InvecchiatIGP: Biondi Santi - Rosso di Montalcino 2007


di Luciano Pignataro

L’annata 2007 sta regalando veramente grandi soddisfazioni ai vini di lungo invecchiamento. Si tratta, come è noto, di un millesimo incredibilmente regolare che per le temperature riportò alla mente la 2003 ma che, a differenza di quella, ha potuto godere di piogge che hanno fornito l’acqua necessaria alle piante senza portarle allo stress idrico. La raccolta del sangiovese grosso, specificamente un clone individuato nella tenuta il Greppo di Franco Biondi Santi, iniziò il 10 settembre e andò avanti in giornate calde bilanciate da forti escursioni termiche al calar del sole.


Spesso i "vini di ricaduta" offrono belle sorprese a chi ci ha creduto e li ha conservati. Come è successo a  Salvo Passariello del gruppo Agristor che, partendo dalle Due Torri di Presenzano, ha aperto due bracerie tra Napoli e Roma chiamandole entrambe Chiancheria, il termine dialettale per macellaio. Becchiamo questa bottiglia in cantina e la curiosità, la molla indispensabile di chi si occupa di vino, ci assale. 


Il vino si presenta integro e pieno di verve, con una spiccata acidità che è il primo segnale della sua vitalità inesauribile. Affinato per un anno in grandi botti di rovere di Slavonia, ha avuto la possibilità di elevarsi con calma partendo da una materia prima eccellente. Lungo il finale, frutto e legno ben integrati, sorso appagante e tannini ficcanti ma anche setosi.


Un boccone di carne, un sorso e una chiacchiera. E si fa notte tra amici, ricordando così un grande gentiluomo toscano e quello che era stato il suo “Brunello etichetta bianca”.

Girolamo Russo - Etna Rosso " 'a Rina" 2020


di Luciano Pignataro

Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio (10%) sull’Etna in questo blend di Girolamo Russo ci regalano una beva fine ed elegante: i vigneti sono fra i 650 e gli 800 metri, lieviti indigeni, alberello, botti grandi. 


La cornice perfetta per un vino di carattere che non si dimentica.

Martino - Aglianico del Vulture Riserva 2012


di Luciano Pignataro

Pochi sanno che Martino di Rionero in Vulture è l’unica azienda lucana che può vantare oltre cento anni di storia con la stessa famiglia. Come spesso accade, le cantine presenti da più tempo in un territorio sono quelle che escono dal raggio visivo dei nuovi appassionati, sempre in cerca di novità e di realtà da poter vantare come propria scoperta. Segno dei tempi in cui il sapere dura appena un giorno, quello dei social, per poi resettarsi il giorno dopo in un eterno blob liquido dove è difficile non restare assorbiti.


Seguo l’azienda dalla metà degli anni ’90, ai tempi delle mie prime visite su questo territorio magico e onirico, da allora non è poi cambiato molto perché nonostante l’arrivo di nuove realtà dirompenti come Gerardo Giuratrabocchetti ed Elena Fucci, quasi nulla è cambiato sulla percezione di valore di mercato.
Questo è il motivo per cui la Basilicata, un po’ come la Calabria, è ancora oggi un paradiso per gli appassionati che amano girare con un po’ di cultura e tanta curiosità concludendo ottimi affari perché il rapporto fra qualità e prezzo è ancora tutto giocato a favore della domanda.


Martino, come Paternoster e le prime cantine del Vulture, nasce come vinificatore e fa fortuna proprio negli anni ’20 del secolo scorso durante il periodo della fillossera, quando questo areale con Barile, e l’Irpinia con Taurasi, diventarono l’unico rubinetto di vino perché non toccati dalla malattia della vite, un po’ grazie all’isolamento, un po’ grazie al suolo vulcanico. Ma negli anni ’30 la situazione precipitò per aggravarsi, irrimediabilmente, negli anni ’40 affrontati inizialmente con la baldanza di chi vince la guerra in pochi giorni per poi lasciare il paese completamente devastato. Il terzo colpo alla produzione, avvenuto nei due decenni successivi, venne dall’emigrazione di massa verso il nord e all’estero per cui la produzione di vino, inevitabilmente, perse peso. Alcuni, come Martino, proseguirono fortunatamente in questo lavoro e Armando riuscì a creare un vero e proprio borgo con uffici, sala degustazione e capannone di produzione nel cuore di Rionero, migliorato piano piano nel corso degli anni.


I suoi vini mi sono sempre piaciuti molto e sono ulteriormente migliorati quando, alla fine degli anni ’90, come altri vinificatori, iniziò ad acquisire anche dei terreni per lavorare la propria uva. Si tratta di rossi da Aglianico che non conoscono l’ossidazione anche a distanza di decenni, si possono aprire quando e come si vuole e sempre hanno quello scatto iniziale come i grandi grimpeur del passato. Decido di portare questo giovane 2012, ottima annata regolare, appena poco più di dieci anni, ad una cena di caccia portata per l’occasione da Alfonso Iaccarino in persona.


