Pomona - Chianti Classico 2017

di Stefano Tesi

Ecco un vino che, anche in un’annata calda e siccitosa, sa mantere il nerbo vibrante e spigliato della sua produttrice, Monica Raspi, vignaiola in quel di Castellina: un naso vivo e quasi croccante, una bocca corposa ma agile ed elegante, con un finale godibile e finissimo. 


Da bere con levità e attenzione

Il Pecorino dei Fratelli Farina è un grande formaggio delle Crete Senesi

di Stefano Tesi

Non c’è nulla di meglio, per esprimere un giudizio equanime, che approcciarsi a qualcosa verso cui non hai particolari aspettative né pregiudizi. Qualcosa che, in altre parole, ti aspetti “normale”. E’ in questo modo che giorni orsono mi sono avvicinato a un formaggio che avevo in dispensa da qualche settimana. Chi lo aveva assaggiato mi aveva detto che sì, era un ottimo formaggio, ma nulla di più però: un pecorino delle Crete Senesi arricchito con chicchi di pepe interi. 


Così, preso da un certo languorino, sono andato a frugare tra gli scaffali e ho trovato questa mezza forma. Formato massiccio, scalco alto, colore della buccia grigio-ambrato. Ottima premessa. Prendo il coltello e affetto.  Bellissima sezione compatta, di un giallo paglierino rotto qual e là dal nero dei grossi chicchi di pepe. Alveolatura ridotta e concentrata nella parte interna, buccia sottilissima.  Al tatto la fetta è dura, consistente, con un accenno di friabilità dettato dalla stagionatura che – ricostruisco – a questo punto dovrebbe essere di circa cinque mesi.  Subito si leva un profumo intenso e fragrante, penetrante, acuto, che racchiude l’aroma del pepe e quello delle erbe di campo, dei fiori secchi, di certi arbusti e del latte di pecora.

La sensazione olfattiva generale è quella di un prodotto che sta vivendo il massimo della sua evoluzione. Ingolosito, proseguo. Taglio tutto a losanghe e assaggio: la friabilità appena denunciata all’occhio e già più avvertibile al taglio si riconferma al morso, con l’elasticità del boccone resa più fragile e gentile dalla granulosità dell’incipiente scagliatura. In sostanza una tattilità perfetta. 


In bocca il sapore è pungente, netto e pulito, ma complesso e cangiante. E durante la masticazione si apre in un melange di piccantezze da pepe e da stagionatura, con ritorni retronasali a ondate di erbe, di pascolo e di campagna. Sentori che, con compiaciuta sorpresa, riconosco come familiari. 

E’ buonissimo, altro che storie! 

Un formaggio importante, quasi solenne ed eppure anche gastronomico, che invita al riassaggio e non satura certamente al primo boccone: si fa mangiare, ti chiama, soddisfa.  Io ci ho bevuto mezza bottiglia di Morellino di Scansano, con quel poco di ruvidezza perfetta per sposarsi col gusto scabro e verticale del formaggio. In sintesi: farne scorta, metterlo a maturare in cella frigo (o in cantina, alla faccia dell’Asl, se è una casa privata), curandolo ogni tanto con olio e cenere e ricordandosi che, portatolo in tavola, è difficile che duri.  Difficile spendere meglio 18 euro per un kg di formaggio 

Il problema casomai è procurarselo: lo fanno nel loro caseificio nel mezzo alle Crete, tra Asciano e San Giovanni d’Asso, in minuscole quantità, i fratelli Farina, sardi “intoscanati” di terza generazione, che lo vendono in un minuscolo food truck agricolo (ora va di moda chiamarli così, ma io la chiamerei miniroulotte) piazzato in mezzo all’aia-aia del podere di famiglia. 


Ed ecco, dalla viva voce di una delle titolari, la testimonianza di come il formaggio nasce, raccolta da un incuriosito giornalista-consumatore. 

ST: ma come nasce questo formaggio? 

Alessia Farina: semplicemente mettendoci i chicchi di pepe dentro. E’ un formaggio che ha un successo strapitoso anche senza pepe. Non perchè siamo bravi, ma perché è eccezionale la materia prima. 

ST: ma il formaggio come si chiama? 

Alessia Farina: semicotto, dal di lavorazione. E’ quella tradizionale di casa nostra. Un casaro specializzato ha ascoltato la spiegazione del mi’ babbo e l’ha adattato a una macchina ultramoderna. 

ST: e come funziona? 

Alessia Farina: si caglia il latte a 40 gradi e poi, mentre si taglia la cagliata molto fina, si riscalda tutto fino a 46. Fatto il formaggio, lo si mette a stagionare in cella. Mio nonno in Sardegna aveva anche le vacche e lo faceva misto. Diceva: “la cagliata va riscaldata fino a quando ci riesci a tenere le mani”. E’ stato ganzissimo scoprire sul display della macchina che le mani ci si tenevano esattamente fino a 46 gradi! Poi sulla paiola di rame formavano una specie di grosso cilindro che tagliavano secondo la misura delle fuscelle. Noi con la caldaia elettrica e il controllo dei parametri riusciamo a fare un buon prodotto con molta più facilità. Comunque il formaggio va strizzato molto e, se vogliamo dargli un po’ di piccantezza, lasciamo dentro un pochino di siero che, fermentando, forma dei piccolissimi buchi. Con la misurazione del ph sappiamo esattamente fino a quando dobbiamo stringere le forme, perché l’acidità è una buona indicazione di quanto siero sia rimasto all’interno. 


