La figura femminile nel racconto storico del vino


Di Rachele Bernardo

"Al vino spetta il ruolo di fedele compagno di viaggio della società primordiale attraverso la storia, un onnipresente testimonianza dell’umana civiltà”


Ripercorrere la storia del vino significa scrivere la storia dell'umanità. La vite è stata una delle prime piante coltivate dalle civiltà sumere, assire, babilonesi, egizie e cartaginesi.
Diverse pitture parietali egiziane, risalenti all’epoca imperiale mostrano scene di raccolta e pigiatura dell’uva.

La coltivazione della vite regolava i rapporti commerciali tra l’Egitto e altri popoli che si affacciavano sul Mediterraneo (scambi di grano, vino ed olio), dapprima con i mercanti cretesi e poi con i fenici ed i greci.


La vite europea (Vitis vinifera sativa) appartiene alla Famiglia delle Ampelideae, genere Vitis. La Vitis vinifera presenta due sottospecie: Vitis vinifera silvestris, spontanea e selvatica e Vitis vinifera sativa, ermafrodita.

Le varietà che coltiviamo oggi derivano dalla vite selvatica, modificata attraverso millenni di selezioni ed incroci avvenuti naturalmente e attuati dall’uomo. Sin dalla sua scoperta nella zona del Caucaso, dove sono state ritrovate tracce di coltivazione della vite e di anfore risalenti a varie epoche, comprese tra il 5000 ed il 1000 a.C., il vino ha rivestito, in tutte le società in cui a mano a mano si è diffuso, un ruolo di primaria importanza, in particolare per gli uomini.

Il rapporto vino-donna in quelle stesse società era controverso e basato su una serie di divieti di farne consumo, che potevano comportare estreme conseguenze giuridiche per la trasgredente.

Furono i Fenici a portare cloni di Vitis Vinifera Sativa e il vino in Grecia e poi in Sicilia. La nostra penisola si dimostrò adattissima alla coltivazione della vite, tanto che in poco tempo venne chiamata Enotria, la terra del vino.


In tutta la zona dell’Italia meridionale colonizzata dai Greci (Magna Grecia) vi fu una vera e propria fioritura della civiltà del vino: vicino Sibari venne costruito un “enodotto”, cioè un condotto di argilla che convogliava il vino nella zona portuale dove veniva raccolto in anfore e poi imbarcato.

Nel periodo in cui ebbero a coesistere in Italia la civiltà greca e quella etrusca, tra le due ci fu quasi una frontiera nascosta che differenziò anche le tecniche di coltivazione della vite.


Gli Etruschi tendevano ad accostare la vite ad alberi di medio e alto fusto permettendo così alla pianta di arrampicarsi (pratica diffusa ancora presso Aversa, non lontano da Napoli, per la produzione dell’Asprinio di Aversa, dove la vite è maritata al pioppo, mentre i Greci, le cui tecniche di coltivazione si erano già affinate, utilizzavano sostegni morti (pali di legno). In virtù degli intensi contatti con i popoli del Mediterraneo orientale, dove la cultura viticola era già più evoluta, gli Etruschi poterono affinare le tecniche produttive e importare anche nuovi vitigni di origine orientale (il cui processo di domesticazione erano iniziato in epoca ben più remota nell’area del Caucaso). La pratica di Vite maritata fu sviluppata dagli Etruschi, anche nella parte centro-settentrionale d’Italia. Le viti venivano allevate su pioppi, aceri, olmi, castagni.

Virgilio, nelle Georgiche (29 a.C.) parla della viticoltura della sua terra (Mantova) e racconta che le viti erano maritate all’olmo. In origine le viti non erano potate e tendevano a crescere molto, ad avere tralci lunghissimi. La raccolta dell’uva era effettuata con le mani, con scale apposite appoggiate agli alberi, oppure usando strumenti dal manico molto lungo. La vite maritata è rimasta nella cultura viticola italiana fino ai nostri giorni, in tutti quei territori dove in antichità era arrivata la civiltà etrusca.


In provincia di Avellino si può ancora vedere “La Starseta” o pergola avellinese: viti alte maritate ad alberi e distanziate tra di loro. Tale apparato ha avuto origine a causa degli appezzamenti piccoli e frammentati tra i vari proprietari, e dalla necessità di contenere tutto nella stessa area (viti, orto, alberi da frutta e ulivi).

Gli Etruschi furono grandi navigatori e commercianti. Con la produzione di anfore etrusche da trasporto, vino ed olio divennero beni di largo consumo.


La funzione del vino presso gli antichi Greci si collega principalmente alla parola simposio, dal latino symposium, che trae origine dal greco sympòsion (syn “con” e posis “bevanda”).

Il vino era l’attore principale del simposio, i Greci lo consideravano dono divino, regalato da Dioniso agli umani per porre rimedio ai loro affanni; ne esaltavano i vantaggi e celebravano la felicità che il bere portava, sempre senza abbandonarsi all’eccesso.

“Portami un orcio, ragazzo,
ch’io tracanni d’un fiato,
mescimi dieci misure
d’acqua e cinque di vino,
perché di nuovo io celebri
senza violenza Dioniso
[…]
(Anacreonte)


Il vino rappresentava un particolare momento della vita sociale della Grecia antica. I partecipanti si riunivano per discutere di politica, arte, filosofia, ma anche per scambiarsi idee ed opinioni; si trattava di un luogo in cui si sviluppava la cultura, accompagnando le discussioni con cibo e vino.

Platone (che al simposio ha dedicato uno dei suoi dialoghi) racconta che una coppa di vino veniva passata in cerchio perché ogni commensale potesse berne un sorso e brindare.


Un vero e proprio rito, scandito da atti programmati in anticipo con una forte dimensione religiosa, oltre che relazionale e culturale; il vino non era solo la bevanda che procurava sollievo agli uomini, ma un mezzo attraverso il quale l’uomo entrava direttamente in contatto con gli Dei.

I Greci deploravano l’ubriachezza, la consideravano non degna di un uomo civilizzato, evitarne le conseguenze negative era fondamentale!

Tra l’altro il vino puro della Grecia era molto alcolico, non a caso veniva sempre servito con acqua, talvolta si aggiungevano miele e resine, che lo rendevano più stabile e più adatto alla conservazione e al trasporto.
Al simposio non era ammessa la presenza delle donne...salvo alcune eccezioni: le etère, che suonavano l’aulòs e danzavano.

Anche nella cultura dell’antica Roma, a tutte le donne era rigorosamente vietato bere vino e la trasgressione di questo divieto era punita con severità: lo storico Valerio Massimo racconta che un cavaliere di nome Egnazio Mecenio uccise a bastonate la propria moglie solo per averla trovata ubriaca. Secondo la moralità del tempo il bere vino conduceva le donne direttamente all’adulterio: per gli antichi si trattava quindi, di una pratica che poteva nuocere alla purezza femminile.

Dionisio di Alicarnasso, narra che Romolo stabilisce questa regola poiché “l’adulterio è origine di follia e l’ubriachezza è origine di adulterio“.

Solo nell’età imperiale fu concesso alle donne di bere il vinum passum, cioè il vino passito, e in genere i vini dolci.
Al modello della “pudica e domiseda matrona romana”, che viveva all’ombra del focolre domestico, si contrappone la più libera donna etrusca: raffinata, elegante ed indipendente. Il benessere economico della società etrusca faceva sì che, già in età arcaica (dal VI secolo a.C.) le donne cominciassero ad “uscire” dalle mura domestiche per partecipare in maniera sempre più attiva alla vita pubblica.
Dunque, trascorrevano molto tempo in società, partecipavano a eventi mondani, gare sportive e spettacoli. Nelle scene raffigurate in numerosi affreschi, le donne etrusche sostenevano lo sguardo degli uomini, senza arrossire. Nel mondo romano antico, il vino era il rimedio agli affanni, Orazio ricorda che dà anche libero sfogo ai sentimenti nascosti.

