Fonzone, tutte il bello dei bianchi irpini!


di Andrea Petrini

La Campania, specialmente nella zona irpina, è una terra ricca di piccole ma importanti realtà famigliari che producono vino di assoluta qualità. La famiglia Fonzone, che gestisce circa 30 ettari (di cui circa 20 a vigneto) nelle campagne di Paternopoli (in provincia di Avellino), è una di queste importanti realtà la cui storia vinicola inizia nel 2005 quando Lorenzo Fonzone Caccese, medico chirurgo, fonda l’azienda decidendo di produrre grandi vini di territorio secondo un approccio sostenibile, sia in vigna che in cantina. 


Oggi, la nuova generazione della famiglia Fonzone Caccese, rappresentata dai figli e dalle rispettive mogli, hanno preso a cuore la mission aziendale del fondatore che ha voluto coltivare fn da subito solo ed esclusivamente varietà autoctone dell’Irpinia: Aglianico (circa 12 ettari), Fiano d’Avellino (2 ettari), Falanghina (3 ettari) e Greco di Tufo (1 ettaro e mezzo). Nei vigneti non vengono utilizzati diserbanti e la difesa fitopatologica è in accordo con i criteri di lotta integrata. I vigneti si estendono sui due versanti dell’altura, beneficiando di molteplici esposizioni e di un’altitudine che varia dai 360 m ai 430 m/slm. La collina comprende sia suoli argilloso – calcarei che suoli a tessiture più sciolte, di chiara origine sedimentaria, ed è circondata dai torrenti Fredane ed Ifalco, che ne influenzano il microclima caratterizzato da forti escursioni termiche tra il giorno e la notte. Inoltre, data la vicinanza in linea d’aria con il Vesuvio, nel sottosuolo è presente polvere vulcanica, deposito delle eruzioni avvenute nel corso dei secoli. 


La tenuta si completa con i vigneti situati a San Potito Ultra, Parolise, Altavilla Irpina e Montefusco con altitudini che, in alcuni casi, raggiungono fino ai 650 sul livello del mare.

Lorenzo Fonzone Caccese

L’azienda, che nel giro di pochi anni otterrà la certificazione biologica, è accompagnata in questo cammino dall’enologo Luca D’Attoma che, come afferma Silvia Campagnuolo Fonzone, ha una filosofia in grado di esplorare, sperimentare e valorizzare vitigni e territori per creare, con intuito e lungimiranza, vini unici”. Ad affiancarlo, seguendone le linee guida, l’enologo Francesco Moriano.


L’azienda agricola Fonzone Caccese, attualmente, produce 8 vini monovarietali di cui cinque sono stati al centro di un bellissimo pranzo romano all’interno del ristorante stellato Pulejo.


Falanghina Irpinia DOC “Le Mattine” 2021: prodotto con uve provenienti da un vigneto situato a 380 m s.l.m., in prossimità del torrente Ifalco, il vino si apprezza per la sua duttilità e l’estrema bevibilità grazie ad un impatto aromatico fragrante nelle sensazioni di mela, uva spina, mandorle fresche ed erbe mediterranee a cui segue un lieve abbraccio minerale. Sorso teso, bilanciato, che si distingue per corroborante salinità.ù

Fiano d’Avellino DOCG 2021: prodotto con uve provenienti da San Potito Ultra, a 500 m s.l.m., si distingue per un impatto olfattivo decisamente didattico per la tipologia grazie ad una dotazione olfattiva che va dalla mela stark, alla salvia, fino ad arrivare ai fiori bianchi e la scorza di limone. Bocca scattante, di piacevole rispondenza e notevole progressione sapida nel finale.


Greco di Tufo DOCG 2021: nasce dai vigneti di Altavilla Irpina e Montefusco che crescono lungo ripidi pendii tra i 650 e i 450 m s.l.m. Mostra un naso impetuoso e graffiante esprimendosi su slanci odorosi di gardenia, erbe mediterranee, mela golden, agrumi e talco. Assaggio caratterizzato dalla classica “prepotenza” del Greco dove il corpo del vino è sostenuto da una spiccata vena acido-sapida. Sfuma in persistenza su serrati toni sapidi e ammandorlati.


