Pruneti Extra Gallery a Greve in Chianti è il posto più cool per l'olio della Toscana?

Le sfide sono belle quando sono difficili. Ma sono ancora più belle quando, oltre che difficili, anziché da un accurato piano di battaglia prendono le mosse da un’intuizione che si prova a mettere a fuoco in corso d’opera, con le scariche di adrenalina e gli smarrimenti che ne conseguono.
Facciamo un esempio: che si vuol intendere se si usa l’espressione “Extra Gallery”? Soprattutto se è il nome dato a qualcosa che è a metà strada tra un negozio gourmet, un bar-caffè, una stuzzichineria, uno spaccio aziendale, un cenacolo per appassionati, un ritrovo per gaudenti, un punto di riferimento per amanti della natura, un polo didattico, una bottega, un’accademia, una biblioteca e financo una provocazione?

Accademia

Ecco, quello che i fratelli Gionni (scritto proprio così: Gionni) e Paolo Pruneti, chiantigiani di schiatta chiantigiana che di più non si potrebbe (cru San Polo), hanno aperto a Greve, proprio sul fondovalle e sul lungostrada principale, dove scampare alla vista del viandante, anche per via dell’architettura biancheggiante, è impossibile, è una cosa che si chiama (appunto) Pruneti Extra Gallery: minimalista e di design, come si direbbe oggi.
Ora, è vero che la famiglia è famosa in Toscana come titolare di un ottimo frantoio e per la produzione di molti, eccellenti extravergini. Non a caso, alla Gallery abbondano l’olio novo 2019 e tanti prodotti a base d’olio: dagli ovvi condimenti in nove diverse tipologie a varie cose mangerecce, inclusi accostamenti arditi e sfiziosità non risapute, che si possono sia consumare al banco, sia asportare. Ma fin qui sarebbe tutto molto normale.

Bottega
Già un po’ meno normale e che al bancone del bar si possano assaggiare cocktail fatti a regola d’arte ma sempre “sporcati” creativamente con l’extravergine della casa: il famosissimo Negroni diventa così, con l’aggiunta di un monocultivar di Moraiolo, un piccante “Twist di negroni in EVO”, mentre da quella che i creatori definiscono “la massima espressione delle tecniche della mixology” prende origine un cocktail “Oliveto”, di nuovo a base di monocultivar di Moraiolo della casa. Dal connubio il rum bianco e vino Gallo Nero (Pruneti Bio, è ovvio) ecco infine un inaspettato “Chianti Classico Mojito”.
Sì perché, come si sarà capito, i Pruneti oltre che olio producono pure vino, tutto ovviamente biologico.
Ma se solo così fosse, sarebbe ancora un giochino troppo facile.
Una delle attività storiche della famiglia, anzi quella da cui risale la sua gloria più antica e che naturalmente viene tuttora portata avanti con successo tra le colline chiantigiane è la coltivazione dell’Iris, del Giaggiolo insomma, ovvero di quel fiore simbolo di Firenze che molti scambiano, incomprensibilmente, per un giglio. Gli utilizzatori normali, in tutto il mondo, ne ricavano l’essenza per fare profumi.
Poteva tale fondamentale branca del Pruneti family business restare fuori dalla Gallery?
Nemmeno a pensarci. Ed ecco così, al posto della prevedibile acqua di colonia, saltare fuori una spumeggiante, delicata, invitante birra artigianale stile blanche belga all’aroma, appunto, di Iris. Eccellente, va detto. Con aromi floreali che ben si sposano con l’amarognolo di fondo, rendendo la bevuta oltremodo godibile.
E con questo, sull’allegro buglione della Gallery forse potrebbe bastare. Ma non è ancora tutto.

Biblioteca

Per digerire, o come cordiale, ecco il liquore allo Zafferano, made in Pruneti estate si capisce, che i palati più raffinati riconosceranno anche come ingrediente delle polibibite – per dirla coi futuristi – di cui sopra.
Il tutto in questo grande, luminoso, spigliato ambiente ove si può anche sedere e rilassarsi, oppure fare piccole sessioni didattiche di assaggio e di abbinamento di extravergine. E dove i due fratelli e il loro staff si aggirano accogliendo i clienti, dando spiegazioni, offrendo assaggi.


Il buon cronista a questo punto non può più trattenersi e lancia l’ingenerosa domanda: “Ma il progetto finale qual è? E dove volete arrivare?”.
Paolo Pruneti non si turba. Scrolla le spalle e con un sorriso disarmante ammette: “Non lo sappiamo nemmeno noi. Volevamo creare un posto in cui si potesse andare per parlare dei prodotti della nostra terra e soprattutto si potesse capirli, ma senza annoiarsi né limitarsi a una cosa sola. Il primo obbiettivo era facile da raggiungere, il secondo niente affatto. 