ST: quindi? 

Alessia Farina: si tiene una notte in frigo e poi in salamoia. Mio babbo dice: “la salamoia è pronta, cioè l’acqua ha la giusta quantità di sale, quando se ci butti un uovo galleggia”. Noi ovviamente usiamo un densimetro. Terminata la salamoia in base al peso delle forme, le asciughiamo e le ungiamo con extravergine e cenere di legna di quercia.

Podere Conca: a Bolgheri c'è una bella novità!

L’areale di Bolgheri è sicuramente una delle zone dove negli ultimi tempi si è investito moltissimo e la nascita di nuove realtà vitivinicole non è ormai una novità. Una delle ultime arrivate è sicuramente Podere Conca, azienda nata nel 2015 grazie alla determinazione di Silvia Cirri (primario del servizio di Anestesia, Rianimazione e Terapia Intensiva dell’Istituto Clinico Sant’Ambrogio del Gruppo San Donato di Milano) che dopo aver frequentato i corsi AIS Milano, ha voluto investire nella sua passione per il vino andando ad affiancare alla produzione dell’olio Bio, che da anni viene prodotto a Podere Conca, la proprietà di famiglia, anche quella del vino. Nell’avventura viene affiancata anche dall’amico Livio Aloisi, esperto e appassionato di agricoltura biologica.

Silvia Cirri

Fin dall’inizio Silvia ha un’idea precisa della tipologia dei vini che vuole produrre: ha una passione per il ciliegiolo e, appoggiata nella sua scelta anche dall’enologa Laura Zuddas, decide di accostarlo a cabernet franc e cabernet sauvignon per il rosso Agapanto Bolgheri DOC: un blend a cui vengono riconosciuti carattere e originalità. Per il bianco, Elleboro, si preferisce al vermentino, tipico del territorio, l’uso di uve internazionali quali il viognier, lo chardonnay e il sauvignon blanc, da poco entrati di diritto nel disciplinare Bolgheri DOC.


Nei primi anni Podere Conca decide di selezionare per i suoi blend le uve di piccoli viticoltori della zona, attentamente seguiti nella produzione dall’agronomo Paolo Granchi, e di vinificare presso la cantina di un produttore Bolgherese.
  Questa scelta ha permesso di sperimentare i blend nell’attesa che i vigneti raggiungessero la piena produzione. Oggi l’agronoma Linda Franceschi, sorveglia con un attento e competente lavoro quotidiano i 5,8 ettari di proprietà suddivisi in due terreni: 0,2 ettari tra le file degli ulivi che crescono intorno al Podere dove si coltiva il cabernet franc che sarà riservato al nuovo vino previsto per il 2021 e 5,6 ettari in località Ferruggini Sant’Uberto a un paio di chilometri di distanza in direzione del mare. Inoltre dalla vendemmia 2020 le uve, di produzione aziendale saranno vinificate e affinate nella nuova cantina di proprietà che sorge sulla via provinciale che collega Donoratico a Castagneto Carducci. 



In cantina si è scelto di privilegiare gli investimenti per la tecnologia, i contenitori in acciaio e cemento, le barriques in rovere, e, non ultimo, per la sicurezza, piuttosto che investimenti rivolti più all’estetica e al design.



Sono passato a trovare Silvia Cirri tornando dalle mie vacanze estive in Liguria, la Via Aurelia passa proprio parallela all’azienda bolgherese e non mi sono fatto sfuggire l’occasione di conoscere la vulcanica proprietaria che una mattina di estate mi ha organizzato una bellissima doppia mini verticale dei suoi due vini: Elleboro ed Agrapanto nelle annate 2017 e 2018. 

Podere Conca - Elleboro 2019: grande vivacità aromatica per questo bianco bolgherese dove il tocco graffiante e fruttato del sauvignon blanc viene ben modulato dall’uso di viognier e chardonnay che donano complessità ed un tocco di eleganza ad un vino che, in loro assenza, scalcerebbe in maniera sovrabbondante. Al sorso è teso, vigoroso, mediterraneo e di grande persistenza sapida. Buono oggi ma tra un paio di anni darà il meglio di sé stesso. Con la cucina di mare si abbina favolosamente.


Podere Conca - Elleboro 2017
: su posizioni nettamente diverse rispetto al precedente sia dal punto di vista aromatico che gustativo. Infatti questo bianco gioca una partita, di qualità, su toni leggermente meno marcati, ha un carattere austero, rigoroso, la complessità olfattiva sembra definita su toni più minerali che fruttati e anche al sorso tende ad essere meno invasivo facendosi apprezzare per compostezza e godibilità. Un vino assolutamente meno gridato del precedente che, in certi casi, richiama uno charme più francese che italiano.