Per i romani era piacevole lasciarsi trasportare dai piaceri del vino che, scendendo nelle vene diffondeva nel corpo una gradevole sensazione di ebbrezza, che contribuiva a creare speranze e ad allontanare preoccupazioni, tensioni e malinconie.


La civiltà Romana è stata la civiltà chiave nello sviluppo del vino in molti aspetti. I Romani possono essere considerati i padri della regolamentazione giuridica (introdussero il diritto di proprietà della terra, garantendone i confini attraverso il catasto e la centuriazione), del commercio del vino e della moderna viticoltura, con la crescente consapevolezza della vinificazione, anche se le prime influenze sulla viticoltura della penisola italiana possono essere fatte risalire agli antichi Greci e agli Etruschi. Nelle mani dei Romani, il vino diventa democratico, disponibile per tutti, dal più basso schiavo al contadino e fino naturalmente all’aristocratico.

Di fatto il vino era una necessità vitale per i romani, lo bevevano tutti i giorni. Si “pasteggiava” con il vino, lo si abbinava alle pietanze. L’antipasto tipico (gustatio) comprendeva uova, olive, frutti di mare, verdure ed era innaffiato di mulsum, il vino mielato.


Questo spinse a diffondere la viticoltura e la produzione di vino in tutte le zone dell’impero, al fine di garantire un approvvigionamento stabile per i soldati romani e per i coloni.


I Romani amavano molto l’odore di vino e sperimentavano diverse tecniche per migliorarne il bouquet, come piantare erbe (lavanda e timo) nei vigneti, pensando che i sapori si sarebbero trasferiti, attraverso il terreno, nell’uva.

Naturalmente il vino di qualità migliore era riservato alle classi superiori di Roma. Il vino più prestigioso era il Falernum che si distingueva per la sua capacità di invecchiamento. Fu il più famoso vino prodotto nell’antica Roma, venduto in tutto il mondo, anfore di Falernum venivano inviate in Britannia, Gallia, Hispania, Cartagine ed Alessandria d’Egitto. 
Fu il vino offerto da Cleopatra a Cesare dopo la vittoria.
Nelle rovine dell’antica Pompei è stato trovato un listino prezzi sulla parete di un termopolio che dichiara:

“Per un asse puoi bere vino
per due assi si può bere il migliore
e per quattro può bere Falerno”


Pompei era uno dei centri vinicoli più importanti del mondo romano. L'area era sede di una vasta distesa di vigneti e fungeva da importante città commerciale con le province romane all'estero oltre ad essere la principale fonte di vino per la città di Roma. 

Plinio il Vecchio, nel suo Naturalis Historia scriveva che la coltivazione della vite, aveva una tale supremazia da superare le ricchezze di ogni altro paese.


Opere di altri scrittori romani classici, in particolare Catone, Columella, Plinio, Orazio, Palladio, Varrone e Virgilio, fanno luce sul ruolo del vino nella cultura romana, nonché sulle pratiche vinicole e viticole contemporanee.


Sia Plinio il Vecchio che Columella offrono un quadro preciso dei vitigni sviluppati nel corso del tempo dai Romani. La grande varietà di tipologie di arbusto ( Plinio ne conteggia più di 160), si divideva principalmente in vitigni nobili et ignobili, ovverosia in vitigni di grande qualità e vitigni dalla produzione massiccia, ma di basso pregio.

Il “De re rustica” di Columella è da considerarsi un trattato di agronomia del primo principato (Columella morì nel 70 d.C.) arrivato a noi completo. Alcune di queste influenti tecniche si possono trovare nella vinificazione moderna.


Questi includono la considerazione del clima e del paesaggio nel decidere quali varietà di uva piantare, i benefici dei diversi sistemi di allevamento della vite, gli effetti della potatura e delle rese del raccolto sulla qualità del vino, nonché tecniche di vinificazione come l'invecchiamento “sur lie” dopo la fermentazione e il mantenimento delle pratiche igieniche durante tutto il processo di vinificazione per evitare contaminazioni, impurità e deterioramento. Avevano intuito anche l’importanza della temperatura nel corso della vinificazione.


L’economia trasse giovamento da questo settore in continua espansione e i mercanti romani colsero le opportunità di scambi commerciali con le tribù native delle terre conquistate, in particolare con i Galli e gli Spagnoli.

La capacità di invecchiamento era una caratteristica molto apprezzata dei vini romani e di conseguenza le annate vecchie raggiungevano prezzi molto alti.

I vini invecchiati (quelli che avevano passato l'estate successiva alla data di produzione) erano esaltati sulle tavole dei ricchi Romani, i quali li ostentavano nei loro banchetti.


Un’altra tecnica largamente praticata era quella di affinare alcuni vini in anfore, in soffitte dove veniva convogliato del fumo, dette fumarium, per conferire un aroma di affumicatura.

Verso la fine del I sec. d.c., l’anfora iniziò ad essere sostituita dalla “botte”, trasportabile anche da due soli uomini e caricabile sui carri. Il Nord Italia e l’Europa Occidentale sede delle cultura celtica erano grandi fabbricatori di botti e una cronaca romana di Vitruvio riferisce che l’imperatore Massimino, attraversando l’Isonzo, con le sue truppe costruì un ponte di fortuna legando insieme migliaia di botti.


Nell’antica Roma esistevano già locali dove mangiare e bere vino, si chiamavano taverne o anche popine.
L’ambiente era molto grande e vi erano tavoli dove le persone potevano mangiare sedute. Le taverne erano fumose e spesso sudice, ma offrivano qualche piccolo intrattenimento alla clientela.


Durante i fastosi banchetti dei Romani si rendeva indispensabile la presenza di un esperto, l’“haustores”, potremmo dire il sommelier di oggi, che decideva la quantità di acqua che bisognava aggiungere al vino in base al menù. Talvolta veniva utilizzata anche acqua di mare per rendere il vino meno dolce e meno denso.


I Romani usavano, inoltre, i “tagli” tra vini diversi: un dolce vino greco di Chio, ad esempio, per mitigare l’asprezza del Falerno. La bevanda comunque preferita rimaneva il multimediale, una miscela di miele e vino con cui si aprivano i sontuosi banchetti delle grandi famiglie patrizie.

Riguardo alle donne, sin dalle origini c’è stato il divieto di bere vino (“Mos Maiorum”); anche annusarlo era reato. Una delle prime "leges regiae" (quella attribuita a Romolo da Dionigi di Alicarnasso) stabiliva i motivi per i quali una donna poteva essere condannata a morte su insindacabile giudizio dei parenti stretti o del marito…

Questi poteva esercitare lo "ius osculi", il diritto di bacio; farsi trovare con l'alito pesante poteva significare, per le donne romane, essere vittime dell'etilismo.

A partire dal 250 d.c. iniziò un periodo di decadenza per Roma e anche per la produzione di vino, infatti fu introdotta una tassa che obbligava i produttori di vino a consegnarne una parte all’impero per le razioni dei soldati e per rifornire la popolazione a prezzo politico. Così molti viticoltori cambiarono attività. Guerre civili e spopolamento fecero il resto e, con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, fu a rischio la coltivazione della vite in Italia, solo l’avvento dei monasteri ne comportò la ripresa.

Durante i primi anni del Medioevo, nei territori un tempo occupati dai Romani, lo sviluppo della viticoltura si ebbe in gran parte nei conventi: lentamente si trasformano in veri e propri centri vitivinicoli ad opera di monaci, che sin dall'inizio, si dedicarono alla nobile arte del vino, in quanto elemento indispensabile durante il rito della mensa eucaristica. L'epoca medioevale vide anche un progresso nella qualità del vino; mentre quelli antichi erano quasi sempre tagliati con acqua e resi più gradevoli con l'uso di erbe e aromi, il vino appare nella forma in cui lo consumiamo ancor oggi. I monaci gestirono vigneti monastici, aiutando nella creazione delle qualità oggi esistenti.