Il vino arriva dopo lo splendido Gaglioppo di Librandi e il mitico Duca Enrico e subito lascia emergere il carattere ostico e affascinante dell’Aglianico del Vulture: grandissima e irrinunciabile freschezza, ottimo il bilanciamento con il legno, naso profondo di amarena, arancio, cenere, tabacco, carruba, sorso lungo, gagliardo, preciso, pulito, elegante con un finale praticamente infinito che lascia la bocca asciutta e la voglia di ripetere il sorso. Abbinamento migliore con l’oca selvaggia e con la lepre.

Carolin Martino - Foto: Foodmakers

E’ una delle tante bevute realizzate con cibi forti e tipici dell’Appennino del sud che i vini di Martino mi hanno regalato e continuano a regalarmi. Posso anche usare il futuro perché il cambio di testimone è in atto, c’è Carolin, figlia di Armando, carattere determinato, impegnata anche nell’associazionismo del vino, che ci garantisce questo vino per tutto il resto del nostro vivere bevendo.

Chianti Classico Collection 2023: focus sull'annata 2021 più 11 vini da non perdere!


Si è chiusa da poco a Firenze la trentesima Chianti Classico Collection, nata come Anteprima del Chianti Classico nel 1993, che quest'anno segna un nuovo record di produttori partecipanti presenti alla Stazione Leopolda: sono 206 le aziende del Gallo Nero che il 13 e il 14 Febbraio hanno presentato le loro ultime annate di Chianti Classico annata, Riserva e Gran Selezione alla stampa e ai professionisti del settore.


Se nella passata edizione la grande novità era stata la presentazione ufficiale delle undici UGA del Chianti Classico (San Casciano, Montefioralle, Greve in Chianti, Panzano in Chianti, Lamole, Radda in Chianti, Gaiole in Chianti, San Donato in Poggio, Castellina in Chianti, Vagliagli, Castelnuovo Berardenga), quest'anno, come anticipato da Carlotta Gori, direttrice del Consorzio, la notizia più importante per i produttori riguarda l'avvio, da parte del Comitato Nazionale Vini,  dell’iter per l’inserimento delle UGA sulle etichette dei Chianti Classico Gran Selezione. 
“Siamo in attesa della firma sul decreto e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale – ha confermato la Gori – ma possiamo già dire che fra pochissimo sarà possibile mettere una delle undici UGA in etichetta”. "Inoltre - ha aggiunto la Gori  - la Gran Selezione sarà composta da un 90% minimo di sangiovese con, in caso di blend, un massimo del 10% ottenuto esclusivamente da varietà autoctone”.


A sottolineare l'ottimo stato di salute della denominazione ci ha pensato
 il 
presidente del Consorzio Vino Chianti Classico, Giovanni Manetti, che ha riportato numeri importanti per l'anno passato confermando il trend positivo di crescita globale del Gallo Nero. 

Giovanni Manetti

“Il 2022 – ha spiegato Manetti – si è chiuso infatti con un bilancio di bottiglie vendute che segna un +6% sulla media del triennio precedente. Ma preme sottolineare che è aumentato soprattutto il valore globale della denominazione, con un fatturato totale in netta crescita, che nel 2022 ha registrato un +17% rispetto all’anno precedente e addirittura +46% rispetto al 2020”. “La notizia importante – ha aggiunto – è che il valore della denominazione cresce su tutta la filiera, anche a partire dal prezzo delle uve e dello sfuso: la quotazione media ad ettolitro di vino Chianti Classico nel 2022 è stata più alta di circa il 10% rispetto all’anno precedente, offrendo una maggiore remuneratività anche alle aziende che non imbottiglianoPer quel che riguarda il prodotto imbottigliato, invece, si conferma la tendenza alla crescita del peso - in volumi venduti e in valore - delle tipologie “premium” del Chianti Classico, Riserva e Gran Selezione. Nel 2022 le due tipologie hanno infatti rappresentato, congiuntamente, circa il 45% della produzione e il 56% del fatturato".


Durante i due giorni della Chianti Classico Collection le aziende presenti hanno presentato
 750 etichette in degustazione, di cui 161 Chianti Classico Riserva e 136 Gran Selezione. 34 i campioni in anteprima della vendemmia 2022. 


Il mio focus, come sempre per mancanza di tempo e forza lavoro, si è concentrato sull'ultima annata presentata, la 2021 che, come vedremo, non ha nascosto le sue caratteristiche intrinseche all'interno del bicchiere. Il millesimo, infatti, così come in molte parti di Italia, è stata caratterizzato da un'estate decisamente calda e siccitosa, soprattutto ad Agosto, dove le 
le temperature, pur rimanendo abbastanza alte durante il giorno, si sono abbassate notevolmente negli orari notturni soprattutto nelle zone più fresche della denominazione che, in questo caso, hanno potuto contare su uve con maggiore acidità e su una vendemmia più coerenti con gli ottimali tempi di raccolta del sangiovese che, soprattutto negli areali più caldi, è stato raccolto anticipatamente causando squilibri a livello di maturazione sia tecnologica che fenolica.