Podere Conca - Agrapanto 2018
: come accaduto per il bianco pari annata, anche questo rosso bolgherese è assolutamente dirompente al naso dove si denota una componente fruttata assai compatta in cui l’amarena sotto spirito, la frutta nera di rovo e la prugna della California la fanno da padroni. Col tempo è la giusta ossigenazione arrivano anche i sentori di fiori passiti e spezie dolci. Calda e di grande rigore la struttura gustativa dove la trama tannica, vibrante, è ben calibrata ed integrata da una vena acido-sapida. Lungo e fruttato il finale.


Podere Conca - Agrapanto 2017
: a tre anni dalla vendemmia si inizia a capire la stoffa di questo blend bolgherese che, iniziando a perdere le sgrammaticature giovanili, comincia a mettere su complessità ed eleganza che vedranno la loro massima espressione sicuramente tra un paio di lustri. Ad oggi questa 2017 mi piace molto di più dell’annata precedente, ha un ritmo olfattivo più rigoroso, sinuoso, con chiare percezioni di ciliegia ancora croccante, spezie anche piccanti, chiodi di garofano, tabacco, rabarbaro, timo e soffi minerali rossi. In bocca mostra un buon equilibrio, ravvivato da un tannino deciso e fitto ma ben fuso nella struttura. Finale accattivante con chiari richiami aromatici.



Marisa Cuomo - Costa d'Amalfi “Fiorduva” 2018

Un bianco nazionale che nasce sui terrazzamenti strappati alla roccia della Costiera Amalfitana. 


A due anni dalla vendemmia ancora giovane ma 
già ricco al naso e appagante al palato, finale travolgente, iodato. In attesa di una sua promessa evoluzione.

Di Cantine Astroni e di come evolve il loro grande Piedirosso

di Luciano Pignataro

Quanto vive il Piedirosso?  Dopo venti anni di degustazione prove, protocolli in acciaio, in legno piccolo e grande, cemento e compagnia cantando, si può ragionevolmente affermare che dal punto di vista del consumatore questo vino può essere stappato subito per godere i suoi generosi respiri floreali oppure lasciarlo maturare mediamente tra due ai tre anni, in ogni caso non più di cinque. Si tratta di una regola generale e come ogni regola, soprattutto nel vino, può avere le sue eccezioni, ma per arrivare a queste conclusioni dobbiamo anzitutto dire cosa è il Piedirosso.

Grappolo di piedirosso

Si tratta di un vino ottenuto da uve omonime allevate prevalentemente in provincia di Napoli, entra di forza nella doc Lacryma Christi, è l'unica cultivar della Campi Flegrei doc, importante nella Penisola Sorrentina doc (nel Gragnano) e in Ischia doc. E' un uva antichissima, tipica della Campania (non si trova fuori dalla regione come invece accade per l'altro rosso campano, l'Aglianico, presente in Basilicata, Molise, Puglia e Calabria) che ama il suolo vulcanico e il caldo. Viene coltivato, con poca convinzione ma con ottimi risultati, anche nel Sannio e in minima parte nel Salernitano.


Il Piedirosso rappresenta il carattere del proprio territorio, è un vino allegro, beverino, dai tempi brevi, non impegnativo dal punto di vista gustativo, che ben si adatta a gran parte della cucina partenopea, è il vino della costa campana sostanzialmente. Ha tannini poco pronunciati, e questo lo rende immediatamente bevibile oltre che usato per tagliare l'Aglianico, vino dai tempi lunghi per eccessi di acidità e presenza in esubero di tannini.


Il Piedirosso è un vino difficile in vigna perché poco prolifico, anche se questo ormai è diventato un pregio e non un difetto nella viticultura moderna. Ma è difficile anche in cantina dove solo da una ventina d'anni, appunto, si sono centrati i protocolli giusti per evitare gli eterni sentori di ridotto e di poca pulizia olfattiva e gustativa che lo hanno segnato per un lungo passato. Ogni vino deve fare la sua parte, un po' come le auto: meglio una Smart di una Ferrari sul Grande Raccordo Anulare o nelle strade delle città. La strada che ha puntato a farne un vino in stile anni '90, con legno piccolo e surmaturazioni in vigna, non ha dato grandi risultati perchè alla lunga ci si è fermati proprio di fronte alla caducità di questo vino e al suo crollo immediato in bottiglie dimenticate per qualche tempo e rovinosamente stappate poi tra la delusione generale. Insomma, il risultato è lo stesso quando si vogliono fare vini pronti con forzature enologiche di uva che regalano bottiglie strutturate come l'Aglianico. Venti anni di degustazione hanno fissato una volta per tute il concetto che l'Aglianico giovane e il Piedirosso invecchiato sono due ossimori.