In Europa nel Medioevo cambia la figura del “dispensatore delle bevande” che non si dedica più a servire i commensali nei banchetti, ma scende in cantina, dando inizio così alle prime pratiche di organizzazione del servizio. Nei monasteri francesi compaiono due figure quella del “cellier”, un monaco responsabile della cantina, e quella del “caviste” monaco subalterno che si occupa di mescere il vino a tavola.

Nel Cinquecento si mettono in luce nuove figure professionali: gli addetti all’acquisto, alla conservazione e al servizio dei vini. Il “dispensiere-cantiniere”, era responsabile del prodotto dal momento dell’acquisto al momento del consumo. Il “bottiliere” si occupava del servizio del vino e “curava la tavola” Egli, inoltre aveva la mansione di assaggiare le bevande prima di servirle per verificare che non contenessero veleni.


La parola sommelier nasce in Francia dalla parola latina “sagmarium” che indicava il responsabile del trasporto dei vini con animali da soma; termine utilizzato nel Medioevo per poi trasformarsi in Sommelier nel XVI sec. presso la corte del Re Sole.

Dall’Ottocento in poi la funzione del sommelier diviene pubblica con la nascita e la diffusione dei grandi ristoranti.

Il Sommelier oggi è un professionista in grado di effettuare un’analisi organolettica delle bevande al fine di valutarne la tipologia, la qualità, le caratteristiche, le potenzialità di conservazione, soprattutto in funzione del corretto abbinamento vino-cibo.


Si sceglie questo percorso professionale per passione e si apre dinanzi un mondo: il vino è qualcosa di incantevole non solo nel bicchiere. Si programmano viaggi, si visitano aziende, produttori, luoghi, si conoscono persone che ci regalano emozioni. Non è facile da spiegare, ma in un calice di vino ci sono cosi tante cose da scoprire! E più si conosce più la passione cresce. Occorre essere curiosi e non smettere di ricercare. Portare il vino in tavola è una sorta di rituale: aprire correttamente la bottiglia, servire il vino ad una giusta temperatura, abbinare i cibi tipici con i vini che meglio li accompagnano in modo da favorire l’esplorazione del territorio...tutto può amplificare l’emozione di ciò che si berrà.


Le donne Sommelier sono ormai una realtà in crescita esponenziale; l’universo femminile è sempre più protagonista nel mondo del vino: produttrici, enologi donne, sommelier, giornaliste, ristoratrici, buyer...Nel 1988 è nata in Italia ‘L’Associazione Nazionale Le Donne del Vino’ che promuove la cultura del vino ed il ruolo delle donne nella filiera produttiva enologica e della società tutta.

Alle donne si deve anche un rinnovamento nel linguaggio del vino, grazie ad uno spiccato intuito e coraggio verso i cambiamenti. Questo rappresenta un valore aggiunto per tutto il settore vitivinicolo, anche per l’immagine del Made in Italy nel mondo.

Cascina Castlet - Piemonte Moscato Passito Avié 2015


di Roberto Giuliani

Da una storica azienda di Costigliole d’Asti, un Moscato Passito che racconta tutto fuori e dentro, l’etichetta con l’impronta femminile dorata, il nome che significa “veglia”, i profumi di albicocca candita, nocciola, banana sciroppata ed erbe aromatiche.


Al gusto vivo, non stucchevole, appassionante.

Mario Macciocca - Monocromo #1 2016


di Roberto Giuliani

Qualcuno penserà di getto “ma 5 anni non sono mica tanti”, dipende! Non stiamo parlando di un grande Chardonnay in legno o per restare in Italia di un Fiano di Avellino o di un Verdicchio dei Castelli di Jesi. Questa è una Passerina del Frusinate, capace di alte produzioni in vigna, le cui origini non del tutto certe la fanno parente stretto del Trebbiano di Abruzzo e del Pagadebit. Non è certo conosciuta per la sua longevità!


La guida Vitigni d’Italia di Calò, Scienza e Costacurta, dichiara infatti: “Il vino presenta un colore variabile tra il paglierino e il giallo, di sapore asciutto, pieno, non adatto all’invecchiamento”. E più avanti “Può essere utilizzato fresco o dopo un breve appassimento. Solitamente in uvaggio con altre uve bianche, raramente in purezza”.

Mario Macciocca

Beh, dipende, in questo caso le mani e la testa di Mario Macciocca fanno la differenza, il Monocromo #1 è un’altra storia, è un vino che nasce dalla sua volontà di rispettare al 100% l’ambiente e l’ecosistema, di assecondare la vigna senza mai forzarla, tanto da essersi guadagnato un posto all’associazione VinNatur. In vigna solo rame e zolfo in quantità minime, in cantina fermentazione spontanea, niente solforosa aggiunta, insomma un bianco che per molti diffidenti è inconcepibile, rischia grosso, non è possibile che non vada alla deriva in tempi brevi.


Invece mi spiace deludere lor signori, il
Monocromo #1 2016 è semplicemente buonissimo, intenso, pulito, salmastro, profuma di aghi di pino ed erbe aromatiche, di uva passa e nespola, guizzi di nocciola, ricordi di ginestra.


Al palato un’acidità precisa rende il sorso asciutto, pieno, molto fruttato con cenni di confettura, non ha cedimenti, è lungo e rilascia le note di pesca gialla, nocciola e nespola, il finale è salino, avvincente, un esempio di come spesso si giudica male un vitigno, solo perché non è stato allevato nel posto e nel modo giusto. 
Peccato perché era l’ultima bottiglia in mio possesso…

Il Rosso Conero: il vino "marino" da rilanciare

Studio Marche, dopo essersi occupato di Verdicchio dei Castelli di Jesi, per la seconda puntata ha deciso di cambiare colore occupandosi di una delle DOC più rappresentative della Regione: il Rosso Conero.

Questa storica denominazione, che interessa i comuni di Ancona, Camerano, Numana, Sirolo, Osimo, Offagna Castelfidardo, ha come riferimento geografico il promontorio del monte Conero, unico promontorio della costa italiana Adriatica compresa tra Trieste ed il Gargano, che si erge sul mare e le colline che discendono dallo stesso verso l’entroterra.

Riviera del Conero - Foto: Turismo.it

Il territorio di produzione del Rosso Conero DOC, perciò, è un piccolo fazzoletto di terra di circa 350 ettari che, partendo ad est, ovvero dalla costa Adriatica, si inoltra per qualche chilometro verso ovest, all’interno delle colline retrostanti il rilievo montuoso del Conero, dove una morfologia dolce ed omogenea e un clima temperato creano condizioni ambientali uniche, caratterizzate da un’esposizione esemplare alla luce e alle brezze marine. La composizione dei terreni, in prevalenza calcareo argillosi a bassa fertilità, assicura inoltre la piena maturazione delle uve soltanto con un contenuto carico di grappoli per vite.

Territorio della DOC

Prima di addentrarci nella degustazione e nelle considerazioni finali, bisogna sottolineare che il disciplinare del Rosso Conero DOC prevede che questo vino sia prodotto con almeno l’85% di montepulciano al quale si può aggiungere a saldo un 15% di sangiovese.

