di Luciano Pignataro
Pochi sanno che Martino di Rionero in Vulture è l’unica azienda lucana che può vantare oltre cento anni di storia con la stessa famiglia. Come spesso accade, le cantine presenti da più tempo in un territorio sono quelle che escono dal raggio visivo dei nuovi appassionati, sempre in cerca di novità e di realtà da poter vantare come propria scoperta. Segno dei tempi in cui il sapere dura appena un giorno, quello dei social, per poi resettarsi il giorno dopo in un eterno blob liquido dove è difficile non restare assorbiti.
Seguo l’azienda dalla metà degli anni ’90, ai tempi delle mie prime visite su questo territorio magico e onirico, da allora non è poi cambiato molto perché nonostante l’arrivo di nuove realtà dirompenti come Gerardo Giuratrabocchetti ed Elena Fucci, quasi nulla è cambiato sulla percezione di valore di mercato.
Questo è il motivo per cui la Basilicata, un po’ come la Calabria, è ancora oggi un paradiso per gli appassionati che amano girare con un po’ di cultura e tanta curiosità concludendo ottimi affari perché il rapporto fra qualità e prezzo è ancora tutto giocato a favore della domanda.
Martino, come Paternoster e le prime cantine del Vulture, nasce come vinificatore e fa fortuna proprio negli anni ’20 del secolo scorso durante il periodo della fillossera, quando questo areale con Barile, e l’Irpinia con Taurasi, diventarono l’unico rubinetto di vino perché non toccati dalla malattia della vite, un po’ grazie all’isolamento, un po’ grazie al suolo vulcanico. Ma negli anni ’30 la situazione precipitò per aggravarsi, irrimediabilmente, negli anni ’40 affrontati inizialmente con la baldanza di chi vince la guerra in pochi giorni per poi lasciare il paese completamente devastato. Il terzo colpo alla produzione, avvenuto nei due decenni successivi, venne dall’emigrazione di massa verso il nord e all’estero per cui la produzione di vino, inevitabilmente, perse peso. Alcuni, come Martino, proseguirono fortunatamente in questo lavoro e Armando riuscì a creare un vero e proprio borgo con uffici, sala degustazione e capannone di produzione nel cuore di Rionero, migliorato piano piano nel corso degli anni.
I suoi vini mi sono sempre piaciuti molto e sono ulteriormente migliorati quando, alla fine degli anni ’90, come altri vinificatori, iniziò ad acquisire anche dei terreni per lavorare la propria uva. Si tratta di rossi da Aglianico che non conoscono l’ossidazione anche a distanza di decenni, si possono aprire quando e come si vuole e sempre hanno quello scatto iniziale come i grandi grimpeur del passato. Decido di portare questo giovane 2012, ottima annata regolare, appena poco più di dieci anni, ad una cena di caccia portata per l’occasione da Alfonso Iaccarino in persona.
Il vino arriva dopo lo splendido Gaglioppo di Librandi e il mitico Duca Enrico e subito lascia emergere il carattere ostico e affascinante dell’Aglianico del Vulture: grandissima e irrinunciabile freschezza, ottimo il bilanciamento con il legno, naso profondo di amarena, arancio, cenere, tabacco, carruba, sorso lungo, gagliardo, preciso, pulito, elegante con un finale praticamente infinito che lascia la bocca asciutta e la voglia di ripetere il sorso. Abbinamento migliore con l’oca selvaggia e con la lepre.
Carolin Martino - Foto: Foodmakers |
E’ una delle tante bevute realizzate con cibi forti e tipici dell’Appennino del sud che i vini di Martino mi hanno regalato e continuano a regalarmi. Posso anche usare il futuro perché il cambio di testimone è in atto, c’è Carolin, figlia di Armando, carattere determinato, impegnata anche nell’associazionismo del vino, che ci garantisce questo vino per tutto il resto del nostro vivere bevendo.
Nessun commento:
Posta un commento