Extra Gallery Experience

A chi viene qui noi vorremmo semplicemente offrire gli strumenti per riuscirci. E il migliore ci sembra quello di assaggiare, ragionando in compagnia. Giornalisti compresi, beninteso”.
Benvenuti alla Pruneti Extra Gallery, la galleria che non si capisce cos’è, ma che per fortuna c’è.

Pruneti Extra Gallery
Piazza Trento 1, Greve in Chianti
Tel. 055 8555091
www.pruneti.it

Tenuta del Cavalier Pepe - "La Loggia del Cavaliere" Taurasi riserva DOCG 2008


Ma quanto tempo bisogna aspettare il Taurasi? Difficile dare una risposta, soprattutto dopo questo riassaggio del cru di Milena Pepe ottenuto sulle colline delle famose località della denominazione del Taurasi: Carazita, Pesano e Brussineta siti nei comuni di Luogosano e Sant’Angelo all’Esca.


Il colore è ancora rubino, la freschezza domina la beva e il palato ancora cerca equilibrio. Che fare? Aspettare ancora o berlo su una carne alla brace senza perdere altro tempo.

La Fortezza ovvero come la Falanghina del Sannio può sfidare il tempo

di Luciano Pignataro

La Falanghina viene vissuta psicologicamente come un bianco di pronta beva, ed è così che finiscono quasi tutti i suoi dodici milioni di bottiglie tra doc Sannio e igt Beneventano: stappate appena possibile sulla cucina di mare dove sono molto efficaci grazie all'agrumata freschezza in bocca, al naso floreale e alla chiusura amarognola che non guasta mai a tavola negli abbinamenti. Abbiamo però avuto molte prove della sua longevità e delle sue capacità evolutive, crescono i produttori che ritardano l'uscita di almeno una etichetta e i risultati sono davvero interessanti.


Ecco perché stavolta voglia parlare di una verticale fatta a La Fortezza di Torrecuso. Si tratta di una azienda relativamente giovane, nata ufficialmente nel 2006 per la volontà di Enzo Rillo, imprenditore figlio di contadini, di tornare ad investire nella terra. Ha così recuperato una bella struttura che è diventata punto di riferimento nel comune principale del Taburno, a cominciare dai mercatini di Natale che attraggono migliaia di visitatori da ogni dove, usata anche per la banchettistica. Insomma un circuito chiuso che sta funzionando e che ha alle spalle ormai 65 ettari di proprietà, tra cui, quelli più recenti, acquistati dall'azienda Ocone nella dirimpettaia Ponte. Il protocollo è quello tipico campano: vitigni autoctoni (aglianico e piedirosso per i rossi, falanghina, fiano e greco per i bianchi), lavorazione in acciaio per i vitigni a bacca bianca. In azienda da sei anni è arrivato Vittorio Festa, enologo abruzzese, figlio d'arte, attento alle tendenze che punta a fare vini minerali, freschi, di carattere. E in effetti le ultime annate hanno davvero stupito e trovato consenso anche tra le guide specializzate.

Enzo Rillo

Ci siamo trovati in azienda, a conduzione biologica certificata, la settimana scorsa in occasione di una verticale di Falanghina e vogliamo darne conto perché davvero interessante.


Falanghina del Sannio 2018 doc
Una bottiglia che conferma le caratteristiche di questo bianco sul Taburno nel Sannio Beneventano. La freschezza è ancora travolgente, sarebbe giudicata eccessiva da ogni commissione di degustazione degli anni '90. Al naso sentori di limone che sono preponderanti sulle note floreali, al palato l'acidità domina la beva e la trascina sino alla fine in velocità verso una conclusione leggermente amarognola. Insomma, un bianco ben lontano dall'equilibrio e che ha una lunga vita davanti.

Falanghina del Sannio 2017 
L'annata siccitosa ha avuto l'effetto di equilibrare in anticipo questo vino che si presenta sempre con una buona acidità, decisamente meno scissa del precedente perché alle note agrumate  aggiunge quelle di albicocca e pesca. Al palato la concentrazione appare evidente, l'impatto è più equilibrato, più pieno. Decisamente piacevole con un finale che conduce la beva verso il tono amarognolo che ripulisce il palato. Un vino insomma da attendere ancora poco prima dello stappo.


Falanghina del Sannio 2016 
Tre anni non sono sufficienti alla falanghina per assorbire completamente la nota acida che resta prima percezione nel sorso si assaggio. Il naso appare ancora fresco, con note di biancospino e ginestra molto piacevoli. Al palato il vino si avvia verso l'equilibrio, con la freschezza che fa da spalla, si avverte una buona nota di calore all'ingresso, finale davvero entusiasmante per una bottiglia che si presenta assolutamente in forma.