I circa settanta Chianti Classico 2021 degustati, in linea generale, hanno rivelato vini dal carattere "rotondo", succoso, solare, con un alcol mai in eccesso ma, al tempo stesso, con un tannino a volte troppo verde accompagnato in qualche caso da una acidità sotto media che non aiutava il sorso a regalare il solito slancio finale tipico del sangiovese di questa denominazione dove, come accadrà probabilmente anche per la 2022, saranno fondamentali le caratteristiche intrinseche del territorio (UGA) e il "manico" del vignaiolo che dovrà preservare al meglio l'uva dai cambiamenti climatici.


Casa Emma – Chianti Classico
(90% Sangiovese, 5% Canaiolo, 5% Malvasia Nera)

Casa Emma è un’azienda vitivinicola situata nel cuore del Chianti Classico, a San Donato in Poggio (Barberino Tavarnelle), ad un’altitudine di 430 m. s.l.m. L’azienda nacque nel 1969, quando Fiorella Lepri decise di acquistare il podere dalla nobildonna fiorentina Emma Bizzarri, mantenendo il nome e le radici storiche della tenuta. Tutt’oggi Casa Emma è di proprietà della famiglia Bucalossi e gestisce 28 ettari di vigneto (sangiovese, merlot, ciliegiolo e canaliolo e malvasia) e 1000 piante d’olivo. Il suo Chianti Classico si fa apprezzare per ricordi agrumati, per slancio e finezza tannica e per una chiusura salatissima che invita di nuovo alla beva.

Castello La Leccia – Chianti Classico (100% sangiovese)

A Castellina in Chianti da qualche anno Guido Orzalesi sta lavorando alacremente per portare questa azienda agricola biologica, che vanta anche un ottimo ristorante, ai fasti che gli competono vista la bellezza dei vigneti coltivati. Questo sangiovese in purezza è accattivante, ha sentori ricchi e generosi di frutta matura e spezie ma, al tempo stesso, riesce ad avere grande sinergia acido-sapida e grande equilibrio.

Cigliano di Sopra – Chianti Classico (100% sangiovese)

La Fattoria Cigliano di Sopra è un complesso storico che fa da cornice ad una proprietà che si estende per trentadue ettari lungo le colline del Chianti Classico della zona di San Casciano in Val di Pesa. I trentadue ettari della Fattoria comprendono 8 ettari vitati da cui si ricavano i vini dell’azienda e 17 ettari di Oliveti da cui si ricava l’olio extravergine d’oliva, i rimanenti 7 ettari sono rappresentati da parchi e boschi. Il loro Chianti Classico 2021 è pura energia floreale intarsiata da sensazioni di macchia marina ed erbe aromatiche. Finale entusiasmante per saporosità.

Gagliole – Chianti Classico “Rubiolo” (sangiovese 100%)

Di proprietà della famiglia Bär da tre generazioni, l’azienda vanta vigneti coltivati secondo regimi biologici, sia a Gagliole (Castellina in Chianti), dove le vigne sono prevalentemente adagiate su antichi terrazzamenti, sia a Panzano, posizionati all’interno della famosa Conca d’Oro. Il loro Rubiolo, probabilmente, è uno dei tre Chianti Classico annata che mi hanno fatto sobbalzare dalla sedia per via di una leggerezza aromatica e di una dinamicità di beva che mi hanno fatto scordare tute le difficoltà della 2021. Bravi!

Istine – Chianti Classico (sangiovese 100%)

Angela Fronti, grazie al suo talento innato, ormai conosce il terroir di Radda in Chianti come le sue tasche e riesce a “domare” il suo sangiovese anche in annate calde come queste. Il suo Chianti Classico “base” condensa nel bicchiere tutta la freschezza e la “nervosità” del sangiovese di Radda a cui si aggiunge solo una inconsueta maturità di frutto che fornisce ulteriore succosità alla beva.

Le Miccine – Chianti Classico (sangiovese 100%)

Le Miccine è una piccola azienda a conduzione familiare di Gaiole in Chianti condotta dalla giovane e brava Paola Papini Cook che conduce in biologico sette ettari di vigneto secondo un approccio minimalista. Questa filosofia del “less in more” si ritrova sia a livello aromatico dove il vino gioca su sensazioni di fruttini di bosco e rosa antica. Fresco ed elegante al sorso e dotato di una eco sapida e floreale di entusiasmante finezza.