Sono queste le considerazioni che si sono fatte al termine di una verticale a Cantine Astroni, la bella azienda dei Campi Flegrei protagonista della riscossa di questo vitigno insieme ad una bella pattuglia di giovani vignaioli. Una cavalcata iniziata nel 2007 e proseguita sino alla 2019 nella quale si è potuto vedere questa continua progressione qualitativa.

Ma il colpo finale a sorpresa sono state le due bottiglie prodotte quando l'azienda si chiamava ancora Varchetta datate 2003 e 1999

Famiglia Varchetta 1940

Questo il cognome di una delle famiglie di vinificatori che sin dall'800 circondavano Napoli in una sorta di tangenziale del vino che partiva dai Campi Flegrei con i Martusciello e proseguiva con Varchetta a Napoli, De Falco a San Sebastiano al Vesuvio, Russo a Terzigno, Scala a Portici. Un'altra era geologica che termina grosso modo con la crisi del metanolo del 1986 che costringe tutti ad un ripensamento globale in Italia e che trasforma alcuni vinificatori in produttori. La storia di Varchetta è proprio questa, con le nuove generazioni, prima Gerardo Vernazzaro e poi Vincenzo Varchetta a studiare Enologia e a fare esperienze in giro. Ecco perchè è affascinante bere queste vecchie bottiglie, figli di un'epoca di transizione, che all'epoca costavano circa quattro mila lire diventate poi quattro-cinque euro.

Gerardo Vernazzano e le sue bottiglie

Quando passa tanto tempo si finisce a parlare delle annate più che delle bottiglie. Due annate particolari perchè la 2003, ricorderete, è stata la prima annata tropicale che abbiamo vissuto in Italia con un caldo estenuante e lungo e temperature pazzesche. Annata che però per le varietà tardive alla lunga sono state molto generose. In questo caso il Piedirosso ha sicuramente retto bene alla prova del tempo presentandosi scarnificato ma con una buona acidità che lo teneva in piedi e una nota fumè, di gomma bruciata, che aveva completamente offuscato i sentori di frutta e di geranio tipici del vitigno.


La 1999 è annata particolare per la sua perfezione, potremmo dire l'ultima vera grande annata per gran parte del vino italiano che dopo non ha avuto eguali in vigneto. In questo caso il vino è apparso sicuramente più tonico, fine, con spunto di frutta rossa sotto spirito e una verve al palato decisa ed intrigante.

Si tratta della prima annata che ha visto l'ingresso in azienda di Gerardo Vernazzaro e da allora veramente si sono fatti grandi passi in avanti nella conoscenza del comportamento di questo vitigno apparentemente allegro e gioioso ma in realtà difficile e complicato per chi lo lavora.


Dunque, per rispondere alla domanda iniziale, quanto viva il Piedirosso? Molto a lungo, almeno vent'anni. Ma è meglio berlo non oltre il quinto anno dalla vendemmia.

Nasce Enosearcher, il più grande aggregatore di offerte di vino in Italia!!!

A volte i progetti migliori vedono la luce nei momenti più difficili: è nato Enosearcher, il primo portale italiano che aggrega le offerte di vini in vendita online e propone all’utente una scelta accurata e su misura. L’idea ha preso vita e sostanza durante il lungo lockdown che ha duramente colpito tutta la popolazione italiana e mondiale in questo complesso 2020, dal sogno al piano, dalla visione al progetto: supportare il paese nella vendita di una delle sue maggiori eccellenze. 

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A realizzarlo è stata la software house di Busto Arsizio SDV, software development vault s.r.l., azienda che dal 1999 si occupa di sviluppo web in modo attivo comprendendo le esigenze dei clienti e del mercato anche prima del tempo, come dimostrano i loro primi progetti pubblicati nel 2000 e tuttora on line. Stavolta SDV ha voluto sviluppare un software che fosse in grado di ricercare in rete tutti i dati e le informazioni necessarie per identificare le migliori offerte on line del settore vinicolo e proporle all’utente in modo ordinato in base a una serie di parametri stabiliti al momento dello screening. 

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L’utente, quindi, è chiamato ad effettuare una ricerca su Enosearcher: per ogni query il sistema, e perciò il portale, mostra tutte le offerte presenti in rete e le aggrega sotto la stessa bottiglia, a dimostrazione di una usabilità semplice e alla portata di tutti. Il servizio offerto da Enosearcher è completamente gratuito e privo di pubblicità, la sua struttura rende l’utilizzo agevole e intuitiva e, soprattutto, il portale è assolutamente unico nel panorama italiano. La software house SDV è riuscita nell’intento di realizzare un prodotto facilmente fruibile partendo da un’idea complessa: per la raccolta, il raggruppamento e l’analisi dei dati sono serviti tempo e alte capacità tecniche che si possono dimostrare parlando di 144.997 pagine web analizzate, 127 differenti shop online e 157.175 differenti offerte estratte. La tecnologia di estrazione, di esposizione e di raggruppamento dei vini è proprietaria di SDV. 