Falanghina del Sannio 2014
Saltiamo la 2015, non disponibile perché letteralmente esaurita. Ecco allora che la prima bottiglia dove il fruttato prevale sull'agrumato è questa dopo cinque anni figlia di una stagione tutto sommato equilibrata. Al naso fa capolino anche una piccola nota fumè, tipica di tutti i bianchi invecchiati provenienti da suolo vulcanico. Al palato il sorso è pieno, piacevole, ben equilibrato dall'ingresso sino alla chiusura, decisamente piacevole e convincente. Un vino nella sua piena maturità espressiva. E siamo a cinque anni!

Falanghina del Sannio 2013
Concludiamo con questo bianco di sei anni che conferma la straordinaria energia e longevità della Falanghina. Piacevole ed efficace che al naso riesce a sviluppare una complessità interessante che passa dalla frutta bianca matura a piccole note di miele d'acacia, sbuffo fumè. Al palato c'è piena corrispondenza naso bocca con alcol e acidità in equilibrio. Chiusura vitale, amara, lunghissima.


Ora, per capire di cosa parliamo, vi diciamo che questo bianco viene venduto in azienda sotto i dieci euro. Coltivato sui 400 metri di altezza con una resa che oscilla tra i 90 e i cento quintali per ettaro, è sicuramente un vino di grande rapporto tra qualità e prezzo. Questa verticale esprime le sue potenzialità perché un appassionato dovrebbe farne incetta, conservare per tre o quattro anni e poi iniziare a stappare per godere del massimo che questo vitigno è in grado di regalare.

L'Alto Piemonte racchiuso nel Gattinara 2014 di Franchino

di Carlo Macchi

Appena arrivato in Alto Piemonte mi sono cimentato con un sontuoso bollito. Forse non era l’abbinamento ideale ma il Gattinara 2014 di Franchino mi sfrucugliava troppo. 


Annata tragica ma il vino l’ha superata alla grande, con uno slancio austero e una tannicità ruvida ma “figlia della vendemmia”.  Una certezza!

Tutto sul Cacciucco Day 2019 a Poggibonsi


di Carlo Macchi

I livornesi e tutti quelli che si sentono chiamati in causa sulla primogenitura del Cacciucco stiano tranquilli. In questo articolo non vogliamo ATTENTARE alla maternità cacciucchesca ma solamente prendere atto di uno sviluppo geografico, mooooooooooolto positivo (almeno per me) che questa storica zuppa di pesce ha avuto.
Nessuno infatti nega che abbia natali labronici, che sia stata concepita dai pescatori con il pesce più povero esistente in barca. Siamo di fronte a una zuppa di pesce corposa, un po’ “figlia di buona pesca” (se ci è permesso il termine) non solo nel senso che nasceva dagli esuberi del pescato, ma da tanti pesci e non da un solo padre ittico: nel tempo è assurta a simbolo di zuppa di pesce, con tutte le diversità (labronica, viareggina e via cantando) che possono incunearsi in un piatto testualmente melting pot .


Vi faccio degli esempi per spiazzarvi: ci vuole o non ci vuole una foglia di salvia sotto o sopra al pane? Quali pesci vanno cucinati per il brodetto? Di questi solo la testa o il pesce intero? Quanto pomodoro? Cotture separate o assieme e a scalare? Cicala si o cicala no? Il gamberone è stata una concessione all’opulenza della civiltà dei consumi?
A voi le ardue sentenze, perché in questo articolo non voglio assolutamente ricercare la ricetta ideale o le primogeniture ma solo informarvi e farvi sbavare. Avete letto bene, SBAVARE! Come bambini davanti al negozio di caramelle con la commessa stronza che si gusta un bonbon nel mentre allestisce la vetrina. Ma prima diamo tempo al tempo e partiamo dal termine della Seconda Guerra Mondiale.

Poggibonsi

A Poggibonsi, cittadina al centro del mondo del Chianti nonché dotata di ferrovia importante e quindi di adeguati collegamenti, da tempo esiste un locale che si chiama Alcide. Nato come mescita di vino e poi trattoria, nel tempo si è piano piano convertito a ristorante.
A un certo punto scatta la scintilla: i fratelli Ancillotti, che hanno ottimi collegamenti con la costa, decidono di dedicarsi alla cucina di pesce. La loro fortuna è la sorella, grande cuoca, e il momento economico, che permette al pesce di essere “sdoganato” come consumo non dico giornaliero ma quasi. La ciliegina sulla torta è l’idea di proporre un piatto che più tipico non si può: il Cacciucco. Il resto è storia e una storia molto saporita e gustosa che, alla faccia di labronici invidiosi, ha visto Alcide (a 80 chilometri dal mare) proporre da almeno 70 anni un Cacciucco famoso in tutta Italia.