Monte Bernardi - Chianti Classico “Retromarcia” (sangiovese 100%)

Monte Bernardi si estende su 53 ettari dei quali 10 ettari sono vigneti, coltivati in biodinamica dal 2004, la metà dei quali ha un’età sopra i 40 anni.  I vigneti sono situati in una zona di colline a sud di Panzano. Il loro sangiovese in purezza associa materia e purezza, succosità e freschezza minerale. Un condensato, insomma, di come Panzano può essere davvero considerato un Grand Cru del Chianti Classico.

Montesecondo - Chianti Classico (sangiovese 90%, colorino 5%, canaiolo 5%)

Silvio Messana, abbandonato il sogno di diventare musicista jazz a New York, ha ripreso dal 2000 il podere di famiglia ed oggi coltiva sangiovese, canaiolo, colorino e petit verdot all’interno dell’areale di San Casciano. Il suo Chianti Classico annata è boschivo, a tratti mediterraneo e ha un’anima ricca di sensazioni ematiche. Teso, compatto, vibrante di calore, ha ritorni sapidi e agrumati nel finale.

Podere Castellinuzza – Chianti Classico (sangiovese 95%, canaiolo 5%)

Adagiata tra le braccia del Monte San Michele, il monte più alto del Chianti Classico, l’area di produzione dei vini di Lamole comprende le frazioni di Castellinuzza, Casole e Lamole. Piccoli vigneti, con viti che arrivano anche a 130 anni di età, per lo più terrazzati, immersi all'interno di boschi contornati da campi di iris, viole a mammole. Paolo Coccia, in questi luoghi fatati, da anni produce dei piccoli grandi capolavori come questo Chianti Classico che svela sentori delicati di fiori blu, ginepro, ribes a cui solo un abbrivio succulento e più avvolgente del solito rivela la generosità dell’annata.

Poggerino – Chianti Classico (100% sangiovese)

L’azienda raddese, di proprietà della famiglia Lanza, è una piccola fattoria biologica composta da 43 ettari di vigneto, oliveto, bosco, alcune antiche case coloniche ed una chiesa risalente al XII secolo. Il 2021 degustato alla Leopolda ha un incipit olfattivo che ricorda le piccole bacche selvatiche, la viola, la rosa, il mirto a cui seguono sbuffi di grafite e macchia marina. Al sapore risplende di luce propria con intensa freschezza e persistenza minerale.

Riecine - Chianti Classico (100% sangiovese)

Fondata nel 1971 dall’inglese John Dunkley, insieme alla moglie Palmina, l’azienda, col passare del tempo, è diventata un punto di riferimento grazie anche al grande impegno di Alessandro Campatelli il cui motto è mostrare l'unicità e la bellezza del sangiovese di Gaiole. L’ultima annata del loro Chianti Classico annata risulta come sempre eterea, diretta, si apre su sentori di gelatina di ribes, rosa, felce, erbe di campo. In bocca l’incipit è più che fresco, con bei rimandi di frutta croccante e un finale leggermente minerale che amplifica il ricordo dell’assaggio. 

InvecchiatIGP - Kaltern, Lago di Caldaro Classico Superiore Pfarrhof 2014


di Carlo Macchi

Pfarrhof, secondo il traduttore di Google, in italiano vuol dire “canonica”. La mia assoluta ignoranza della lingua tedesca non mi permette di valutare l’esattezza della traduzione ma sicuramente se c’è un Lago di Caldaro canonico per aromi, corpo e rispondenza al vitigno è proprio il Pfarrhof 2014.


Se negli anni ‘70 e ‘80 esisteva in Italia una denominazione con meno credito del Chianti questa era proprio il Lago di Caldaro e il tutto si inquadrava in una regione viticola dove la Schiava era il vitigno più piantato e in più coltivato con rese estremamente alte. Questo portava a vini scarichi di colore, aciduli, poveri di corpo e naturalmente il mercato (soprattutto quello tedesco) girò le spalle a questa denominazione.

Lago di Caldaro

Quando l’Alto Adige iniziò a pensare di produrre vino di qualità la prima cosa fu spiantare schiava per sostituirla con altre uve e questa tendenza, che ha portato la schiava altoatesina dal più del 70% del parco vitato a poco sopra il 10%, è continuata sino ad oggi. C’è anche un altro punto che continua a penalizzare la schiava, almeno tra diversi vecchi produttori, e cioè l’idea che sia comunque un vino povero, troppo leggero, non adatto al momento attuale. In realtà è vero proprio l’opposto, perché il mercato richiede sempre più vini leggeri ma di buon corpo, poco tannici, profumati e, se possibile, abbastanza serbevoli.


Nel mondo della schiava altoatesina, che da almeno 10/15 d’anni sta proponendosi con sempre più sicurezza (anche con vini che possono invecchiare, per fortuna) Il lago di Caldaro moderno sta piano piano risalendo la china e propone molte etichette di alto profilo che hanno anche l’innegabile vantaggio (per noi bevitori) di costare veramente poco.


