E se “terroir” facesse riferimento solo al concetto di “uomo”?


di Carlo Macchi

Oramai da quando sono nel mondo del vino, diciamo quasi 40 anni, una delle parole d’ordine del vino di qualità è terroir. E’ il terroir che, quasi ad ogni livello, fa il grande vino mentre il produttore nell’iconografia imperante quasi sempre è uno “strumento del destino”, colui che ha la fortuna di portare in bottiglia, quello che il terroir ha concesso. Dopo quasi quaranta anni e naturalmente con le dovute (ma non moltissime) eccezioni, mi sento di dire che quanto detto sopra semplicemente non risponde a verità.


Ma partiamo dall’inizio, cercando di capire cosa vuol dire Terroir: una sua spiegazione molto semplicistica passa sempre attraverso il tipo di suolo che si coltiva, il clima, la storia e la cultura del luogo e naturalmente l’uomo immerso nella storia e nella cultura del luogo: quest’ultimo però è visto come ultimo tassello di questo processo, dove madre natura svolge un ruolo basilare, insostituibile e, naturalmente, riconoscibile nel bicchiere.

Le definizioni, di terroir più o meno ampie e motivate si sprecano: una delle più centrate è per me questa di Armando Castagno, che vi riporto integralmente.

Il terroir è uno spazio geografico delimitato, abitato da una comunità umana e caratterizzato da una comunità agricola. Il prodotto agricolo è messo in valore nel corso del tempo dal lavoro della comunità, determinato dall’attitudine del luogo, custodito dal vigore della sua biodiversità, e qualificato dalla virtuosa interazione tra luogo e cultivar. La comunità umana discute, elabora e adotta un patrimonio collettivo di regole produttive di base, condivise e accettate: pone a disposizione di tutti l’esperienza accumulata lungo tale percorso di conoscenza in ogni modo possibile. Nessun Terrori viene a crearsi per mera iniziativa individuale, o per via progettuale, opportunistica o politica. Tanto il terroir pone in valore il bene finale cui dà vita quanto il bene finale valorizza il suo terroir di nascita. Spetta al consumatore finale il riconoscimento eventuale del valore in tal modo venutosi a creare.

Difficile essere più chiari e esaustivi.

Nei miei continui giri per l’Italia mi sono domandato più volte di fronte ad un vino, dove il produttore lodava e decantava ( giustamente dal suo punto di vista) il terroir di nascita, quanto in percentuale vi fosse della terra,del vigneto, del clima e quanto invece dell’uomo che, con le sue scelte, in vigna e in cantina, fa nascere il vino.

Perché una delle frasi più o meno fatte che girano da sempre è “Cerco di toccare il vino il meno possibile”.

Da questa frase nasce l’immagine di un vino che il produttore x “monta in macchina e porta, toccandolo quasi niente, a destinazione”. In realtà dobbiamo immaginarci un’altra cosa: ogni scelta di un produttore, agronomica o di cantina è un bivio dal quale non si può tornare indietro.


Ma siamo così sicuri che, tanto per elencare: lasciando 6 o 12 occhi in potatura, cimando o non cimando, sfogliando o non sfogliando, facendo o meno la potatura verde, scegliendo una data più che un’altra per la vendemmia e poi in cantina usando o non usando un determinato lievito, o nutrimento di lievito, temperature di fermentazione diverse, 1 o 10 rimontaggi al giorno, legni (o non legni) piccoli, medi, grandi, tostati o meno, siamo sicuri che i risultati sarebbero più o meno gli stessi perché dipendono sempre e comunque dal terroir?

Esempio abbastanza calzante: lo scorso anno nelle nostre degustazioni di Barolo e Barbaresco, abbiamo messo assieme le MGA con un buon numero di campioni (Bussia, Cannubi, Gallina etc) e le abbiamo degustate, naturalmente bendate : il risultato è stato che erano vini molto diversi tra loro, anche di produttori con vigneti confinanti.

Qualcuno obbietterà che stiamo sempre parlando di Barolo, che ha comunque determinate caratteristiche generali che portano verso l’identificazione di un terroir preciso, ma una cosa è il concetto generale di zona viticola applicato ad un vino, un’altra è il Terroir, che dovrebbe portare a risultati abbastanza univoci dove le sue caratteristiche sono uguali o quantomeno simili. Questo, confrontando vini che nascono anche a pochi metri di distanza (e non sto parlando di Barolo ma in generale) non succede praticamente mai.