Veniamo a oggi e quando dico “oggi” intendo proprio le 24 ore che sono appena trascorse. Sono appena passati dieci giorni dal Cacciucco Day, grande sfida annuale a base di cacciucco tra Alcide e, per quest’anno, un grande locale come la Pineta a Marina Bibbona (ciao Luciano, caro amico e grazie di tutto!) che mi sono reso conto di come questo piatto sia entrato nei cromosomi di noi poggibonsesi.
Infatti venerdì 22 novembre mi ero gustato (iniziate a sbavare, please!) le due buonissime maniere di declinare il cacciucco di Alcide e de La Pineta, che Burton Anderson (si proprio lui! Il grande giornalista che ha fatto conoscere il vino italiano al mondo trenta anni prima di qualsiasi Wine Spectator ) mi propone una cacciuccata in un ristorante “terzo”, come La Galleria, sempre a Poggibonsi.

Michele Targi e Burton Anderson

Questo ristorante non solo è famoso per la sua cucina di pesce assolutamente gaudente e solare, ma è un locale dove io sono di casa e dove Burton si sente a casa. Quindi stabiliamo la data (3 dicembre, a pranzo) e Burton invita anche un personaggio che tutti oggi vorrebbero a tavola, quel Francesco Martini di Cigala che assieme ai fratelli firma i vini di San Giusto a Rentennano, compreso il Chianti Classico 2016 valutato da Wine Spectator come terzo miglior vino al mondo.

Francesco Martini di Cigala 

Quindi la formazione a pranzo il 3 dicembre da Michele Targi a la Galleria è la seguente: il sottoscritto, Burton, Francesco , mogli varie, Chianti Classico San Giusto a Rentennano 2016, altri cinque vini di altissimo livello e, come unica punta, un cacciucco stratosferico!
Michele Targi lo conosco da più di venti anni e in tutto questo tempo non mi aveva mai proposto questo piatto, cucinato con una pazienza e una maestria assoluta. Lo perdono solo perché siamo amici e soprattutto perché chi prepara un cacciucco del genere va tenuto buono.
Mentre assaporavo questa squisitezza, gustavo il difficile ma riuscitissimo matrimonio del Chianti Classico San Giusto 2016 con quel “bendiddiodipesce”e chiacchieravo amabilmente con i commensali, mi è venuta in mente una definizione di mia moglie.
Lei divide i ristoranti, al di là di graduatorie stellate vere o presunte, tra quelli che “assemblano” e quelli che “cucinano”. Per preparare un grande cacciucco non basta saper assemblare pezzi di pesce, bisogna conoscere bene il pesce e soprattutto occorre saperlo cucinare! E Michele non solo lo ha CUCINATO in maniera divina, ma ci ha anche spiegato per filo e per segno come ha fatto (ma questo me lo tengo per me).
Mentre lo ascoltavo inviavo mentalmente un ringraziamento a Alcide, che ha permesso a una cittadina dell’entroterra come Poggibonsi di avere ben due locali che CUCINANO un grande cacciucco e soprattutto ha fatto capire come, se si ha maestria e grande materia prima, si possa preparare ovunque un sontuoso cacciucco.
Ma ovunque non è Poggibonsi! Qui da noi ormai il cacciucco è di casa e la dimostrazione è la frase di Burton e di Francesco alla fine del pranzo: “Il miglior Cacciucco della nostra vita!”.


Prossimamente gli farò gustare anche quello di Alcide e sono convinto rimarranno colpiti anche da quella versione.
Per questo ho deciso: sul cartello stradale che recita “Poggibonsi” proporrò al sindaco di far scrivere “Città del cacciucco!”

Provare per credere!

Ograde 2017 Škerk: il fascino del Carso

di Roberto Giuliani 

Ograde identifica la recinzione con muretti a secco che circonda le parcelle vitate davanti alle case. 


Vitovska, malvasia, sauvignon e pinot grigio, un macerato spettacolare: arancia rossa, pompelmo rosa, ribes bianco, pepe rosa, muschio; gusto travolgente, succoso, ampio, profondo, una meraviglia.

www.skerk.com


A Roma, da Niko Romito, si parla della DOP Tullum

di Roberto Giuliani

Mercoledì 19 novembre, nei locali dello Spazio Niko Romito, in Piazza Giuseppe Verdi 9, a Roma, si è svolta una cena-evento sulla DOP Tullum, organizzata con il supporto dell’agenzia AB Comunicazione. Il presidente della Cantina Tollo e del Consorzio di Tutela Tonino Verna e Maurizio Primavera per Feudo Antico, in presenza di numerosi giornalisti, ci hanno raccontato di questa piccola denominazione e degli obiettivi e progetti di Feudo Antico.