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Oggi Enosearcher propone vini di quasi tutte le denominazioni di origine italiane più, per quanto riguarda l'estero, offerte sullo Champagne con l'intento, per il futuro, di inserire altre tipologie di vino in modo da accontentare i palati di tutti i wine lovers. 

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Non solo Enosearcher è il più grande aggregatore di offerte di vino in Italia, ma è in fase di realizzazione la traduzione in inglese per rendere il sito visibile e usabile anche in tutta Europa. 

Che aspettate e a fare un giro sul sito?


Per maggiori informazioni: SDV, software development vault s.r.l. Via Gavinana 19, 21052 - Busto Arsizio (VA) https://www.softwaredevelopmentvault.com/ info@softwaredevelopmentvault.com +39 0331 1587905

Bruno Clair - Marsannay Les Vaudenelles 2013


di Carlo Macchi

Bruno Clair, "marchio" borgognone che tutti conoscono. Vaudenelles è uno dei vini d’ingresso al loro quasi sterminato numero di etichette . 


Da una parcella di 1.3 ettari, piantata tra il 1969 e il 1976. Ritroso all’inizio si apre con note anche sanguigne, particolari: la bocca è un velluto, ma in guanto di ferro.

Dal 1930 al 2017. La verticale storica del Carmignano DOCG "Villa di Capezzana" è una pezzo di storia italiana!


di Carlo Macchi

Sembrava di un’altra epoca e lo era. Del resto tra il 1930 e il 1969, il 1974 o il 1977 ci son come minimo quasi quarant’anni e il vino il quel bicchiere, almeno dal colore, sembrava fuori posto. Come se io entrassi in una discoteca piena di ventenni.

E poi il 1977 (“solo” 47 anni di differenza) non era certo il vino più giovane. A sua volta per lui erano bambini il 1995, il 1998, per non parlare del 2006, 2010, 2016, 2017. Forse il 1977 si poteva “intendere” con i quasi coetanei 1981 o 1988 ma da una degustazione che spazia per 90 anni della nostra storia non puoi aspettarti che i vini parlino la stessa lingua e si capiscano (o si facciano capire) al volo.

Così quando da quei 12 bicchieri di Villa di Capezzana più che profumi hanno cominciato ad uscire voci mi sono messo ad ascoltarle rapito.

1930: “Scusate giovane, ma quel 1969 che è scritto lì, a cosa si riferisce?

1969: “A cosa vuole che si riferisca, all’anno in cui sono nato! A proposito, se quel

1930 è il suo anno di nascita lei è parecchio vecchio!”

2017: “Perché sarai giovane te! Nel 1969 la mi’ nonna era per strada a Parigi e gridava a squarciagola - C'est ne qu'un début, continuons le combat- tanto per farti capire.”

1930: ”Le barricate a Parigi? Me lo immaginavo! Quelli del Fronte Popolare sono sempre stati pronti a creare problemi. In Italia con il Duce queste cose non possono succedere!”

1988: “Il Duce? Sveglia nonno! Il fascismo è morto e sepolto da più di 40 anni e oggi l’Italia è una Repubblica.”

1930: “Una Repubblica? Davvero?

1974: “Ma dove avete vissuto fino a ora? La guerra e il fascismo sono finiti da quasi vent’anni e e ormai siamo un paese industrializzato.”

2010: “Industrializzato e internazionalizzato pure troppo, la crisi economica mondiale dell’anno scorso c’ha messo in braghe di tela.”

1981: “Ma di che crisi stai parlando? Anche se l’inflazione è quasi al 20% con Spadolini Presidente del Consiglio e soprattutto con Pertini Presidente della Repubblica non siamo messi male.

2006: “ Pertini? Quello del mondiale del 1982? Ma chi se lo ricorda più! E poi dopo il culo che abbiamo fatto a tutti quest’anno in Germania…Po popo popopo po 

1930: “Cosa? Abbiamo sconfitto la Germania? Lo sapevo! Quella Repubblica di Weimar faceva acqua da tutte le parti”

2016: “Nonno, ma di cosa parli! A parte che tra vini parlare d’acqua non è educato, ma basta andare 10 minuti su internet per capire cosa è successo in questi anni.”

1930: “Al tempo giovane! intanto mi dia del Voi e poi dove dovrei andare a vedere? Dov’è questo Internè, in Francia?”


Scusate se ho volato con la fantasia ma ho pensato che il modo migliore per capire come affrontare una verticale che copre un periodo temporale immenso sia provare, almeno un minimo, ad identificarsi con ogni periodo toccato, con ogni epoca (termine non scelto a caso) dove, anche se si parlava la stessa lingua, si hanno parametri sociali e riferimenti storici diversi. Anche nel vino è così, perché se è chiaro che un vino del 1930 non può essere stato fatto come uno del 2017 è forse meno chiaro ma non meno vero che tra un 1969 e un 1981 c’è un abisso enologico, altrettanto tra un 1988 e 2006 e forse il compito più difficile per un degustatore è quello di essere il “pontefice” della verticale.