Fiano d’Avellino Riserva DOCG “Sequoia” 2020
: ottenuto da una selezione di uve fiano provenienti da Parolise, un piccolo borgo di 676 abitanti in prossimità di Avellino che si estende su una collina ad un’altitudine media di 500 s.l.m. Discreto e mai impetuoso, conserva i suoi inconfondibili tratti aromatici di nocciola non tostata, margherite, fiori di camomilla, buccia di mandarino, dragoncello e timo. Al gusto, pienamente equilibrato, svela con autorevolezza le sue doti di acidità e sapidità e per una veemente persistenza agrumata con tratti salmastri.


Greco di Tufo Riserva DOCG “Oikois” 2020: da Altavilla Irpina, dove l’azienda coltiva 1,5 ettari di una vecchia vigna di Greco Antico (clone rarissimo dotato di acino piccolo e succo molto più concentrato) nasce questa Riserva di Greco di Tufo di rara intensità olfattiva che dispensa profumi di frutta esotica ed agrumi, arricchiti da cenni di nespola, fiori di acacia e leggeri spunti di pietra focaia. Trova il suo pregio nella pienezza con cui interessa il palato e nella persistenza, quasi da vino rosso, che si fa largo con prepotenza col passare dei minuti, con un tono minerale che via via si fa sempre più marcato garantendo personalità ad un vino che, a mio giudizio, va aspettato in cantina ancora per tanto prima di fornire il massimo godimento al degustatore più smaliziato.


Non ho degustato ancora i loro rossi ma, da quello che mi racconta Silvia Campagnuolo Fonzone, dai loro vigneti di aglianico si ottengono per ora due vini: un Irpinia Rosato DOC e il Taurasi DOCG Riserva “Scorzagalline” che attualmente è in commercio con la 2015.

InvecchiatIGP: Sergio Mottura - Muffo 2003


di Lorenzo Colombo

Sergio Mottura viene considerato il maestro del Grechetto, colui che più di ogni altro ha valorizzato questo vitigno che, vinificato in varie modalità riesce a dare vini dalle caratteristiche assai diverse, pur mantenendo il timbro del vitigno.
Il Grechetto costituisce il vitigno principale nei due Orvieto Doc prodotti, e viene utilizzato in purezza in tre altri vini, gli Igt Civitella d’Agliano Poggio della Costa, vinificato ed affinato in acciaio, il Latour a Civitella, altro Igt Civitella d’Agliano pluripremiato dove entra in gioco il legno durante la vinificazione e l’affinamento ed infine il Muffo, certamente uno tra i più famosi ed importanti vini botritizzati d’Italia.


L’azienda, che appartiene alla famiglia Mottura sin dal 1933, è gestita da Sergio e dal figlio Giuseppe, s’estende su 130 ettari, 37 dei quali vitati ed è certificata biologica, il simbolo aziendale è l’istrice, riportato in pose diverse sulle etichette di tutti i vini fermi, ad indicare la salubrità dell’ambiente, questo animale infatti vive esclusivamente in ambienti dove esiste un equilibrio ecologico.

Il Muffo

Le uve per la sua produzione provengono da due distinti vigneti, l’Umbrico, messo a dimora nel 1968 utilizzando una selezione massale con marze selezionate tra le viti più vecchie dell’azienda ed il Mecone, impiantato nel 1988.
I due vigneti sono posti in posizione tale che facilmente vengano raggiunti, nella fase di maturazione, dalle nebbie che si sprigionano dal lago di Alviano, un lago artificiale formatosi nel 1963 a causa di uno sbarramento del fiume Tevere, effettuato per scopi di regolamentazione delle acque. Si è così formata un’oasi naturalistica di circa 900 ettari, 400 dei quali coperti da acque. Queste nebbie mattutine sono poi quelle che favoriscono lo sviluppo della Botritis Cinerea, la “muffa nobile” che conferisce ai vini le specifiche ed originali caratteristiche organolettiche.


La vinificazione si svolge gli ultimi giorni dell’anno in vasche d’acciaio dopo di che il vino viene posto in caratelli di rovere dove sosta per nove mesi ai quali ne seguono altri sei di sosta in bottiglia. Il passare degli anni ha conferito al vino un colore tra l’ambra scuro ed il topazio, con unghia tendente al giallo.

