di Roberto Giuliani
Sono passati 23 anni da quando Sergio Manetti se n’è andato dopo una lunga malattia, il suo Pergole Torte è stato indubbiamente uno dei simboli della “resistenza”; a Radda nel cuore del Chianti Classico, negli anni ’90 era un punto di riferimento per tutti coloro che credevano nel sangiovese come massimo rappresentante di quel territorio, ma direi di gran parte della Toscana. Proprio nell’aprile del 2002, quando morì, scrissi queste parole: “In un’epoca dove la rivoluzione enologica significa uvaggi con vitigni internazionali, uso smodato di barrique, spinta quasi ossessiva verso il “gusto internazionale”, al punto di rinunciare alla denominazione di origine pur di accaparrarsi una fetta di mercato, Sergio Manetti ha dato a tutti una lezione di coraggio, di saggezza e di indipendenza, dimostrando a ragione di che cosa è capace il Sangiovese, quando è vinificato da mani esperte che sanno coglierne ogni piccola sfumatura. Il suo Pergole Torte è il simbolo di questa sua passione, tutt’altro che cieca, che lo ha spesso esposto ad assurde critiche, anche da parte del Consorzio del Chianti Classico, del quale faceva parte, che non gli concesse la DOC perché il suo vino mancava di “tipicità”.”
Il tempo ha confermato che la visione di Manetti era giustissima, tanto che negli anni la denominazione ha rivisto almeno in parte l’apertura ai vitigni internazionali, per giungere al Chianti Classico Gran Selezione, che impone almeno il 90% di sangiovese. Resta il fatto che quell’approccio determinato aveva le sue buone ragioni, dimostrate chiaramente da Le Pergole Torte 1997 che ho estratto dalla cantina, non senza dolore essendo l’ultima bottiglia.
Tappo praticamente perfetto, estratto senza difficoltà, la foto del calice è un po’ ingannevole, il colore è un granato trasparente ancora molto luminoso, vivo, segno che il contenuto deve avere ancora qualcosa di buono da offrire. Lo lascio respirare perché, al netto dei 2 anni in botte, 25 abbondanti è rimasto in bottiglia, chiede disperatamente un po’ di aria pulita.
Si apre, si apre, si libera, spariscono tutte quelle sensazioni di chiuso che lo fanno sembrare sulla via del declino. Invece sorprende per i profumi ancora fruttati che sa esprimere, una ciliegia limpida e succosa, uno stupefacente afflato di arancia sanguinella, ma soprattutto scarseggiano quelle note terziarie spinte che ci si aspetterebbe dopo tutto questo tempo; in realtà si manifestano in modo fugace, di funghi, fogliame, felce, sottobosco, poi tabacco, liquirizia, cuoio, tutto in modo accennato, non definitivo, in un contesto dinamico e stratificato.
L’assaggio conferma un vino che ha ancora una notevole forza, grazie a una bella vena acida che dà impulso al sorso, nascondendo molto bene i segni dell’età e non c’è quell’opulenza che in molti casi contraddistingueva l’annata 1997. Qui la storia è diversa, l’eleganza di Radda vince alla grande, restituendo un vino emozionante e per nulla stanco. Chapeau!
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