La famiglia Contini Bonacossi

Non il papa ma il pontefice, termine di derivazione latina e che vuol praticamente dire “facitore di ponti”. In questo caso i ponti da creare sono storico-enologici e servono per capire e far capire come sia cambiato e perché il modo di fare il vino negli ultimi 90 anni, a Capezzana, a Carmignano e non solo. Quindi questa degustazione, organizzata in maniera ineccepibile dalla famiglia Contini Bonacossi, oltre ad avermi fatto degustare vini indimenticabili (del 1930 dirò alla fine… ve lo dovete meritare!) mi ha anche conferito l’onere e l’onore di cercare di presentare a volo d’uccello i grandi cambiamenti enoici avvenuti in questi 90 anni.

Partiamo da oggi, con Villa di Capezzana che potremmo definire muscolari se non fossimo, appunto, a Capezzana, dove storicamente Sangiovese e Cabernet Sauvignon convivono 2017, 2016, 2010, 2006 hanno lo stesso uvaggio (80% sangiovese, 20% cabernet sauvignon) ma soprattutto li accomuna un periodo di “riscaldamento globale” che li porta tutti a parametri analitici praticamente identici, con gradazioni alcoliche sui 14.5°, Ph prossimi a 3.50 e acidità totali vicinissime a 5.50.

Se sono così simili cosa li differenzia allora? Prima di tutto la mano dell’uomo e poi l’andamento vendemmiale che in alcuni casi non ha avuto bisogno di “frenate”, mentre in altre, vedi 2017, ha visto interventi mirati (non solo vendemmie anticipate ma gestione della chioma, diradamenti etc.) per evitare di fare vini troppo rotondi e poco freschi. Tutti infatti hanno estratto secco prossimo a 33 g/l (il 1930 ha 24 g/l…) con delle corpulente batterie di tannini, sempre più rotondi e armonici mentre si viene avanti con gli anni. Per esempio, la 2006 l’ho definita “dinamica con tannini importanti ma distesi e quasi pungenti” mentre la 2017 è “corposa, con grande concentrazione di tannini dolci e rotondi.”


Se proviamo ad andare qualche anno indietro nel tempo, arrivando al 1995 e al 1998, dal punto di vista analitico notiamo una diminuzione del grado alcolico di quasi un punto e mezzo e infatti la prima annata ufficialmente calda è targata anni 2000. Negli ultimi anni del millennio (e poi per almeno altri 5-6 anni) erano di moda vini molto estratti e concentrati e, specie in Toscana, lo stile “Supertuscan” portava a prodotti dove il legno accompagnava spesso vini figli di una grande estrazione, con tannini grossi come cavalli, acidità relegate in cantina e notevole “mangiabilità”. 

Per fortuna Capezzana ha sempre avuto il suo stile, che per definizione è l’opposto della moda, e questi due vini, un 1995 molto dinamico e un 1998 setoso ma deciso al palato, ne sono la dimostrazione mostrando (anche analiticamente) una freschezza notevole. Si incomincia a capire che lo stile Capezzana è basato sull’equilibrio e sull’eleganza, uniche armi che possono garantire una vita lunghissima al vino. Dal punto di vista dei profumi si notano ancora bei sentori di frutta ma affiancati da china, cuoio, liquirizia e qualche bella punta di cassis. Li ho definiti vini “educati” se confrontati a tanti che in quegli anni colpivano solo per rozza potenza. Non per niente Capezzana era difficilmente premiata dalle guide vini di allora, proprio perché i modelli erano altri. Questo non ha fatto mai spostare il tiro alla famiglia Contini Bonaccossi, dove allora il Conte Ugo era ancora il patriarca incontrastato.

Le 12 bottiglie

Bastano pochi anni indietro per domandarsi, come nella canzone di Raf (chi se la ricorda?), cosa è restato di quegli anni ‘80. Lo capiamo dal 1988 e dal 1981, figli della prima vera internazionalizzazione del vino italiano e toscano in particolare. In quegli anni il mondo si rese conto che anche da noi si facevano grandi vini, anche se spesso grazie a annate toccate dalla grazia di dio, come la 1988 che, dal punto di vista agronomico e enologico, è sicuramente molto più vicina non solo alla 1981 ma alla 1977 e alla 1974 che non alle vendemmie degli anni ’90, dove si parlava di concetti allora inesistenti, come diradamenti in vigna e controlli di temperatura in cantina. La 1988, anche se la bottiglia non era al top, ha mostrato appunto quella perfezione che solo poche annate possono avere. In bocca, mi ripeto, rasentava la perfezione con seta al posto dei tannini e tutte le cose al loro posto. Un sogno di vino (scusate il gioco di parole) che si è potuto mantenere così grazie appunto allo Stile Capezzana che, anche senza le moderne tecnologie, prediligeva vini dove il sangiovese, il cabernet sauvignon e il canaiolo (che è stato tolto a partire dal 1998) portavano allora a vini magari un po’ ruvidi nei primi anni ma sempre equilibrati. Con il 1988 si cominciano a sentire aromi che non solo vanno su note speziate (menta, liquirizia) ma puntato a sentori terrosi, fungo e tartufo soprattutto. Il 1981 mette subito in campo un’acidità importante e netta (una delle gambe del vino, si diceva un tempo) che, con una gradazione sotto ai 13°lo rende freschissimo, ma sempre armonico e sapido. Il naso è cangiante e addirittura dal tartufo iniziale punta verso nota di frutta matura e floreali, con sambuco e lavanda in primo piano. Un vino di una vendemmia non certo eccezionale ma che ha trovato in una certa “leggerezza iniziale” la strada per maturare alla perfezione.