Il Pfarrhof, Lago di Caldaro Classico Superiore (sulle 12 tipologie della denominazione meglio tacere…) della Cantina Sociale di Caldaro/Kaltern proviene, per disciplinare, solo da vigneti attorno al Lago di Caldaro e dovrebbe essere una schiava in purezza, ma il disciplinare permette fino al 15% di altre uve e personalmente credo che in questo 2014 una piccola percentuale di lagrein ci sia. Lo deduco dal colore che è ancora sul rubino, scarico ma brillante, mentre il naso è proprio quello della schiava, con ancora note di frutta di bosco e un inizio di terziari che portano verso erbe officinali. La bocca è fresca, netta, elegante per una tannicità solo accennata ma che indirizza la beva e la rende estremamente piacevole e persistente.


Rendiamoci conto che stiamo parlando di una schiava di nove anni, di un vino che normalmente si pensa, e sottolineo si pensa, debba essere bevuto nell’arco dell’anno successivo. In più siamo di fronte ad una 2014, che è stata sicuramente una vendemmia piovosa, fredda, difficile.


Se non fossi un discreto conoscitore della schiava altoatesina griderei al miracolo: non lo faccio solo per far capire che questa bottiglia non è un caso isolato e che sia il Lago di Caldaro che soprattutto il Santa Maddalena e in generale la Schiava DOC è oramai in molti casi un vino da invecchiare con tranquillità e da comprare con piacere, visti anche i prezzi veramente molto convenienti.

Andrea Moser

Non so se questo vino si potrà ancora trovare in commercio, quindi il grazie ad Andrea Moser, Kellermeister di Kaltern che me l’ha regalato, è ancora più sentito.

Villa Matilde - Spumante Metodo Classico Brut "Mata Rosè"


di Carlo Macchi

Può l’Aglianico essere adatto per dei Metodo Classico? Dopo aver gustato il MATA devo dire di sìiiiiii! 


Non solo belle note fruttate al naso ma una sorprendente finezza al palato grazie alla cremosità aggraziata delle bollicine. 100 mesi sui lieviti (minimo 42) ma giovanissimo. Una bella sorpresa.

Ventolaio, tutto il bello di Montalcino e delle sue vigne in altezza


di Carlo Macchi

Non ero mai andato al Ventolaio e un po’ la cosa mi bruciava, perché questa cantina era entrata prepotentemente nei radar di Winesurf più di venti anni fa, con uno strepitoso Brunello di Montalcino 2001.

credit: Partesa Wine

Ho appuntamento per le 9.30 ma sono in ritardo. E’ una cosa che non sopporto e così, per quantificarlo e comunicarlo, a Buonconvento metto il navigatore: 38 minuti. Penso che Google sia impazzito ma ha (ovviamente) ragione, perché da quando si lascia la strada asfaltata all’altezza del Passo del Lume Spento al momento in cui si arriva al Ventolaio passano buoni-buoni 15-16 minuti. In questi 15-16 minuti, tutti di strada bianca attorno ai 400/450 metri di altezza, vedo tantissimi nuovi vigneti quasi a perdita d’occhio, molti di questi piantati da cantine importantissime dell’enologia italiana, a dimostrazione che oramai a Montalcino più che il terreno conta l’altezza a cui si pianta.


Al Ventolaio, l’altezza c’è, (siamo attorno ai 450 metri) tanto che alcune annate dei primi anni 2000 sono state abbastanza sofferte, come in tutte le zone alte di Montalcino. Parlo solo di primi anni 2000 perché la famiglia Fanti è arrivata al Ventolaio negli anni ’90, e quindi i primi Brunello nascono proprio attorno all’inizio del nuovo secolo.

Maria Assunta Fanti

Mi accoglie Maria Assunta Fanti, moglie di Luigi e mamma di Manuele e Baldassarre: gli uomini sono in vigna. Camminando nella vigna di fronte alla casa capisco subito che anche Maria Assunta non disdegna per niente il lavoro di vigna, anche se il suo mondo è la cantina, anzi la nuova cantina.


Ma prima della cantina la vigna. Oltra alla vigna vecchia, la prima piantata e che è la mamma di quel 2001 di cui sono rimaste “ben” 2 bottiglie, piano piano sono arrivati a 8 ettari a Brunello, 2 a Rosso di Montalcino, e altri 8 tra Sant’Antimo e IGT. Le esposizioni sono sud/sud ovest con sesti d’impianto che, almeno nelle vigne più vecchie non si discostano dai 3000 ceppi per ettaro . “Su questo Luigi non ha mai voluto sentire ragioni. Ultimamente solo in un vigneto i ragazzi l’hanno convinto ad arrivare a 4000 piante.” Con il numero di ettari che hanno gli chiedo quanti operai ci sono in azienda e quando mi risponde “uno solo” mi convinco definitivamente che il Ventolaio è un’azienda familiare a 360°. Manuele e Baldassare sono nel vigneto pure di notte quando serve, anche se, guardando il loro parco macchine agricole, si avvalgono moltissimo della tecnologia e non disdegnano usare, per determinati vini, anche una modernissima vendemmiatrice.