Succede spesso anche l’opposto, cioè si incontrano quotidianamente vini che, vedendo e “toccando” di persona dove nascono, si potrebbe immaginare avessero caratteristiche diverse, dovute appunto al terroir di provenienza.

L’esempio l’ho fatto non per dimostrare, ripeto, che il termine “terroir” dipende solo dall’uomo, ma che l’uomo è tra le forze in campo quella che, oggi come oggi, marca di più il vino finito.

Ma torniamo ai bivi e alle scelte: in passato c’era meno tecnica e meno possibilità di dover scegliere tra molte possibilità, ma oggi le nuove frontiere agronomiche e enologiche ti propongono un’infinità di possibilità che, come per miracolo, diventano comuni a molti e, spesso senza colpo ferire, arrivano ad identificare il terroir.

Per esempio, è mai possibile che da qualche anno i vini, di ogni tipologia, siano “salati”? Se questa sapidità era nel terreno, nell’aria o nel terroir perché non si era espressa prima? E’ possibile invece che “la sapidità imperante” possa essere una moda e come tale dovuta a vinificazioni che privilegiano determinate caratteristiche?


Altro esempio: i più enologicamente stagionati tra i miei lettori ricorderanno che agli inizi degli anni ’90 il terroir di Malborough, in Nuova Zelanda, era famoso perché produceva sauvignon che avevano l’aroma inconfondibile del frutto della passione. Ci hanno venduto per anni che era una sua caratteristica peculiare, salvo poi capire che nasceva da determinati processi di cantina e che seguendo le stesse regole enologiche era possibile trovare il frutto della passione praticamente in qualsiasi vitigno a bacca bianca, cosa che si è puntualmente presentata in Italia dopo qualche anno e con qualsiasi vitigno a bacca bianca.

Attenzione, non voglio dire che i produttori di vino sono persone che vendono “il buio per uva nera” ma semplicemente che la ricerca di nuove frontiere (o nuove mode) porta a scelte che forse non sono in larga parte frutto della terra e del microclima.

Attenzione ancora, questo non mi mette dalla parte dei vini naturali, perché anche “non toccare” il vino comporta una lunga serie di scelte e come tale porta a risultati che mettono ben in evidenza la firma del produttore.

Vediamo di chiarirci meglio: possiamo vedere un chicco d’uva come una specie di supermercato, dove si possono trovare tanti prodotti diversi. In effetti gli aromi e le sostanze all’interno di un chicco non si sviluppano tutte allo stesso modo e non vengono estratte sempre e comunque omogeneamente, dalle Alpi alle Piramidi. Facendola più semplice ancora: se fermento le stesse uve bianche a 22° o a 13° estraggo e/o metto in evidenza sostanze diverse in maniera diversa, ma che si trovano comunque tutte all’interno del “chicco-supermercato”. Chi mi garantisce a questo punto quale dei due vini rappresenti meglio il terroir?

Potrei elencare decine di altri “bivi” che possono portare a risultati quasi opposti per lo stesso vino, ma non voglio annoiarvi.


Per dare un colpo al cerchio e uno alla botte bisogna anche dire che, rispetto a 30 anni fa, la qualità media dei vini è salita tantissimo e questo ha portato, non dico ad una standardizzazione, ma sicuramente all’ avvicinarsi di determinate caratteristiche (magari frutto di buona vigna e buona cantina) a delle tipologie strutturali di vini, arrivand successivamente a pensare che quelle rappresentino un espressione del vitigno in quel terroir. Ho parlato prima del frutto della passione ma adesso potrei citare “l’agrumizzazione forzata” di tanti bianchi italiani di uve diverse, dalla Sicilia, all’Alto Adige, venduta come caratteristica del territorio.

Insomma il terroir, quello perfettamente definito da Armando Castagno e ricercato un po’ da tutti, è una merce molto, ma moto rara mentre di uomini e donne che producono vini (anche buoni o ottimi) ne è pieno il mondo.

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