rivoluzione scientifica e con due pensatori e filosofi che la rappresentano: Cartesio e Bacone. 

Ed è anche la storia della sua vita, fatta con flashback vividi, sofferti in qualche caso, sognanti e allegri in altri, della sua gioventù passata tra l’amore del cinema e del jazz, a girare l’Italia e il mondo, in particolare l’India. Ma il bello di questo libro, dove si sta nettamente dalla parte della biodinamica e si demonizza più volte la viticoltura della fresa in vigna e del lievito selezionato in cantina, è che in realtà non vuole imporre un credo ma solo aprire un ragionamento che ha solide basi filosofiche e culturali. Del resto è lui il primo ad aprire la porta alla discussione dicendo che i vini naturali non devono avere la volatile alta o puzzare, quelli sono solo vini sbagliati. 

credit: vinnatur.org

Leggendo mi sono soffermato spesso a riflettere su alcuni concetti e su quello che implicavano, sul senso volutamente oscuro di certe frasi. Del resto l’oracolo di Delfi “non afferma né nega, accenna” e lo scrittore, anche per bocca di alcuni pensatori della Grecia antica (Eraclito e Teofrasto, per fare due nomi) propone scenari, enigmi e dubbi che non devono essere risolti ma sicuramente affrontati. Le certezze invece sono sul fronte della disgregazione agricola e sociale portata dall’agricoltura industriale e qui si fa forte anche delle parole non certo visionarie di un certo Karl Marx. Ad un certo punto tra i tanti temi da sondare, mi è venuta in mente una domanda forse sciocca, cioè perché in un libro che ha comunque la campagna, la vigna e la natura al suo centro non vi sia una sola foto e la spiegazione che mi sono dato è che forse Piero rifugge la fissità dell’attimo, privilegiando lo svolgersi e il dipanarsi del tempo del tempo e quindi una foto rappresenterebbe l’esatto opposto di quello che l’autore vuole dire. 

Ma, mi ripeto, il bello è che quello che dice nasce da una solida base culturale, messa in mostra senza sfrontatezza ma con semplicità: per esempio, oltre ai mille rimandi precisi e godibili, si capisce che ha veramente letto Steiner e soprattutto ci ha ragionato sopra. E questo è un libro che non potrà non farvi ragionare, da qualsiasi parte lo prendiate e qualsiasi idea abbiate sul vino naturale. 

Piero Riccardi, Il Cuore del vino, Iacobelli Editore, 14.90€