Come sempre Alberto Mazzoni, direttore dell’Istituto Marchigiano Tutela Vini, durante la diretta zoom ci ha presentato sei vini, tutti montepulciano in purezza, e queste sono le mie brevi note di degustazione

Foto: Enzo Radunanza per Gazzetta del Gusto

Marchetti – Rosso Conero “Castro di San Silvestro” 2019: questa azienda storica, fondati ai primi dell’800 dall’Onorevole Giovanni Bonomi e ora seguita da Maurizio Marchetti (agronomo ed enologo), con il recente aiuto dell’amico Lorenzo Landi, ha presentato questo montepulciano in purezza dai caratteri fruttati e speziati. Peccato per una certa rusticità di fondo che toglio alla beva un filo di eleganza. Affinamento: acciaio e cemento.

Conte Leopardi Dittajuti – Rosso Conero “Fructus” 2018: l’Azienda Agricola Conte Leopardi Dittajuti è di proprietà dell’antica famiglia Leopardi Dittajuti ed è stata tramandata di padre in figlio per moltissime generazioni. Il vulcanico Piervittorio Leopardi, attuale proprietario assieme a Lidia, ci ha presentato il suo Rosso Conero dal naso giovanile e fruttato pur lasciando una scia di macchia mediterranea che ne prolunga la persistenza. Sorso vigoroso, con tannini ordinati e sostenuto da sensibile vena di freschezza sapida nel finale. Affinamento: barrique per due mesi.

Umani Ronchi – Rosso Conero “San Lorenzo” 2018: l’azienda, che non ha bisogno di presentazioni, ha portato in degustazione questo Rosso Conero che nasce da uve prodotte da un unico vigneto, il San Lorenzo, piantato nel comune di Osimo. E’ un vino molto complesso, vigoroso di aromi di amarena, prugna, mora, macchia marina e spezie orientali. Corpo robusto, sostenuto da tannini di razzza e adeguata verve acida. Invecchiamento: per 18 mesi in botti grandi (da 15 a 27 hl) di rovere francese e di Slavonia.

Fattoria Le Terrazze – Rosso Conero 2018: nella batteria dei sei vini presentati, lo anticipo, questo Rosso Conero prodotto da Antonio Terni è stato quello da me preferito, vuoi per la sua eleganza e leggiadria, vuoi per il suo grandissimo equilibrio, figlio anche di un tannino assolutamente cesellato, vuoi per un finale sapido che esalta la beva di questo montepulciano in purezza che berrei a secchi anche d’estate dopo un leggero passaggio in frigo. Il Rosso da pesce per antonomasia! Affinamento: 12 mesi in botti di legno 30 hl.

La Calcinara – Rosso Conero “Il Cacciatore dei Sogni” 2018: l’azienda, diretta dai fratelli Paolo e Eleonora, rispettivamente classe ‘81 e ‘87, prende il nome perché situata sul poggio più calcareo e aperto del paese di Candia. Questo Rosso Conero ha un naso ricercato e ricco di sfumature, con spunti di frutti di bosco ma soprattutto di resina, ginepro e iodio. La bocca è una vertigine di sensazioni articolate e territoriali che rendono questo montepulciano piacevolissimo e di grande sapidità marina. Affinamento: acciaio e botti grandi.

Moroder – Rosso Conero 2017: la nascita del complesso agricolo risale alla metà del ’700, quando i Moroder, originari della Val Gardena, si spostano ad Ancona e acquistano i terreni sui quali oggi sorge l’azienda. Questo vino, il primo e unico presentato del 2017, fa capire le grandi possibilità evolutive di un Rosso Conero in quanto ancora oggi, a tre anni dalla vendemmia, è assolutamente vivace e complesso nei suoi richiami olfattivi di more, mirtilli, corteccia, china, spezie nere e ritorni balsamici. Al gusto è carnoso, di grande equilibrio grazie ai suoi tannini morbidi supportati da una spina dorsale acido-sapida di grande potenza. Ottima la progressione gustativa. Affinamento: per 18 mesi in botti grandi (da 15 a 27 hl) di rovere francese e di Slavonia.

Considerazioni finali

Durante la degustazione con i sei vignaioli ed Alberto Mazzoni è uscita fuori la problematica circa l’identità attuale del Rosso Conero che andrebbe fortemente rilanciata anche per via del suo ottimo rapporto qualità\prezzo. Come fare? La mia proposta è abbastanza semplice ed è qualcosa che è stato attuato in passato anche dallo stesso Consorzio di Tutela ovvero agganciare fortemente la denominazione al terroir di riferimento rievocando l’incontro tra il mare Adriatico, con le sue splendide spiagge, e la viticoltura del Conero. 

Foto: La Stampa

Un terroir unico che può creare un brand tale da considerare il Rosso Conero come il vino rosso da pesce per eccellenza non solo per la costa Adriatica ma anche per tutta l’Italia. Come arrivare a questo risultato? Cercando di produrre meno, meglio, cercando di alleggerire il montepulciano da ogni orpello, magari evitando un sontuoso uso del legno, così come ha fatto, per esempio, Fattoria Le Terrazze col suo Rosso Conero. Bisogna puntare sulla piacevolezza di beva, su vini diretti e croccanti, lasciando al Conero DOCG l’ambizione di essere il rosso più importante e complesso delle Marche.

Podere Selva Capuzza - Garda Classico Chiaretto DOC “San Donino” 2020

Groppello, Barbera, Sangiovese e Marzemino, poche ore di macerazione, ed ecco il vino del Lago per eccellenza, un Chiaretto leggiadro e spensierato nei suoi effluvi aromatici di mandarino, pompelmo rosa e lampone su sfondo minerale. 


Il sorso è pura freschezza e bevibilità tanto che la bottiglia finisce in un amen. W il Chiaretto!

Barone Pizzini: l'anima verde della Franciacorta!

"Non chiamatelo Spumante". Sembra uno slogan, ma per Silvano Brescianini, direttore generale dell’azienda Barone Pizzini e Presidente del Consorzio Franciacorta, le parole sono importanti e tra uno spumante e un Franciacorta passa tutta la differenza del mondo che porta ad un solo termine: territorio. Se a quanto scritto si può ribattere che si tratti (anche) di marketing vi potrei rispondere, e lo farebbe probabilmente anche lo stesso Brescianini, che in Francia lo Champagne prende il nome dal suo territorio di origine e nessuno si azzarda a chiamarlo diversamente da oltre 300 anni.

Silvano Brescianini

Lo stesso legame con la Franciacorta lo ha anche l’azienda fondata nel 1870 da Enrico e Bernardino Pizzini, eredi della casata asburgica Pizzini Piomarta von Thumberg, che fin da subito si sono distinti come agricoltori illuminati.
Giulio Pizzini Piomarta Von Thurberg. Da questa data, vari discendenti si susseguirono alla guida della cantina sino all’ultimo, il Barone Giulio Pizzini (1916-1995) che ebbe un ruolo determinante nello sviluppo della viticoltura in Franciacorta (nel 1967 fu tra i fondatori della DOC Franciacorta). Fu proprio lui, alla fine degli anni ’80, a coinvolgere nella proprietà un gruppo di imprenditori appassionati al mondo enologico, gettando così le basi dell’attuale azienda diretta oggi da Silvano Brescianini che, nel 1993, dopo un glorioso passato nel mondo della ristorazione (ha lavorato anche al San Domenico di New York col mitico Tony May) è stato uno dei soci fondatori della nuova Barone Pizzini che è stata la prima cantina a produrre Franciacorta da viticoltura biologica certificata, ovvero utilizzando per la coltivazione e il nutrimento delle viti solamente sostanze naturali o che l’uomo può ottenere con processi semplici, senza ricorrere a prodotti chimici, diserbanti, OGM, fertilizzanti o pesticidi di sintesi.