Una delle denominazioni più piccole d’Italia, 18,80 ettari vitati con un potenziale di circa 300 ettari, ma con una storia vitivinicola dalle origini antiche, questa è la DOP Terre Tollesi o Tullum, l’unica nella provincia abruzzese di Chieti, approvata DOC nel 2008 e da luglio 2019 salita in cima alla piramide come DOCG.
Il nome non poteva essere più adatto, visto che l’area di produzione coinvolge esclusivamente il Comune di Tollo. Qui dominano le uve del territorio, montepulciano per i rossi e pecorino e passerina per i bianchi, ma il disciplinare consente anche di produrre spumanti, con una base di chardonnay per almeno il 60%.
Il territorio presenta una giacitura prettamente collinare con pendenze che non superano il 5-10%; l’altezza massima è di circa 228 metri s.l.m., sono esclusi però dalla denominazione i terreni con un’altitudine inferiore agli 80 metri s.l.m. e quelli posti nei fondivalle umidi.
I suoli, con le loro ovvie percentuali variabili, hanno in comune una componente argillosa-sabbiosa, per una media che sfiora il 30% con picchi che arrivano al 45% di argilla, mentre la presenza di sabbia ha una quota media del 36,5%, con valori compresi tra il 12,3% e il 59%, quest’ultima situazione si riscontra di frequente nelle zone alluvionali dei fondivalle (dove, appunto, il disciplinare non consente impianti). Il pH è sub-alcalino o alcalino con valore medio di 7,88.


La presenza della vite e del vino nell’area risale all’epoca romana, testimoniato dal rinvenimento in alcune contrade di Tollo di dolia da vino (giare di terracotta) e celle vinarie intere e a frammenti, mentre nell’area intorno al comune sono stati rinvenuti resti che testimoniano l’esistenza di alcune «villae rusticae» romane, esempio delle prime aziende agricole organizzate, dove l’attività viticola era già ampiamente diffusa.
Durante la seconda guerra mondiale Tollo fu letteralmente rasa al suolo, gli anni successivi furono caratterizzati dall’emigrazione di molti italiani alla ricerca di possibilità di lavoro, ma a partire dagli anni ’60, grazie anche al forte contributo della neo nata cantina Tollo, l’attività vitivinicola della provincia teatina riprese con nuove energie, mentre in altre aree dell’Abruzzo accadeva invece un fenomeno di contrazione. Con i suoi oltre 800 soci conferitori, di cui circa il 15% in regime biologico, oltre 3000 ettari vitati e una produzione che supera i 10 milioni di bottiglie annue, la cantina Tollo rappresenta un modello di riferimento per tutta la regione e non solo.



Nel 2004, da una costola di Cantina Tollo, nasce un progetto sperimentale di archeo-enologia nel territorio di Tollo, che prende il nome di Feudo Antico, con l’intento di valorizzare e rivitalizzare le coltivazioni autoctone e operare nel massimo rispetto dell’ambiente, in regime biologico, concentrando la produzione nel territorio della DOP Tullum.
Feudo Antico, in collaborazione col prof. Attilio Scienza e un pool di ricercatori dell’Università di Milano, ha approfondito la conoscenza delle caratteristiche peculiari del terroir dove dimorano 15 ettari vitati, con lo scopo di ottenere una micro zonazione, in modo che ogni vino nasca dalle parcelle ideali per la tipologia che si vuole ottenere.
I primi vitigni sui quali l’azienda ha iniziato a investire sono stati pecorino e passerina, a cui si è poi aggiunto il montepulciano, frutto di una cuvée di vecchi cloni vinificati in purezza per comprenderne appieno le diverse caratteristiche.
Proprio dalle uve montepulciano l’azienda ha dato vita a InAnfora (non presente alla cena, ma che ho avuto modo di apprezzare di recente e descrivere in questo articolo), nato dopo il ritrovamento all’interno della proprietà di antiche anfore romaniche in terracotta artigianale da 750 litri. Il vino è stato forgiato riducendo al massimo qualsiasi intervento, compreso l’uso della solforosa estremamente ridotto, l’obiettivo era di avvicinarsi il più possibile all’antico modo di fare vino, limitandosi a pigiare l’uva, introdurla nelle anfore, lasciar partire la fermentazione spontanea senza controllo della temperatura, lasciando il mosto a contatto con le bucce per quasi un anno.