Ho parlato di nuova cantina, il regno di Maria Assunta, che da quando ha scelto Maurizio Castelli come tecnico è ancora più coinvolta e convinta del suo lavoro. Nuova cantina sia come struttura che come macchinari: quasi tutto acciaio, con due sole grosse vasche in cemento che servono soprattutto per i tagli: fermentazioni molto tradizionali con macerazioni che possono arrivare anche ai 40-45 giorni. Ogni vigna ha la sua vasca e quindi ho potuto farmi un quadro della vendemmia 2022 prima che vada in legno. La cosa che mi ha stupito in questi vini grezzi è l’assoluta mancanza di sentori troppo maturi al naso: frutta rossa e nera matura c’è, ma con sensazioni fresche e in diversi casi fini note floreali. I tannini sono netti, ben definiti, per niente amari una sottesa freschezza fa da contraltare ad un corpo in qualche caso molto importante. Non sembra assolutamente la 2022 calda, asciutta, sicuramente difficile che abbiamo vissuto da pochi mesi, segno che oramai i produttori riescono a salvaguardare sempre meglio sanità e maturazione dell’uva in annate “estreme”.


L’assaggio delle ultime annate prodotte mi conferma che oramai il Ventolaio è perennemente sulla strada della qualità e se andate a dare un’occhiata ai voti della nostra guida vini ne avrete conferma. Per quanto riguarda i vini mi soffermerò soprattutto su quelli che noi non degustiamo per la guida.


Il primo dei fuori guida è lo Spiffero 2021, un rosato di sangiovese dal classico colore scarico provenzale ma dal nerbo tutto toscano. Frutta di bosco al naso ma soprattutto sapidità e decisione al palato. Un rosato per niente accondiscendente.


l’IGT Toscana Sentiero del Fante è un “rosso d’ingresso” (viene venduto in cantina a 10 euro) da provare per la finezza aromatica da vino superiore e un corpo di ottima profondità, sempre giocato su tannini dolci con sapidità in prima fila. Un vino che mi ha sorpreso piacevolmente.


Ho riassaggiato anche i loro Brunello 2017 nonché la Riserva 2016 e su questo c’è stato un “giallo” che mi sembra abbia bisogno di un approfondimento. In degustazione bendata è stato da noi considerata la migliore Riserva 2016 e con il suo punteggio di 90 punti (per noi un punteggio molto alto) è tra i migliori 12 vini rossi italiani. Mentre la riassaggio Maria Assunta assume un’aria strana e mi racconta che un importante giornale estero non solo ha valutato con un voto bassissimo questo vino ma ha anche detto che non “era adatto nemmeno per fare Brunello base”.


Indubbiamente noi di Winesurf abbiamo un sistema di valutazione diverso da tante altre guide/giornali italiani e esteri ma, avendo il vino nel bicchiere e non volendolo per forza lodare non si può però negare che abbia struttura, profondità, eleganza come minimo al pari di tante altre riserva 2016 e che anche al naso incarni perfettamente il sangiovese di Montalcino. Lo riassaggio due/tre volte, cerco di trovarci dei difetti o dei punti deboli ma non ci riesco. E’ un gran vino!


A questo punto mi rivolgo a voi lettori o ai colleghi per avere un giudizio su questa Riserva 2016. Se l’avete già assaggiata o se vi capita (ma vi consiglio di farlo capitare…) assaggiatela e fatemi sapere. Lascio Maria Assunta, la famiglia Fanti e il Ventolaio con la certezza di avere appena visitato una delle certezze enoiche meno conosciute di Montalcino.

InvecchiatIGP: Michele Chiarlo - Barolo Cerequio 1993



di Roberto Giuliani

Trent’anni cominciano ad essere un bel banco di prova persino per un Barolo, tanto più se figlio di un millesimo “minore” (se non ricordo male la ’93 fu valutata tre stelle su cinque). Ma qui stiamo parlando del signor Cerequio in quel di La Morra, ovvero uno dei cru più prestigiosi, capace di una progressione evolutiva che ha pochi confronti.


Chi conosce il territorio delle Langhe e la sua antica cultura vitivinicola, sa bene che la maggior parte dei cru (oggi Menzione Geografica Aggiuntiva, MGA) è condivisa da un congruo numero di produttori. Il Cerequio non fa eccezione, fra i nomi di spicco risaltano Batasiolo, Achille Boroli, Damilano, Roberto Voerzio, Gaja e altri. Michele Chiarlo, con i figli Alberto e Stefano, dispone di 110 ettari vitati fra Langhe, Monferrato e zona del Gavi, del Cerequio “solo” 2,5 ettari su una superficie totale di 24,12 interamente a nebbiolo (una piccola parte sconfina nel comune di Barolo), da cui ricava un vino che esce in versione Riserva solo nelle migliori annate. A conferma che la ’93 non lo è, eppure…


Sarà merito del suolo composto di marne calcaree e argillose di origine sedimentaria marina (era Tortoniana)? Sarà l’esposizione sud sud-ovest e l’altitudine superiore ai 300 metri? Sarà il pH basico, l’abbondante presenza di manganese e magnesio e la scarsa quantità di sostanze organiche?


