di Stefano Tesi
La domanda è tanto legittima quanto prevedibile: campanili a parte, c’era bisogno di andare in Toscana, anzi in una zona di rossi per eccellenza come il Chianti Classico, per trovare un grande e vecchio vino bianco?
La risposta è, al tempo stesso, sì e no.
Ma se alla fine ha prevalso il sì, il motivo è semplice: trovare un bianco con alle spalle una storia (storia, non storytelling) così antica da essere affascinante è quasi impossibile, in Italia. Perché se noi oggi ci limiteremo a parlare – e garantisco che non è poco - del Torricella 2008 del Barone Ricasoli, è bene sapere che un vino con questo nome e della stessa tipologia fa tuttora bella mostra di sé nelle cantine baronali dal 1927. Mica noccioline. E che, come ci conferma Francesco Ricasoli, la sequenza delle annate ancora esistenti è la seguente: 1927, 1934, 1941, 1942, 1943, 1945, 1949, 1950, 1952, 1955, 1957, 1960, 1981, 1994, 1995, 1996, 1997, 1998, 1999, 2000, 2002, 2003, 2004, 2005, 2006, 2007, 2008, 2009, 2010 e via fino ad oggi. Scusate la sfilza, ma serviva a rendere l’idea.
Detto questo, bisogna anche ammettere che Torricella è il nome storico, ma che le vite del vino sono due: quella fino al 1983, quando lo si faceva con Malvasia Bianca e Trebbiano, e quella dal 1993 in poi, quando il nome resta ma cambiano l’ubicazione della vigna e la varietà: solo Chardonnay, per dar vita a un bianco strutturato e fatto interamente in barrique francesi, come di moda all’epoca. Già nel 2003 di passa però all’acciaio combinato alla barrique, con un trend di progressiva diminuzione dell’uso del legno che dura ancora oggi. Dal 2009 al 2018 entra in scena un anche un po’ di Sauvignon, prima di un ritorno nel 2019 al 100% di Chardonnay. Ma se il Torricella 2008, di cui parliamo oggi, è un vino fatalmente sorprendente, non è solo per la sua storia.
Il colore è un oro molto intenso e brillante, mentre all’impatto l’olfatto è esplosivo, cangiante, complesso: “uno champagne senza bollicine”, come ci siamo trovati a commentare in diretta col produttore. Via via che il tempo passa e che il vino leggermente si scalda i sentori si susseguono e si evolvono in progressione: miele di acacia, rosa sfiorita, rosmarino e macchia, ombre salmastre, un accenno di resina, poi menta e una sorta di put-pourri di odori dell’orto, sassi bagnati e pietra focaia. In bocca il sorso ha una grande ricchezza, profondità e la lunghezza, il vino è asciutto e sapido, elegante nella sua potenza, con retrogusti che tornano a ondate e richiamano i toffees e la nocciola.
Ne ho nascosta una bottiglia nella mia riserva personale e programmato l’apertura nel 2031.
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