Ma l’avventura di Feudo Antico è in continua evoluzione, infatti, visto che la DOCG lo prevede, non poteva mancare uno Spumante Brut Metodo Classico da uve chardonnay, rigorosamente DOP Tullum, che permane sui lieviti per almeno 36 mesi. Un vino che, nella versione 2015 presentata durante la cena, mi ha particolarmente colpito per la notevole personalità e una verve quasi entusiasmante; il perlage finissimo ha portato al naso profumi di crosta di pane, burro e vaniglia tostata, agrumi e melone invernale; palato stimolante, succoso, sapido, di bella persistenza e precisione esecutiva.

Foto: rock and food

Unica eccezione al di fuori della denominazione, un pecorino sperimentale d'alta quota (862 metri s.l.m.), progetto nato nel 2010 da un accordo fra Feudo Antico e lo chef Niko Romito, che ha consentito a dare in gestione un piccolo terreno vicino al complesso cinquecentesco di Casadonna (identificato al foglio di mappa n.33, particella 505) dove nel 2011 ha trasferito la sua attività di ristorazione. Allevato a guyot con una densità di 6.250 ceppi/Ha, fermenta in cemento con lieviti presenti sulle bucce, resta in contatto con gli stessi lieviti per 6 mesi, non subisce travasi né filtrazioni; nel 2013 prendono vita le prime 800 bottiglie di questo Pecorino IGP Terre Aquilane.


Ad oggi la DOCG Tullum è composta da meno di 19 ettari e rappresentata da sole 3 aziende, ma la strada tracciata da Feudo Antico sarà sicuramente di stimolo per le nuove generazioni; Tonino Verna però ci tiene a precisare che, finché rimarrà in carica come presidente del Consorzio (ma in cuor suo spera che anche chi gli succederà avrà gli stessi propositi), la crescita degli ettari iscritti dovrà avere una progressione graduale e ben controllata, per garantire di mantenere alto il livello qualitativo della denominazione.


La serata è stata estremamente piacevole, grazie anche ai piatti proposti dall’equipe proveniente dall’Accademia Niko Romito guidata dell’executive chef Gaia Giordano, elaborazioni che mettono sempre in risalto la qualità delle materie prime utilizzate, senza mai eccedere in pirotecniche sperimentazioni e con equilibrio e leggerezza a rendere le portate sempre digeribili; la stessa concezione degli ambienti rappresenta in modo intelligente la concezione di locale moderno di Niko Romito: appena entrati si ha subito la sensazione di un’atmosfera accogliente e di uno stile che richiama la sala da thè e la trattoria d’epoca (non a caso sono state scelte le sedie “Chiavarine” tipiche degli anni ‘60/ ’70), ma di questo Bar Ristorante da scoprire volta per volta vi racconterò in modo approfondito in un articolo espressamente dedicato.


Terrawine Festival a Todi: siete pronti?

L’Umbria è celebre non solo per l’immensa bellezza dei borghi e le oasi naturalistiche mozzafiato, ma anche per i frutti di una terra che, seppur minuta, sfoggia vini DOC e oli EVO di valore europeo. Eccellenze che, accompagnate da un territorio ricchissimo di storia, arte e cultura, diventano il veicolo principale di Terrawine Festival, un evento che arriva quest’anno alla seconda edizione e punta a diventare sempre più un contenitore di contaminazioni e stimoli per operatori di settore e pubblico, all’insegna del dinamismo culturale e di un mix virtuoso tra enogastronomia locale e contenuti artistici di qualità.


Terrawine Festival si terrà presso il Palazzo del Capitano del Popolo a Orvieto domenica 21 e lunedì 22 giugno 2020, ma sarà anticipato da “Champagne & Sparkling Wine”, una Winter Edition prestigiosa a Todi sabato 30 novembre e domenica 1 dicembre 2019 e 2 Event Preview a Roma (giovedì 6 febbraio 2020) e Milano (giovedì 2 aprile 2020).

Valorizzare la terra, quindi, attraverso arte, letteratura, design, musica. Oltre a degustazioni, dibattiti, confronti, incontri informali con i produttori, masterclass, laboratori dedicati, seminari. Il tutto sotto la direzione tecnica di Simona Geri e quella artistica di Salvatore Alfieri, il quale ricorda come il cardine di questa manifestazione sia “rendere partecipe il pubblico della passione per il vino, l’olio e la terra attraverso le proprie competenze nell’enogastronomia, ma anche nell’arte e nella cultura”.
In attesa dell’evento di Orvieto con 2 giorni dedicati alla cultura della terra, del cibo e dell’olio, l’appuntamento è per sabato 30 novembre e domenica 1 dicembre 2019 a Todi, dove avremo l’occasione di assaggiare prestigiosi champagne, bollicine italiane e una selezione di grandi vini. La Sala delle Pietre di Palazzo del Popolo sarà anche luogo dove confrontarsi direttamente con produttori, distributori, importatori e professionisti del settore attraverso approfondimenti su vigne e territori, masterclass e degustazioni dedicate a temi diversi, affrontati nei seminari in programma.


