di Carlo Macchi
Petrolo si trova ai confini sud-est del Chianti Classico e questo “confine” lo si può percepire meglio salendo sulla Torre di Galatrona e guardando verso ovest, dove austere e ripide colline bloccano adesso lo sguardo e nei secoli passati il passo a che voleva addentrarsi in quel territorio, allora per niente ospitale.
Luca Sanjust, figlio della indimenticabile Lucia, mi ha accolto in azienda per un revival all’insegna di Giulio Gambelli, di cui sto curando una nuova e molto più completa edizione della sua biografia e che da queste parti ha dato il suo imprinting a diversi vini, primo fra tutti il Torrione, un Supertuscan che per me ha sempre rappresentato una delle massime vette del sangiovese toscano. Ma Petrolo è anche famosa per il Galatrona, un merlot la cui vigna mi assicura Luca, volle far piantare proprio Gambelli.
Ma veniamo al Torrione, prima annata nel 1988 e allora sangiovese praticamente in purezza (forse ci “cascava” una barrique di merlot): oggi invece il merlot è arrivato a più del 15% e il cabernet sauvignon al 5%. Il Torrione nasceva in una vecchia vigna di sangiovese piantata addirittura nel 1952 e da qualche anno espiantata e ripiantata, sempre a sangiovese, ma che in buona parte va a finire nel Boggina, oggi il cru aziendale di sangiovese in purezza.
Ma il 1994 che Luca mi ha stappato è nato nella vecchia vigna e non vi nascondo che un po’ di emozione, nell’assaggiarlo, l’ho avuta. In primo luogo, perché mi ha riportato a bellissimi momenti trascorsi con Giulio e Lucia SanJust e poi perché ero di fronte a un vino di 30 anni, che dal punto di vista enologico sono un’eternità. Però, se ho imparato una cosa da Giulio, è che i suoi vini invecchiano, anzi maturano, molto lentamente. Il Torrione 1994 è stato figlio di un’annata difficilissima, all’interno del periodo 1991-1995 che ho definito più volte “della piccola glaciazione”, anni in cui pioggia e freddo non sono mai mancati, creando allora vini magari ruvidi e difficili ma, se assaggiati oggi, ancor giovani e dinamici. Il vino fermentava in vasche di cemento e poi affinava in barrique, molte delle quali usate.
L’abbiamo aperto e assaggiato quasi subito, anche se sapevamo che lasciandolo all’aria per qualche ora sarebbe sicuramente migliorato.
Anche così però il vino si è dimostrato ben presente a se stesso: colore ancora rubino con unghia leggermente aranciata e naso dove accanto a sentori balsamici schizzano fuori note fruttate lo stanno a dimostrare. Se proprio vogliamo essere pignoli la scelta dei legni usati non l’ha avvantaggiato, ma adesso queste note un po’ più cupe gli conferiscono solo carattere e complessità.
In bocca ha sapidità e ancora bella potenza, accompagnata da un tannino ruvido, figlio dei tempi e del tempo meteorologico. L’acidità è ben presente e affianca il tannino in una dimostrazione di giovinezza e austera eleganza. In bocca è molto lungo ma soprattutto ha grande equilibrio. Non solo non dimostra trent’ anni ma sono convinto che potrà andare avanti benissimo come minimo per altri dieci.
Un pezzettino della bella storia enoica scritta da Giulio Gambelli
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