Sta di fatto che ho davanti a me un Barolo in forma perfetta, dal colore ancora luminoso con la venatura granata in bella evidenza e senza particolari cedimenti al bordo. Pur non avendo riscontrato sentori di libreria stantia appena versato nel calice, gli ho concesso una buona mezz’ora d’aria per ricomporsi e mettere in mostra il suo bagaglio espressivo, che mette subito in evidenza una gamma ben diversa da quella che ci si aspetterebbe dopo trent’anni di vita in bottiglia: prugna, eucalipto, cacao, liquirizia, radici, genziana, di terziario avanzato neanche l’ombra, il cosiddetto goudron è appena percepibile, la sensazione generale è di balsamicità e freschezza, i funghi, il cuoio conciato, i cenni ossidativi, neanche per idea! Possibile? Al naso non gli darei più di dieci anni.


Proviamo a berne un sorso: ragazzi, dov’è il trucco? Sì, ok, una certa evoluzione si sente, e ci mancherebbe! Ma questo Barolo non ci pensa proprio a sedersi, anzi, è bello pimpante, con un tannino ancora mordace e una trama complessa e viva, succosa, piena di brio. E quella vena balsamica che rimane anche dopo minuti dall’assaggio. Davvero mi ha lasciato senza parole, secondo me qualcuno è venuto a rinfrescarlo mentre non c’ero…

Di Filippo - Grechetto Umbria IGT 2020


di Roberto Giuliani

Di Filippo, l’uomo biodinamico che sussurra ai cavalli e alle oche, non lavora più in azienda, ma la traccia del suo lavoro rimane in quest’ottimo Grechetto senza solfiti aggiunti, dall’indole generosa, che profuma di mango, agrumi maturi e fiori macerati.


Beva fresca e piena, salina, intensa, godibilissimo.

Il Vermouth Bianco Autarchico di Marco Ghezzi


di Roberto Giuliani

Non se ne parla quanto si dovrebbe, forse colpa del fatto che siamo stati invasi dagli “amari” per troppi anni, dimenticando quanto il Vermouth sia qualcosa di veramente speciale, inimitabile e, spesso, entusiasmante. Un anno fa, in occasione della presentazione ufficiale del Consorzio del Vermouth di Torino, il nostro Lorenzo Colombo ha descritto ben otto diversi tipi di Vermouth.


Su Lavinium ne abbiamo scritto più volte, uscendo anche dal territorio piemontese. Abbiamo raccontato quello rosato di Castello di Radda ottenuto da uva sangiovese, ma anche quello rosso di Sara Vezza, per il quale miei amici e parenti sono rimasti folgorati. In quel caso le uve venivano dall’azienda langhetta, nebbiolo in purezza, elaborato poi a Torino.
Questa volta ci spostiamo in Romagna, dove Marco Ghezzi dell’azienda Baccagnano di Brisighella ha voluto riesumare questo antico nettare con le uve bianche locali e una miscela di erbe tipiche della sua zona. Anche in questo caso la distillazione del prodotto è stata effettuata in Piemonte, dalla Magnoberta di Casale Monferrato.



Ma cosa ha spinto Marco Ghezzi a intraprendere questa avventura? Ce lo dice lui stesso: “È tutta colpa del decespugliatore e di quei ripidi rivali da tenere in ordine sotto la cantina. Erbe e arbusti che crescono indefessi e quasi imbattibili e il frullino che li combatte senza speranza. Le chiamiamo erbe infestanti ma sono piene di vita, di api e di farfalle. Io odio il decespugliatore. È proprio una cosa che odio fare, decespugliare. Ogni scusa è buona per rimandare, ogni distrazione benvenuta.
Questa estate mi sono messo a fare l'inventario delle erbe e ho capito cosa farne! Dietro casa avevo quasi tutto quello che mi serviva per fare del Vermouth, una delle mie bevande preferite e dentro la cantina in un tino di acciaio qualche centinaio di litri di Trebbiano Romagnolo che pensavo sarebbero diventati un rifermentato da mettere in bottiglia in autunno. Il progetto Autarchico nasce da questi pensieri strampalati: realizzare un Vermouth Bianco il più possibile romagnolo, il cui massimo dell'esotico non superi i confini nazionali. Per certe note agrumate e amare ci siamo spinti nel sud Italia per raccogliere un po' di agrumi del Mediterraneo: Arancio amaro, limone, cedro. Il nostro vermouth è extradry, con un contenuto di zuccheri minimo indispensabile secondo il disciplinare e ha una gradazione alcolica di circa 16° anche essa sullo scalino più basso del disciplinare”.