Il programma completo di Terrawine Festival a Todi lo potete scaricare cliccando QUA

Zorah - Voskì 2015

In Armenia, lungo le pendici del monte Ararat, a circa 1400 metri, vengono coltivate Garandmak e Voskéat, uve locali da vigneti anche a piede franco piantate su banchi di calcare, dalle quale nasce questo vino assolutamente originale grazie ad un ricercato connubio tra aromaticità, sapidità e lunga persistenza ammandorlata. 


Si beve volentieri e io l’ho abbinato assieme ad un piatto di khorovadz, spiedini di pollo grigliato, immancabili sulle tavole armene.

Muraje Carema e il sogno di Federico e Deborah

di Andrea Petrini

A Carema non ci capiti per caso, ti fermi là perché ci vuoi andare. Carema e il suo vino devono essere necessariamente la tua destinazione, prima di tutto del cuore, perché da queste parti nulla è di moda, nulla è facile e scontato, nemmeno gestire sua maestà il nebbiolo (localmente chiamato picutener e pugnet) visto da queste parti, ovvero al confine tra il Piemonte e la Valle d’Aosta, questo vitigno viene allevato eroicamente sulle pendici del Monte Maletto, tra le rocce moreniche di origine glaciale, usando caparbiamente quella che viene definita architettura topiaria.

Di cosa sto parlando? Beh, sto descrivendo sostanzialmente una viticoltura eroica dove faticosamente, nella roccia viva, l’uomo ha creato dei terrazzamenti a secco, tra i 300 e i 700 metri di altitudine, collegati da ripidissime ed asimmetriche scale in pietra, dai quali si innalzano come soldati schiere di pilastri dalla forma tronco-conica (pilun) sui quali poggiano i graticci che sostengono i tralci delle viti. Le pergole a Carema, chiamate localmente “topia”, sono così ovvero degli scenografici “templi bacchici” (Renato Ratti) dove i pilun hanno l’importante funzione di accumulare calore di giorno rilasciandolo durante la notte, attenuando così l’escursione termica.

Architettura topiaria

A Carema, dove le vigne iscritte a questa DOC, divise in decine e decine di micro-parcelle, non superano i 19 ha totali (dimensione media di una azienda toscana), per esser un vero viticoltore eroico spesso devi conoscere e passare per “Mario”. Chi è costui? Beh, chiedetelo a Federico Santini, toscano di nascita ma piemontese di adozione, e alla sua compagna Deborah (agronomo) che nel 2012 hanno deciso di dar sfogo alla loro grande passione per il nebbiolo cercando di investire tempo ed energie in questa DOC dove tutto è difficile, anche acquistare o affittare dai vecchietti del paese una parcella di terreno vitato. Già, perché a Carema fare il vino è una questione di tradizione famigliare e nessuno accetterà di buon grado di cedere la sua micro-vigna a meno che gli acciacchi dell’età non siano davvero invalidanti o a meno che non ci sia Mario, amico fraterno di Federico, che interceda per convincere i locali che questo aspirante vignaiolo venuto da lontano sia là per fare un buon lavoro tutelando e valorizzando un territorio e, in particolare, una viticoltura che rischiava di scomparire così come successo a Boca. Non ho scritto un nome a caso, poi si capirà.

una vigna di Murjae

Federico e Deborah, dopo essere passati sopra ai tanti “Chi ve lo fa fare!” e aver superato, nel 2012, la prova generale del prode Mario che gli ha “costretti”, tanto per fargli capire a cosa andavano incontro, a vendemmiare e a vinificare due damigiane di nebbiolo, hanno iniziato a Carema la loro attività di vignaioli a fine 2014 quando hanno acquistato la prima parcella di nebbiolo in zona Laurey (versante ovest e più soleggiato della conca di Carema) dando vita al progetto Muraje (in dialetto caremese si riferisce ai muretti a secco usati per i terrazzamenti) che oggi, tra proprietà ed affitto, può contare su circa 1.3ha di vigneti divisi in 40 appezzamenti sparsi nel territorio della DOC Carema.
Le difficoltà dei nostri giovani vignaioli non finiscono qua perché la cantina di vinificazione nei primi due anni di attività ancora non è pronta e, dopo Mario, ecco emergere un altro nome caro alla recente storia di Muraje: Christoph Kunzli, anima e cuore di Le Piane, azienda simbolo del Boca DOC.

Pendenze.....