Sergio Mottura

Decisa la sua intensità olfattiva, ampio, vi si colgono una sequenza di sentori che spaziano dalla caramella all’orzo, rabarbaro, fichi al forno, datteri, uvetta passa, liquore alla liquirizia, quasi impercettibili i sentori dati dalla botrytis.

Uva con Botrytis Cinerea

Intenso anche alla bocca, strutturato, armonico, dolce non dolce, vi ritroviamo le stesse sensazioni avute all’olfatto, anche per quanto riguarda la muffa nobile, praticamente impercettibile, lunghissima la sua persistenza.

Costaripa - Valténesi Rosso “Maim” 2017


di Lorenzo Colombo

Questo vino, prodotto con uve groppello gentile coltivate sul suolo morenico della Valténesi ed affinato in botti di rovere bianco usate per 12 mesi ci è subito piaciuto molto.


Le sue note di frutto rosso selvatico e la chiusura piacevolmente amaricante ci ha ricordato le migliori Schiave altoatesine

Alla scoperta del ColFondo Agricolo


di Lorenzo Colombo

ColFondo Agricolo è un progetto al quale hanno aderito 14 produttori dei Colli Trevigiani e la sua realizzazione si basa su "dieci comandamenti" che riguardano sia la produzione del vino, dalla vigna sino all’imbottigliamento, sia consigli sul modo di consumarlo.
  1. Coltiva la tua vite tra i Colli Trevigiani, dove da sempre l’uva di collina matura al sole.
  2. Produci un vino frizzante rifermentato in bottiglia, senza sboccatura.
  3. Imbottiglia da marzo a giugno dell’anno successivo alla vendemmia e mettilo nel mercato l’anno successivo all’imbottigliamento.
  4. Scegli il tappo a corona.
  5. Usa questi vitigni: Glera minimo 70%, e/o i vitigni storici come Perera, Verdiso, Bianchetta, Boschera, Rabbiosa fino a un massimo del 30%.
  6. Utilizza uve di proprietà e selezionate personalmente.
  7. Non temere il tempo: questi vini sorprendono anche dopo anni in bottiglia.
  8. Evidenzia l’identità di ogni annata con una fascetta di colore diverso nella bottiglia.
  9. Bevilo come preferisci. Velato o limpido, la scelta è solo tua.
  10. Condividi con gli amici e una sopressa: gli abbinamenti perfetti.                    
Durante l’evento Inconfondibile, tenutosi a Milano nello scorso mese d’ottobre abbiamo partecipato ad un’interessante Masterclass condotta da Massimo Zanichelli e Gianpaolo Giacobbo durante la quale abbiamo potuto approfondire la conoscenza di questi prodotti attraverso la degustazione di sei vini, tutti della medesima annata, la 2020, eccoli:


Colli Trevigiani Igt Frizzante “ColFondo Agricolo” – Martignago

L’azienda, con sede a Maser si autodefinisce “La Cantina del Prosecco Salato” per la sapidità che caratterizza i loro vini. Quello in degustazione è prodotto con uve Glera. Color giallo paglierino luminoso con riflessi dorati. Bel naso, intenso, sentori di lieviti, agrumi, frutta a polpa bianca, accenni birrosi. Fresco ed asciutto, bella verticalità, pesca bianca, discreta la sua persistenza. 


Colli Trevigiani Igt “Di Fondo” ColFondo Agricolo – Bresolin

L’azienda si trova a Crespignana di Maser nel territorio della Docg Asolo Prosecco, il vino, biologico-vegano, viene prodotto con uve Glera. Giallo paglierino di discreta intensità. Mediamente intenso al naso, frutta bianca, agrumi maturi. Asciutto, sapido, agrumato, con spiccata vena acida, citrino, buona la persistenza. 