Essendo stato per tanti anni dall’altra parte della barricata – osserva Brescianini – ho sempre ragionato con un approccio da consumatore e permettere l’uso in vigna, ad esempio, di un diserbante o di un sistemico, che possono essere cancerogeni, ti porta con un minimo di buon senso a chiederti se è davvero necessario l’uso della chimica perché poi, inevitabilmente, questa roba ce la troviamo anche nel bicchiere di vino che beviamo a tavola”.
Questi ragionamenti hanno trovato concretezza grazie ad un incontro con Pierluigi Donna, il maggior conoscitore di tecniche agronomiche bio, al quale Brescianini rivolge la fatidica domanda: “In Franciacorta si può coltivare la vite in modo non invasivo e di maggior tutela della natura rispetto al sistema convenzionale?”. 


Dalla risposta, che fu ovviamente “Certo!”, è nata una collaborazione, che dura ancora oggi, e che ha portato Barone Pizzini a fare la prima prova di biologico nel 1998, e dal 2001 tutti i vigneti ottengono la certificazione A.B attraverso il solo uso di zolfo e rame nelle loro composizioni più semplici ed in quantità limitate e controllate mentre contro insetti nocivi si usano esclusivamente derivati naturali da piante o batteri.


Il concetto di sostenibilità ambientale in Barone Pizzini è anche questione di coerenza e Brescianini, durante l’intervista che mi ha concesso, mi ha regalato un aneddoto molto importante: ”Tempo fa il produttore di etichette col quale collaboravamo era molto in ritardo con la consegna perché, mi ha spiegato, l’inchiostro usato per stamparle non veniva più dalla Germania, dove era stato messo al bando per la sua tossicità, ma dall’Est Europa dove era ancora permesso produrlo. Da quel momento, era il 2001, presi la decisione ovviamente di cambiare fornitore perché non illogico produrre un vino bio e poi usare materiali non conformi alla nostra idea “green” che va ad abbracciare anche l’uso di bottiglie meno pesanti oppure l’uso di capsule meno spesse (circa 50 micron contro la media che si attesta attorno agli 80\100 micron) in modo da ridurre i materiali utilizzati e i relativi rifiuti”.


L’impegno ambientale dell’azienda franciacortina non poteva non riguardare anche l’attuale cantina che nel 2006 è stata costruita secondo i criteri dell’architettura ecocompatibile. Ogni scelta architettonica è stata progettata per avere un basso impatto ambientale e un limitato consumo energetico. I pannelli fotovoltaici, il sistema naturale di condizionamento, l’impiego di pietra e legno, la fitodepurazione delle acque, sono tutti accorgimenti che fanno della sede produttiva di Barone Pizzini una cantina BIO.


Oggi la Barone Pizzini si estende in Franciacorta, all’interno dei Comuni di Provaglio d’Iseo, Corte Franca, Adro e Passirano, su 54 ettari divisi in 29 particelle (con altitudine variabile dai 200 ai 350 metri s.l.m.) dove pinot nero, chardonnay, pinot bianco ed erbamat (antico vitigno, dalla spiccata acidità, che dal 2017 è stato inserito nel disciplinare del Franciacorta DOCG) sono piantati su suoli in parte morenici, arricchiti da deposizioni fluvioglaciali. Questa grande eterogeneità, che per una cantina rappresenta un grande potenziale di qualità, viene sfruttato anche in cantina dove, attraverso un minuzioso lavoro di selezione, si arrivano a gestire anche 70\80 vini ovvero frazioni di parcelle che poi andranno successivamente e sapientemente assemblati.


Grazie ad una diretta Instagram e ad una precedente riunione ZOOM col gruppo di Garantito IGP ho potuto recentemente degustare tutta la produzione di Franciacorta DOCG di Barone Pizzini e, di seguito, trovate le mie impressioni gustative:


Barone Pizzini - Franciacorta Extra Brut DOCG “Animante” (tiraggio 04\2018 – sboccatura 03\2020): questo vino, il cui nome è un chiaro riferimento all’anima e lo spirito aziendale, è frutto del blend di chardonnay (84%), pinot nero (12%) e pinot bianco (4%) provenienti da tutti i vigneti dell’azienda. Questo Franciacorta, vero e proprio biglietto da visita di Barone Pizzini, essendo il vino numericamente più prodotto, conferma le attese rivelando profumi di crosta di pane, gelatina di cedro, cenni di frutta secca ed echi minerali. Piacevole la bocca: quasi da manuale il tratto acido-sapido che ben si intreccia con una struttura vibrante dominata da una persistenza di buona lunghezza sapida.


Barone Pizzini – Franciacorta Brut Dosaggio Zero DOCG “Animante L.A.” (tiraggio 04\2014 – sboccatura 03\2020): in questo Franciacorta, blend di di chardonnay (78%), pinot nero (18%) e pinot bianco (4%), l’anima del terroir franciacortino di Barone Pizzini viene esaltato da un lungo affinamento del vino sui lieviti che arriva fino a ben 70 mesi. L’annata mediamente calda si fa sentire donando un olfatto molto intenso e ricco di sfumature che vanno dalla frutta matura fino a quella secca all’interno di un insieme elegante ed integro. Sorso bilanciato nonostante il volume del vino la cui persistenza lievemente salina dona al palato freschezza invogliando al prossimo bicchiere.

Barone Pizzini – Franciacorta Brut Dosaggio Zero DOCG “Animante L.A.” (tiraggio 03\2012 – sboccatura 07\2018): rispetto al precedente c’è un cambio deciso di passo grazie all’annata (2011) molto più fresca ed equilibrata della 2013. Grande finezza aromatica con note di fiori di campo, crosta di pane, agrumi, ananas, mandorla amara fino ad arrivare al miele e al pane all’uva. Complesso e profondo in bocca, sostenuto e slanciato da una lunga sinergia acido-sapida. Ancora giovanissimo. Ad avercene!


Barone Pizzini – Franciacorta Brut Nature “Naturae” 2016: questo Franciacorta (70% chardonnay e 30% pinot nero) nasce parzialmente dal vigneto più alto aziendale, denominato Pian delle Viti, denominato nel Medioevo la Valle Sospesa, e caratterizzato da un terreno prettamente calcareo. Naso molto algido solcato da sensazioni di gelsomino, pompelmo e melissa che riposano su uno sfondo minerale ben delineato. Teso all’assaggio, segnato da vibrante nota salina e un retrolfatto che sottolinea i ritorni di agrumi e fiori di campo.


Barone Pizzini – Franciacorta Satèn 2016: chardonnay in purezza che si fa apprezzare per la sua eleganza, sia nel perlage soffice e sottile, sia nel comparto aromatico dove si sviluppano delicatamente nuance di mandarino, mela annurca, caprofoglio, salvia e pompelmo rosa. Bocca fine, longilinea, di eccellente equilibrio e con un finale dove ritorna la prepotenza agrumata a pulire il palato.


Barone Pizzini - Franciacorta Extra Brut Rosé 2016: questo Franciacorta (70% pinot nero e 30% chardonnay) ha un coinvolgente apparato aromatico ricco di sfumature che richiamano le erbe aromatiche, il ribes, la melagrana, i mirtilli e la macerazione di rosa, il tutto all’interno di un climax di raro appagamento minerale. All’assaggio sorprende per sapidità setosa e vivace acidità, entrambe in grande equilibrio all’interno di una trama strutturata, golosa e dai richiami aromatici di frutta e mineralità rossa.


Barone Pizzini - Franciacorta Dosaggio Zero Riserva DOCG “Bagnadore” 2011: prodotto a partire da chardonnay (60%) e pinot nero (40%) provenienti da un’unica vigna di venti anni (Roccolo di Provaglio d’Iseo), questo Franciacorta rappresenta il top di gamma di Barone Pizzini grazie ad un affinamento sui lieviti di almeno 70 mesi (circa 6 anni) prima della sboccatura. La grande complessità donata dal tempo la possiamo percepire nettamente già al naso dove esplodono i fiori bianchi e i lieviti, la pesca bianca, la mandorla in pasta per poi proseguire su effluvi di torroncino, miele, distillato ed erbe officinali. Il sorso è sontuoso, aristocratico, pieno di decisa sapidità, vivace freschezza grazie anche ad un perlage armonioso ed avvolgente. Finale di notevole persistenza su ricordi di agrumi e variegata mineralità. Un grande Franciacorta senza se e senza ma!