Intanto diciamo che il colore è molto vicino all’ambrato, il profumo è davvero ampio e complesso, piacevolissimo, richiama l’arancia candita, la scorza di cedro, le spezie officinali, il rabarbaro, la genziana, lo zenzero, una punta di caramella d’orzo, finocchietto selvatico, artemisia, cannella, radici pestate, mallo di noce, menta selvatica e salvia. L’assaggio non è da meno per ampiezza espressiva, in perfetta simbiosi con l’olfatto, ricco e persistentissimo, un vino liquoroso aromatizzato che non stanca neanche un po’, è giunta l’ora di farlo conoscere alle nuove generazioni, non come componente dei vari cocktail, ma come prodotto a sé, sarebbe ora anche di farlo entrare a buon diritto nella carta vini dei ristoranti di qualità…

InvecchiatIGP: Ruffino - Chianti Classico Riserva Ducale Oro 1982


di Andrea Petrini

Nel mondo del vino non ci sono tanti punti di riferimento ma, se parliamo di storicità, non possiamo non citare Ruffino, azienda vitivinicola fondata nel 1877 a Pontassieve, vicino Firenze, che da oltre cento anni è sinonimo di grandi vini di Toscana come, ad esempio, il Brunello di Montalcino Greppone Mazzi, il pluripremiato Modus e, soprattutto, il Chianti Classico Riserva Ducale e Riserva Ducale Oro, vera e proprio “cult wine” che ha consolidato l’immagine chiantigiana in tutto il mondo.


Qualche tempo fa a Roma, per salutare il debutto ufficiale della nuova etichetta del Chianti Classico Riserva Ducale Oro Gran Selezione, l’azienda, con la presenza di Sandro Sartor, presidente e amministratore delegato di Ruffino, si è tenuta una storica verticale di Riserva Ducale Oro, attraverso 5 decadi, dagli anni ’70 ai giorni nostri. Un’etichetta, come già scritto, che nel corso degli anni è diventata uno dei simboli di Ruffino. Se la creazione del Chianti Stravecchio, all’inizio dello scorso secolo, consentì all’azienda fondata dai cugini Ilario e Leopoldo Ruffino di diventare fornitore ufficiale della Casa Reale Savoia, la nascita della Riserva Ducale nel 1927, e successivamente quella della sua evoluzione “Oro” nel 1947, hanno consentito all’azienda di Pontassieve di poter custodire e tramandare sino ad oggi un pezzo importante della storia della viticoltura e dell’enologia toscana e italiana.


La degustazione, che ha visto protagoniste sette annate di Chianti Classico Riserva Ducale Oro – 1977, 1982, 1988, 1996, 2005, 2015 e 2018 – è stata condotta da Daniele Cernilli, affiancato da Gabriele Tacconi, enologo di Ruffino.


Per la rubrica InvecchiatIGP ho scelto di parlare dell’annata 1982, un millesimo che per la sua integrità gusto-olfattiva mi ha lasciato davvero di stucco.


Questo Chianti Classico Riserva Ducale Oro (75% sangiovese, 10% canaiolo, 10% malvasia e 5% colorino) è stato vinificato in tini di cemento vetrificati per circa 2 settimana a cui è seguita una macerazione post-fermentativa sulle bucce per altri 7 giorni. Al termine della malolattica, il vino ha trascorso un primo periodo di affinamento di almeno 12 mesi in botti grandi di rovere di Slavonia da 80hl, a cui ha fatto seguito un ulteriore affinamento in tini di cemento vetrificati. Figlio di una annata abbastanza mite, il vino, come scritto, spiazza il degustatore per la sua giovinezza sensoriale che, affatto, fa trapelare che sono passati ormai oltre 40 anni dalla vendemmia. 

Il Colore

Naso ancora impressionante per complessità ed eleganza. Si susseguono percezioni di the nero, timo, frutta rossa succosa, prugna, legno di sandalo fino ad arrivare a note di incenso e tamarindo. 


Al sorso il vino ha ancora energia, vigore, avvolgenza e, grazie ad una spiccata acidità fornita anche dalla presenza di malvasia bianca, ha ancora una schiena dritta e una persistenza che dall’agrume rosso vira verso percezioni speziate e di erbe aromatiche.

Sandro Sartor

La chiusura dell’articolo la lascio alle parole di Sartor che, al termine della splendida verticale, ha così commentato: “Stasera abbiamo avuto la fortuna di poter apprezzare, a distanza di molti anni dalla loro nascita, vini che sono stati realizzati dal lavoro di persone che erano in azienda prima di noi. Mi piace pensare che a distanza di oltre 40 anni si possa ancora parlare di questi vini perché qualcuno è stato in grado di custodire i terreni e l’ambiente nei quali vengono prodotti”.