Federico e Deborah, infatti, usano la cantina e la sapienza enologica dello svizzero per vinificare le prime due vendemmie, 2015 e 2016, dalle quali sono nati due VDT: il Kræma 2015 (972 bottiglie prodotte) e il Sumié 2016 (876 bottiglie prodotte). La cantina verrà acquistata solo nel 2017 ed è situata in via Croce 20, al termine di una sfiancante salita dove è possibile apprezzare anche il campanile settecentesco di Carema alto 60 metri e considerato un capolavoro unico nel proprio genere in Piemonte.


La cantina è piccolissima, circa 60 metri quadri, dove troviamo tre vasche di cemento e qualche botte di rovere esausta. Tutto molto semplice così come lo è l’approccio enologico di Federico e Deborah: fermentazione spontanea in cemento, uso di lieviti non selezionati, lunghe permanenze sulle bucce (2/3 mesi) e successivo affinamento in legno per altri 12 mesi. Il vino, non filtrato e con l’aggiunta minima di solforosa, va poi in bottiglia. Con l’annata 2018 Muraje produrrà circa 3000 bottiglie di Carema DOC alle quali si aggiungeranno un altro migliaio di bottiglie di un secondo vino (60% nebbiolo con saldo di altri vitigni a bacca rossa locali) chiamato Lasú (come per il Sumié il nome si riferisce ad alcuni pali dell’architettura topiaria).

Grazie alla visita che ho fatto a Federico durante la Festa dell’uva e del vino di Carema ho potuto degustare il Sumié 2016 e il Lasú 2018 anche se la parte più divertente, almeno per me, sono stati gli assaggi da botte dell’annata 2018 del vino atto a divenire Carema DOC.
Il Sumié 2016 (90% nebbiolo con saldo di altri vitigni a bacca rossa locali tra cui neyret e nero d’ala) è la seconda e ultima annata vinificata presso Le Piane per cui ancora non può fregiarsi della DOC Carema. Il vino, pur nella sua gioventù, fa percepire che Federico e Deborah hanno intenzione di sovvertire la convinzione che il nebbiolo di Carema sia un vino austero ed indecifrabile. Il Sumié nel mio bicchiere è un vino moderno che non tradisce le tradizioni del territorio, ha un olfatto minerale di ardesia, profondo, ma è anche ricco di sfumature fruttate e floreali che lo rendono immediatamente piacevole. La bocca è succosa, senza deviazioni; punta dritto al finale, sapido e fruttato e di lunga persistenza.


Il Lasú 2018, il “secondo vino” di casa Muraje, è un vino gioviale, divertente, fresco e di grande leggerezza. Sa di fragoline, spezie fresche, viole, erbe di montagna ma la sua forza sta nella beva, assolutamente irresistibile soprattutto se servito fresco, causa anche un grado alcolico misurato. E’ un vino popolare che sa di condivisione e serate tra amici passate a tagliare pane e salame in spiaggia o davanti ad un camino.


Mentre arriviamo in bottaia Federico mi spiega che da sempre cerca di effettuare vinificazioni separate con lo scopo di capire le potenzialità dei vari terroir in cui sono sparsi i suoi vigneti di nebbiolo. In particolare, nella 2018, ha vinificato a parte il nebbiolo della zona Laurey perché, secondo anche i vecchietti del Paese, da quella zona da sempre si producono vini di altro spessore qualitativo. Questo nebbiolo, ovviamente ancora in affinamento, è davvero particolare, è profondo, complesso, vibrante, con una struttura importante che si percepisce dopo la deglutizione. E’ ancora indietro soprattutto se confrontato con il nebbiolo proveniente dagli altri vigneti, comprensivi anche di una parte di Laurey, che risulta già espresso, luminoso, di grande eleganza. Alla cieca avrei parlato di un Carema già in bottiglia. 

Giudizio finale? La 2018 in casa Muraje sarà una grande annata visto che le premesse ci sono tutte. P.s: non sarà prodotto il Cru “Laurey”, quello di Federico e Deborah è per ora solo un esperimento. Ah, il Carema 2017, di cui non ho parlato, uscirà il prossimo anno in circa 1.400 bottiglie.

Tenete d’occhi questi ragazzi, se lo meritano!

Az.Agr. Bisi – Igt Provincia di Pavia Rosso Frizzante “Ultrapadum” 2017


di Lorenzo Colombo

Barbera e Croatina in parti uguali, vinificazione separata ed assemblaggio in primavera. Aggiunta di lieviti e di mosto dolce delle stesse uve, rifermentazione in bottiglia, dove il vino rimane per dodici mesi prima d’essere sboccato. 


Ne esce un vino dalla spuma cremosa, strutturato, tannico, alcolico, ma dalla piacevolissima beva. Provare per credere.