Un vitigno famoso ma non troppo. Poderi dal Nespoli e il suo Rubicone IGT Famoso 2019


di Lorenzo Colombo

Sarà anche “Famoso” di nome, ma per la verità non è che questo vitigno a bacca bianca sia in realtà molto conosciuto e quindi “famoso”. 

Vediamo quindi di conoscerlo meglio.

Nel passato, in Romagna, c’erano due vitigni che venivano chiamati “Famoso”, uno, coltivato principalmente nel Cesenate era abbastanza simile all’Albana, l’atro invece, più diffuso nel Riminese e nel pesarese (quindi anche nel nord delle Marche), era più simile al Trebbiano. Entrambe erano utilizzate principalmente come uve da tavola. Il luogo d’origine del vitigno parrebbe però essere la Toscana, e precisamente la Val di Pesa. La Rambella viene citata dal Marzotto nel 1825 ed in seguito compare in numerosi bollettini ampelografici dell’ottocento. Nella sua relazione sui vitigni romagnoli, il prof. Alessandro Pasqualini, direttore della Regia Stazione Agraria di Forlì, nel 1889 scriveva al proposito del Famoso “Il Famoso di Cesena ha grappolo grande serrato e alato, acini medi rotondi, ricoperti di velo cereo: tralcio a internodi assai lunghi: sembra potersi classificare nel gruppo delle Albane; è dissimile dal Famoso di Pesaro”.


Nell’Ampelografia dei vitigni romagnoli, Antonio Bazzocchi nel 1923 forniva una descrizione dettagliata del vitigno “Vitigno Cesenate di pregio discreto ma pochissimo coltivato. Matura nella seconda decade di settembre. Media delle misurazioni glucometriche: 15,64%. Tralcio robusto, color cannella chiaro, internodi molto lunghi, gemme medie color ruggine. Foglia quinquolobata a dentatura irregolare; pagina superiore verde scuro, inferiore lanugginosa: picciolo breve, sottile e roseo, nervature robuste. Grappolo grande, serrato ed alato: acini medi, rotondi, color verdastro, ricoperti da pruina cerosa: polpa a sapore dolce, vinaccioli in numero di due”.


Più recentemente, siamo infatti nel 1977, il Manzoni va più a ritroso nel tempo e scrive in merito alla Rambella “uva da tavola venduta anticamente fresca sulle piazze. Elencata nella Tabella del Dazio Comunale di Lugo del 1437”.
L’attuale Famoso, che ha come sinonimo principale “Rambella”, ma anche Uva rambella, Valpeisa, Valdoppiese, è stato inserito nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite nel Marzo del 2009 ed è ammesso nella produzione di cinque vini ad Igt dell’Emilia-Romagna. Lo stesso vitigno è attualmente in “osservazione” per quanto riguarda la regione Marche.


Gli ettari vitati, secondo l’ultimo censimento agricolo, che risale al 2010, risultavano essere solamente 6 (sei), anche secondo la più recente pubblicazione dell’Università di Adelaide “Which Winegrape Varieties are Grown Where”, revisione della prima edizione -risalente al 2013-, edita nel 2020 e che prende in considerazione la superficie vitata nel mondo, paese per paese, di oltre 1.700 vitigni, la superficie vitata della Rambella risulta essere di 6 ettari, ma pensiamo che abbiano preso i dati dal famoso censimento del 2010. 



Questi dati però non corrispondono assolutamente a quanto scrive l’enologa Marisa Fontana in occasione della pubblicazione di “Tre vitigni tra tradizione ed innovazione”, editato il 23 marzo 2019 in occasione della Mostra Mo.Me.Vi. (Mostra Meccanizzazione in Viticoltura), tenutasi a Faenza, parrebbe infatti che gli ettari vitati siano molti di più, oltre 70 nel 2018 (vedi grafico). Quest’ultimo dato viene confermato anche dall’articolo pubblicato il 26 luglio del 2020 su Settesere dove si parla di 80 ettari. 
Anche i dati forniti dalla Regione Emilia-Romagna, nella sua pubblicazione “IL FUTURO DELLA VITIVINICOLTURA DELL’EMILIA ROMAGNA TRA CAMBIAMENTI CLIMATICI E INNOVAZIONE” riferiscono di circa 67 ettari, nel 2018. Pare piuttosto strano che in così poco tempo la superficie vitata del Famoso si sia così ampliata, quindi, come ultimo dato forniamo la produzione di barbatelle nel corso degli anni, a partire dalla data di pubblicazione del vitigno nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite ad oggi (vedi tabella).

Ora non ci rimane che andare a degustare il vino, e precisamente il Rubicone IGT Famoso 2019 di Podere dal Nespoli.

Podere dal Nespoli

L’Azienda Poderi dal Nespoli dal 2010 fa parte del Gruppo Mondodelvino, grossa realtà con sede a Priocca, nel Roero, della quale avevamo scritto nel luglio dello scorso anno in occasione della presentazione di Wine Experience, un innovativo Museo didattico dedicato al vino (vedi).


La sua storia però parte da molto lontano, dal 1929, quando Attilio Ravaioli - che una decina d’anni prima aveva aperto l’Osteria Da Tilio- per far fronte alle richieste di vino della casa inizia i lavori di ampliamento della cantina. Antonio e Amleto, figli di Attilio, decidono di cedere la gestione della trattoria e di dedicarsi unicamente alla produzione di vino, per questo motivo acquistano il Podere Prugneto ed iniziano a produrre Sangiovese da uve di proprietà. Si aggiungono poi vigneti di Albana e Trebbiano e nasce la F.lli Ravaioli. 
Negli anni sessanta è Valerio, figlio di Amleto a dare nuovo impulso all’azienda, puntando sul Sangiovese e sul concetti di Cru, nasce il Prugneto, Sangiovese Superiore da singolo vigneto.

Celine

Negli anni ottanta l’azienda viene ampliata e rimodernata ed a guidarla, a Valerio si affianca Fabio, figlio di Antonio, viene inoltre cambiato il nome dell’azienda, che diventa Azienda Agricola Poderi dal Nespoli. Nel 2004 per la prima volta è Celine, figlia di Valerio a fare il vino e a quanto pare molto bene, ne è la prova l’ottenimento nel 2006 del prestigioso riconoscimento dei Tre Bicchieri da parte della Guida Vini d’Italia del Gambero Rosso a “Il Nespoli Sangiovese Riserva”. Siamo infine ai giorni nostri, quando a fine 2009 Poderi dal Nespoli entra a far parte del gruppo MGM, fondato da Alfeo Martini nel 1991, la parte produttiva rimane comunque nelle mai di Celine, quarta generazione della famiglia Ravaioli.

Il vino

I vigneti si trovano nella Valle del Bidente, nel forlivese, i suoli sono limosi ed il sistema d’allevamento è a Guyot, la vinificazione (in bianco) viene effettuata in vasche d’acciaio dove il vino poi s’affina.


Color verdolino scarico. Intenso e fruttato al naso, fresco e pulito, frutta a polpa bianca fresca, mela, pesca bianca, pera, note d’agrumi, pompelmo, leggeri accenni aromatici. Fresco alla bocca, con spiccatissima vena acida, quasi tagliente, sapido, agrumato, lime e pompelmo verde, leggero di corpo, vi ritroviamo la frutta bianca, mela in primis, buona la sua persistenza.