I bicchieri

Arriviamo agli anni ’70, che ci portano in quella che potremmo definire la “preistoria” dell’attuale vino toscano. Annate più fredde, rese più alte, maturazioni più lunghe (quando la maturazione c’era) portavano a vini sicuramente (usando un parametro odierno) più diluiti, dove l’acidità marcava il vino e il tannino non aveva certo la rotondità di un vino moderno. Una viticoltura che sembra lontana anni luce (non era finita da molto la mezzadria!) anche se stiamo parlando di nemmeno 50 anni fa. 1977 e 1974 sono figli di questo periodo ma ne escono alla grande.

Invece ne esce alla grandissima il 1969, che accomuno ai due precedenti come periodo e che è stato il vino che mi ha più sorpreso, addirittura più del 1930. E’ stata la prima annata della DOC Carmignano e porta altissimo il blasone della denominazione grazie a una incredibile potenza e freschezza al palato, a una profondità gustativa immensa e una dinamicità scorbutica ma comunque armonica che mi hanno lasciato di stucco. Un vino da cui imparare e sicuramente a Capezzana l’hanno fatto.


Arriviamo al 1930 con un salto temporale che impressiona. In quell’anno, tanto per dirvi, si sposò la figlia di Mussolini con Galeazzo Ciano e il partito Nazionalsocialista di Hitler ottiene un’importante vittoria alle elezioni tedesche. Quel 1930 che mi guarda con tono fintamente dimesso dal bicchiere non è un vino ma un libro di storia! Pare che venne fatto da Alessandro Contini Bonaccossi, nonno del Conte Ugo, con l’aiuto di un esperto di agronomia che aveva un cognome molto particolare: Gattamorta. Un vino che è stato “sepolto vino” per evitare che gli invasori tedeschi lo trovassero, un vino che, anche se non lo faccio spesso, devo descrivere attentamente. Aranciato leggero, anzi ambrato ma ancora abbastanza brillante, anche se il colore è un po’ diluito. Al naso una sensazione tostata e poi più chiaramente un incredibile profumo di croccante alle mandorle seguito dal profumo di nocciole, di erbe officinali e fiori. Un’acidità netta e quasi metallica che sembra rimbalzare sui denti porta a sapidità e a un corpo leggero ma per niente arrendevole.


Chiudo questo libro di storia con il rimpianto di non poterlo aprire più, ma poi penso che forse, in futuro, la famiglia Contini Bonaccossi mi inviterà per stappare un’altra bottiglia del centinaio (centinaio!) che hanno ancora in cantina.

Finisco con tre ringraziamenti: alla famiglia Contini Bonaccossi per essere da anni un esempio di come produrre grandi vini, a Franco Bernabei (enologo della cantina e caro amico) per avere analizzato tutti i vini così da averci fornito informazioni importantissime per capirli e infine ai vini che ho degustato, dodici lezioni su cosa di bello può riservarti la vita e la vite.

Castello La Leccia, tutto il bello del Chianti Classico!

Ci sono posti incantanti nel Chianti Classico, uno di questi è sicuramente il Castello La Leccia, un gioiello di rara eleganza e storicità (la costruzione risale al 1077) situato a Castellina in Chianti (Località La Leccia). 


Oltre ad essere un lussuoso agriturismo di charme, Castello La Leccia è anche una affermata azienda agricola che si estende per centosettanta ettari, dei quali: quindici ettari vitati e dieci ettari di olivete biologiche (dove si coltivano, secondo la tradizione toscana, piante di Leccino, Moraiolo e Correggiolo), tra boschi di lecci secolari.

Da un punto di vista prettamente vitivinicolo, all’interno dei vigneti aziendali, tutti esposti a sud e sud-ovest e gestiti secondo i principi dell’agricoltura biologica (certificazione 2013), si coltivano per ora solo ed esclusivamente uve a bacca rossa come sangiovese, malvasia nera e syrah la cui difesa fitosanitaria è ridotta al minimo attraverso il solo uso di rame e zolfo. Il giusto apporto di sostanze organiche al terreno è assicurato in modo naturale: tra i filari crescono orzo, trifoglio e senape, ed il compost è ricavato dalle vinacce e dai raspi.