Benvenuto Brunello OFF 2021: il mio report sull'annata 2016 e i vini da acquistare!

Al ritorno da Benvenuto Brunello “OFF” 2021 sono tante le sensazioni e le emozioni che devo cercare di analizzare col giusto distacco e, credetemi, non è per nulla facile sia perché questa edizione sarà ricordata per essere la prima, e speriamo anche ultima, ad essersi svolta in piena emergenza pandemica, sia perché i Brunello in degustazione, annata e selezione 2016, e Riserva 2015, appartengono a due annate osannate soprattutto dalla critica internazionale anche perché eccezionalmente consecutive.


Prima di parlare specificatamente delle annate e dei migliori vini degustati, vorrei anzitutto fare un plauso all’organizzazione di questa manifestazione che si è svolta nel Chiostro del Museo di Montalcino con sessioni aperte sia agli addetti ai lavori sia ai wine lovers per un massimo di 25 ingressi.

Come enoblogger e critico di settore sono stato invitato a partecipare alla sessione del 20 marzo dove i partecipanti, una volta espletati i controlli anti-Covid, sono stati accompagnati a postazioni già assegnate e ben distanziate l’una dall’altra per avere al tempo stesso comfort e massima sicurezza. Altra particolarità di questa edizione “pandemica” è stata la presenza in sala di tanti sommelier AIS dotati di mascherina e visiera facciale che, con grande impegno e professionalità, hanno esaudito ogni mia richiesta di degustazione con estrema precisione e velocità. Un plauso a loro perché lavorare così non è semplice e ci vuole tanta, tanta passione!


Fatti i giusti complimenti al Consorzio del Vino Brunello di Montalcino per la gestione complessiva della manifestazione, e prima di entrare nel merito dei sangiovese degustati, vorrei fare una premessa che ritengo importante: non ho assolutamente provato i Brunello di Montalcino di tutte le aziende presenti, impossibile farlo in un solo giorno, figuriamoci in cinque ore (la mia sessione era dalle 10 alle 15) dove solo i Brunello “annata” 2016, escluse le selezioni e le Riserve 2015, erano oltre 140 campioni. Contento per coloro che sbandierano ai quattro venti di esserci riusciti alla grande ma, per rimanere lucido nelle valutazioni, ho dovuto fare delle scelte preliminari concentrandomi solo ed esclusivamente sui Brunello 2016 annata e selezione\vigna.

2016: una annata a cinque stelle a Montalcino


Se volete capire perché questo millesimo ha preso il massimo dei voti, su Youtube è presente un video di qualche minuto dove tre grandi enologi, Paolo Vagaggini, Carlo Ferrini e Maurizio Castelli, spiegano le caratteristiche di questa vendemmia che in questo caso, per rapidità, cerco di riassumere con le parole di Cecilia Leoneschi, enologa di Castiglion del Bosco:” La vendemmia 2016 è stata caratterizzata da un inverno e una primavera piuttosto miti con temperature minime più elevate della media. Questo ha portato ad un leggero anticipo nel germogliamento e una bella espressione vegetativa delle viti. L’estate è stata fresca e mite rallentando le maturazioni che si sono protratte lente e molto equilibrate. Tannini maturi, ricchezza in colore e buone acidità hanno quindi caratterizzato il Sangiovese di questa eccellente annata. La vendemmia è iniziata con un leggero anticipo ed è terminata però intorno alla metà di ottobre come spesso accade nelle grandi annate. Si registra un ottimo equilibrio nelle maturazioni del Sangiovese, questo dovrebbe portare a vini ricchi ma anche molto eleganti.”

Quelli più bravi di me parlano perciò della 2016 come di una annata finalmente “classica” ovvero caratterizzata dalla mancanza di quegli eccessi climatici (troppo caldo, troppo freddo, troppe piogge) che spesso e volentieri in questi ultimi anni, causa cambiamenti climatici in corso, hanno segnato i profili organolettici del vino nel bicchiere.

Fabrizio Bindocci - Presidente Consorzio Brunello di Montalcino

Se siete arrivati fino a qua nella lettura sarete sicuramente curiosi, almeno lo spero, di sapere finalmente quali sono i vini che mi hanno emozionato di più durante le cinque ore di degustazione del Brunello di Montalcino “OFF” 2021.

Ecco a voi la classica dei migliori 10 vini degustati….più cinque!

Agostina Pieri – Brunello di Montalcino 2016: era la prima azienda in degustazione (numero 1) e come tale poteva soffrire il fatto di poter essere “schiacciata” dai tanti assaggi successivi. Ed invece il Brunello di Agostina Pieri, con vigne a sud situate sotto Castelnuovo dell’Abate, mi e rimasto in testa anche dopo oltre 50 vini. Il suo sangiovese in purezza è l’emblema che la 2016, anche nelle zone meno fresche di Montalcino, ha dato vita a Brunello espressivi, succosi e ben dosati in tutte le componenti strutturali che in questo caso sono cesellate da mano di vignaioli sapienti.

Canalicchio di Sopra - Brunello di Montalcino 2016: da sangiovese proveniente dai due cru aziendali (Canalicchio 40% e Montosli 60%) nasce questo Brunello che durante l’anteprima mi ha sorpreso per il suo impatto aromatico di spezie orientali che per un attimo mi hanno riportato all’interno di un suk di Marrakesh. Poi, col tempo, arrivano sensazioni rarefatte di ciliegia e rosa. In bocca ho riscontrato una intrigante sapidità che ben si amalgama ad un tannino levigato.

Castello Tricerchi – Brunello di Montalcino 2016: gli Squarcia, che da qualche anno hanno ripreso in mano le redini dell’azienda di famiglia, si stanno impegnando tremendamente per cercare di ridare la giusta dimensione qualitativa ai loro vini. Seguo da sempre il loro percorso lavorativo e penso che questa 2016, finalmene, sia pura sublimazione del loro sangiovese da Brunello che è pura commistione tra leggerezza floreale ed eleganza agrumata che in questa annata hanno avuto una impuntatura più profonda e varietale. Sorso pieno, equilibratissimo, di piacevolezza infinita. Vino squisito.

Castello Romitorio – Brunello di Montalcino “Filo di Seta” 2016: per onestà intellettuale devo ammettere che i vini di questa azienda non sono quasi mai stati nelle mie corde, li ho trovati sempre leggermente “eccessivi” per i miei gusti. Pertanto, trovarmi il loro Brunello di Montalcino segnato sul Moleskine come uno dei migliori per me è stata una piacevolissima sorpresa e non poteva essere altrimenti visto che, in particolare, la loro Selezione esplode bel bicchiere con un caleidoscopio di profumi che vanno dalla marasca alla violetta fino ad arrivare agli agrumi freschi e alla macchia mediterranea. Capace all’assaggio di accelerazioni spaventose, delizia soprattutto il finale di bocca con ritorni agrumati e di radici. 

Fattoi – Brunello di Montalcino 2016: non capisco come questa piccola azienda famigliare, che da anni sta producendo Brunello di Montalcino di stile e territorialità impeccabili, sia ancora sottovalutata e fuori da certi radar. Vabbè, ci provo io ancora una volta a consigliarvi il loro Brunello di Montalcino che nel 2016 potrebbe essere preso come campione didattico da mandare a tutte le scuole di vino per far comprendere a a tutti gli appassionati quale sono le caratteristiche non solo del sangiovese toscano ma, soprattutto, del sangiovese di Montalcino prodotto in annate baciate da Bacco come questa. Vibrante, di impatto, giustamente tannico, profondo e con un pizzico di austerità, il Brunello di Montalcino di Fattoi scala tutte le posizioni per espressività.