In questa zona il suolo è povero, ricco di scheletro e costituito da roccia calcarea e galestro, uno scisto argilloso che si sfalda facilmente e che, in presenza di acqua, si scioglie cedendo al terreno microelementi particolarmente preziosi per la pianta. Questo tipo di roccia ha un’azione modulatrice sul grado di umidità, possiede caratteristiche drenanti, ma in momenti di stress idrico è in grado di trattenere un certo livello di umidità grazie alle sue inclusioni argillose.


Le uve vengono vendemmiate e vinificate separatamente selezionando con cura ogni parcella di ogni singolo vigneto. In cantina la fermentazione, avviata dai lieviti autoctoni, si svolge in vasche di acciaio a temperatura controllata. Dopo la svinatura, il vino prosegue la fermentazione malolattica nel cemento o nel legno, in base a un criterio che tiene conto esclusivamente della soluzione ideale.




Per l’affinamento, la scelta fra vasche di cemento, botti di rovere, tonneaux oppure barriques è dettata dalla considerazione di ogni singolo caso specifico.

Castello La Leccia produce quattro etichette: il “Vivaio del Cavaliere” (Toscana IGT), il Chianti Classico DOCG, il Chianti Classico Riserva “Giuliano” DOCG e il “Bruciagna”, il Chianti Classico Gran Selezione DOCG.

Durante la visita in cantina, supportati dal bravissimo direttore Guido Orzalesi, abbiamo degustato le seguenti annate:

Castello La Leccia – Vivaio del Cavaliere 2018 (75 % Sangiovese, 3 % Syrah, 22% Malvasia Nera): si dice sempre che il vino di entrata di una azienda vinicola sia un passaporto importante per capire la sua filosofia qualitativa. Le premesse, in questo caso, sono più che ottime visto che questo blend, vinificato in acciaio e affinato successivamente in cemento, è assolutamente centrato in succosità, complessità fruttata e progressione gustativa. Costa meno di 9 euro (!!!!) e potrebbe diventare benissimo il vino quotidiano di molte famiglie italiane.


Castello La Leccia – Chianti Classico 2017
(100% sangiovese): un vino che già avevo provato durante l’anteprima del Chianti Classico a Firenze e che avevo segnato tra gli assaggi più promettenti. Netti profumi di peonia, prugna, ciliegia e mineralità scura. Di buona beva, con tannini ancora evidenti sorretti da freschezza e sapidità importanti. Il vino viene vinificato in acciaio e affinato parte in legno e parte in vasche di cemento.


Castello La Leccia – Chianti Classico Riserva “Giuliano” 2015
(98% sangiovese, 2% malvasia nera): vini assolutamente profondo che al naso si esprime immediatamente e prepotentemente con sensazioni di confettura di ciliegie e frutti neri che si accompagnano ad una delicata speziatura e alla viola mammola tipica del Chianti Classico. Al gusto è potente, fresco, avvolgente e dal finale vibrante grazie ad un gradevole retrogusto fruttato. Il vino viene vinificato in acciaio e affinato parte in legno e parte in vasche di cemento.



Castello La Leccia – Chianti Classico Gran Selezione “Bruciagna” 2015 (100% sangiovese): per la questo vino vengono scelte esclusivamente le uve provenienti dal vigneto Bruciagna situato a 380 metri s.l.m, su un suolo in prevalenza argilloso-sabbioso. Ovviamente è il vino di punta dell’azienda ed indubbiamente ha una marcia in più rispetto ai precedenti grazie ad una complessità assolutamente intrigante incentrata su note aromatiche di ribes nero, mora di rovo, poi in successione note balsamiche, ferrose ed ematiche. Impatto gustativo dirompente, che gioca su una vena acido-sapida, contrassegnato da un tannino perfettamente fuso nella struttura importante del vino. Persistenza sublimi su sensazioni di ferro e spezie nere. Il vino viene vinificato in acciaio ed affina in legno per circa 30 mesi prima di passare in bottiglia dove rimane per ulteriori 9 mesi. Questo vino è stato imbottigliato a marzo 2019.



Abbiamo degustato in anteprima anche il Chianti Classico Riserva 2016 (sorprendente), il Chianti Classico 2018 (già da oggi buonissimo) e la Gran Selezione 2019 (in fase embrionale ma promettente).

Una chiosa assolutamente importante: il Castello La Leccia, grazie al lavoro di Guido Orzalesi, sta cambiando notevolmente stile, i vini si stanno alleggerendo moltissimo e, al contempo, stanno diventando sempre più territoriali e sanguigni. Segnatevi sul taccuino questa azienda, ne riparleremo!

Monterotondo: Malvasia "Sassogrosso" 2019

di Roberto Giuliani

Era un bianco piacevole e profumato, nel 2019 è successo un imprevisto, le uve sono rimaste senza ghiaccio secco in cantina. 


Ne è nato un vino di rara intensità, profondo, complesso, strafruttato, lunghissimo, una delle malvasie più buone che abbia bevuto quest’anno. Via il ghiaccio secco Saverio!