Il Poggione – Brunello di Montalcino 2016: se nella letteratura mi chiedessero di nominare un grande classico probabilmente citerei la Coscienza di Zeno di Italo Svevo. Stessa cosa per il cinema dove, probabilmente, proporrei Colazione da Tiffany, con la grande Audrey Hepburn, icona di stile ed eleganza senza tempo. Tornando al vino, a Montalcino per me una delle poche aziende che incarna classicità, finezza e sobrietà è Il Poggione che da sempre produce sangiovese viscerale e profondo. Ennesima prova questa 2016 che sa di viola, muschio e di una letterale macedonia di piccoli frutti rossi. Una delizia così come lo è la bocca, elegante, setoso, coinvolgente e dalla grande persistenza floreale e fruttata.

Pietroso – Brunello di Montalcino 2016: non so è se il vino più buono degustato all’Anteprima ma sicuramente è uno di quelli che tutti noi critici abbiamo premiato. Naso classico e didattico su sensazioni di ribes, ciliegia, rosa, radici, sfumature di ruggine e un tocco di erbe balsamiche. Profilo gustativo sicuro, autorevole, ricco eppure coordinato e vibrante. Procede in perfetto equilibrio fino ad un epilogo che lascia senza fiato per purezza fruttata, carisma e incredibile persistenza. Uno tsunami emozionale.

Le Ragnaie – Brunello di Montalcino 2016: se c’è a Montalcino un sangiovese etereo, sospeso tra terra e cielo, questo è quello di Riccardo Campinoti che in attesa di far uscire le sue Selezioni, sorprende ancora una volta con un vino “base” i cui profumi esibiscono un flusso flebile di ribes, buccia di pesca, arancia rossa, fioritura estiva, mirra e terra rossa. Al momento dell’assaggio si è appagati per la pienezza e la misurata struttura. Emerge una acidità dal ricordo di agrume che sostiene una struttura di suprema eleganza e tensione sapida. Finale adamantino, da emozioni violente.

San Lorenzo – Brunello di Montalcino 2016: Luciano Ciolfi, come suo nonno Bramante, è un artigiano del vino a Montalcino per cui conosce ogni centimetro delle sue vigne. In una annata come questa Luciano, col pragmatismo agricolo che possiamo riconoscere solo a chi vive le sue vigne 365 giorni all’anno, 24 ore su 24, ha giocato facile portando in cantina sangiovese di qualità eccelsa così come lo è il suo Brunello 2016 dal bouquet di splendida articolazione aromatica dove ritrovo il pot-pourri di rose e viole che introduce uno sfilare di note di marasca, corteccia, felce, erbe aromatiche, il tutto impreziosito da chiaro-scuri minerali. Sorso disteso ed elegante, compiutamente armonico, in cui l’apparire del tannino, appena aristocratico, prelude ad un finale di nobile trama fruttata, leggermente salina. Non so se è il miglior Brunello “base” prodotto da Ciolfi ma poco ci manca. Chapeau!

Celestino Pecci – Brunello di Montalcino 2016: l’azienda guidata da Tiziana Pecci, sotto lo sguardo di suo papà Celestino, si trova a pochi passi dall’Abbazia di Sant’Antimo. Il loro Brunello di Montalcino lo potrei inserire senza dubbio nella categoria “gioielli nascosti” perché, diciamocelo chiaramente, Pecci è una piccola realtà che ancora in pochi conoscono. Grazie al suggerimento di Carlo Macchi, sangiovesista fino al midollo, ho finalmente apprezzato il loro vino che sa di erbe officinali, terra battuta, violetta, mirtillo con lieve sensazione salmastra sul fondo. Bocca di classe e di magnifica austerità; pieno equilibrio e finale lunghissimo. Un fuoriclasse per adesione territoriale


Altre segnalazioni sparse di grandi Brunello di Montalcino 2016

Tiezzi – Brunello di Montalcino “Vigna Soccorso” 2016: l’assaggio di questo sangiovese in purezza rivela ancora una volta che Vigna Soccorso è, per dirlo alla borgognona, uno dei Grand Cru di Montalcino. Quest’anno sembra leggermente più domato del solito ma non meno profondo.

Poggio di Sotto - Brunello di Montalcino 2016: come sempre il vino prodotto da Claudio Tipa incanta per luminosità e assenza di peso specifico.

Salvioni La Cerbaiola - Brunello di Montalcino 2016: molto classico ma tutt’altro che austero: viola, ciliegia ed eucalipto si intrecciano assieme ad un tocco minerale per un vino dall’assaggio toccante che si scioglie in straordinaria persistenza.

Mastrojanni – Brunello di Montalcino “Vigna Loreto” 2016: leggermente più contratto del solito, rimane un grande sangiovese ricco di sfumature speziate e fruttate. Bocca di impatto, piena, dotata di veemente spinta sapida.

Le Chiuse – Brunello di Montalcino 2016: puro di ciliegia e viola, struggente il sorso con un tannino levigatissimo e una chiusura salina e floreale.


Conclusioni

La 2016 è stata davvero, come ho letto, l’annata del secolo per il vino di Montalcino?

Prima di rispondere partiamo da un presupposto importante: questo millesimo, grazie al suo equilibrio climatico generale, è stato davvero importante per il vino italiano. Ho degustato dei 2016, a partire dal Trentino fino ad arrivare alla Sicilia, davvero emozionanti per cui a Montalcino, dove si respira vino 365 giorni l’anno, bisognava impegnarsi tanto per dar vita a prodotti meno che buoni.

Gli assaggi effettuati durante Brunello Off hanno confermato, almeno dal mio punto di vista, che la qualità media dei vini, in passato magari altalenante a seconda delle diverse zone di produzione, è stata davvero alta tanto che, anche confrontandomi con i giudizi dei colleghi, le valutazioni più basse partivano da almeno 85 punti con una media di oltre 90.

I vini, almeno quelli da me degustati, sono assolutamente espressivi, profondi, capaci, soprattutto le selezioni di vigna, di leggere in maniera minuziosa le sfumature del terroir di riferimento (nord\sud Montalcino, etc..) e ricchi di profumi tipici del grande sangiovese.

Quello che salta all’occhio o, meglio, al palato, è che i Brunello di Montalcino 2016 sono gustativamente lo specchio di questa annata ovvero di grande equilibrio. Già, scordatevi vini dalle durezze sferzanti come, spesso, accadeva negli scorsi anni. Scordatevi, mediamente, i classici Brunello di Montalcino da tenere in cantina per almeno 10 anni prima di poterli degustare al meglio.

No, i Brunello 2016 sono qui per farsi bere e per essere goduti ora. Regalano emozioni immediate per cui non mi sorprendono gli altissimi voti della stampa anglosassone perché, in questo millesimo, il Brunello di Montalcino è diventato un vino di respiro internazionale rimanendo però, fortunatamente, ben ancorato al DNA del suo unico pilastro chiamato sangiovese.

La domanda che mi faccio e che vi faccio è la seguente: se il Brunello di Montalcino, oggi, è un vino godibile fin da subito, ready to drink come direbbero gli americani, la 2016 è davvero una delle più grandi annate mai viste nel territorio?

La risposta è abbastanza semplice: se la qualità totale di una annata si valuta anche in base alla sua longevità, io non scommetterei molto sulla enorme gittata temporale di questo millesimo visto che gran parte di questi sangiovese avevano come unica pecca la mancanza di una vigorosa spina dorsale acida, leggasi freschezza, tale da preservarli per molto tempo. In tal caso la 2001 o la 2006 probabilmente sono le ultime annate da invecchiamento del Brunello di Montalcino (vero Macchi?). Se invece non vogliamo lasciare a nostro nipote l’onore di bere un grande sangiovese di Montalcino, allora la 2016 probabilmente è l’annata ideale che ci darà sicuramente emozioni da adesso e per almeno i prossimi 10 anni.