Colli Trevigiani Igt ColFondo Agricolo - Bele Casel

L’azienda si trova a Caerano San Marco, le uve per la produzione di questo vino (Glera, Perera e Bianchetta trevigiana) provengono dalle colline di Monfumo, il vigneto, d’oltre 80 anni d’età, è situato su suolo marnoso-argilloso, ricco di calcare ed è allevato a Doppio capovolto. La fermentazione alcolica si svolge in vasche d’acciaio dove il vino sosta per otto mesi, la rifermentazione in bottiglia è avvenuta nel mese di marzo 2021 ed ha una durata di 25 giorni, il vino è stato messo in commercio ad inizio 2022. Paglierino luminoso. Intenso al naso, erbe aromatiche, accenni floreali, note di lieviti. Note curiose e difficilmente descrivibili alla bocca, erbe aromatiche. Un poco fuori dagli schemi.


Capo degli Onesti ColFondo Agricolo – Bastía

L’azienda è situata a Saccol di Valdobbiadene, le uve per questo vino, Glera in purezza provengono da vigneti di 35 anni d’età, situati tra i 200 ed i 300 metri d’altitudine con esposizione Sud, Sud-Ovest ed allevati a Cappuccina modificata. La prima fermentazione si svolge in vasche d’acciaio dove il vino s’affina per sette mesi, dopo la presa di spuma in bottiglia c’è un ulteriore affinamento di 8 – 10 mesi prima della commercializzazione. Giallo paglierino di discreta intensità. Buona la sua intensità olfattiva, sentori di frutta gialla matura. Fresco, sapido, verticale, succoso, note d’agrumi, buona la sua vena acida e lunga la persistenza.


Colli Trevigiani Igt “L’Essenziale” – Ruge

Ruge, azienda di Valdobbiadene, prende il nome da quello dei proprietari, la famiglia “Ruggeri”, ovviamente qui di produce Valdobbiadene Prosecco Docg, ma anche un ColFondo Agricolo con Glera in purezza. Le uve provengono dalle colline di Santo Stefano, i vigneti sono situati tra i 250 ed i 350 metri d’altitudine su suolo d’origine morenica, composto d arenarie ed argille, calcareo. Vinificazione in vasche d’acciaio ed imbottigliamento in primavera per la rifermentazione, l’affinamento si protrae per almeno sei mesi. Color giallo paglierino di media intensità. Al naso sentori di pera matura. Asciutto, verticale, mediamente strutturato, con buona vena acida. 


Colli Trevigiani Igt “Sottoriva” ColFondo Agricolo - Malibran

Situata a Susegana, nella zona di produzione del Conegliano-Valdobbiadene Prosecco, oltre ai Valdobbiadene Prosecco Docg si producono due vini ColFondo Agricolo, il Credamora e il Sottoriva, quello in degustazione. Le uve per il Sottoriva provengono da un vigneto allevato a Sylvoz e situato su suolo argilloso-ferroso d’origine morenica. Paglierino di media intensità. Pulito e fresco, di buona intensità olfattiva, bel frutto bianco. Fresco e verticale, asciutto e sapido, agrumato, buona la sua persistenza. 

InvecchiatIGP: Tenuta di Capezzana - Ghiaie della Furba 1999


di Stefano Tesi

Ricordo alla perfezione il momento in cui il compianto Ugo Contini Bonacossi mi regalò questa bottiglia. Anzi, una cassa di queste bottiglie. Ai primi anni duemila avevo accompagnato alla Tenuta di Capezzana un amico, che sapeva della mia familiarità con Ugo ed era ansioso di visitare la cantina. Il nostro ospite fu gentilissimo e amichevole come sempre. E al momento del congedo insisté affinché accettassi, con mio grande imbarazzo e non poche resistenze, quell'opulento omaggio.


Il Ghiaie della Furba fu uno dei primi supertuscan, nato nel 1979 con un taglio in parti uguali di Cabernet Sauvignon, Merlot e Cabernet Franc, quest’ultimo sostituito poi nel 1998 con il Syrah al 10% e una percentuale di Cabernet Sauvignon salita al 60%. Le “Ghiaie”, come molti sanno, sono quelle che compongono il suolo su cui sorgeva la prima vigna, prossima al torrente Furba.

Dopo tanto tempo sono andato a cercare cosa era rimasto di quella cassa e l’ho ritrovata in cantina, occultata tra molte altre.

In fondo c'erano ancora due bottiglie.

Una è quella di cui vi parlo e che ho stappato ieri sera coi soliti patemi che accompagnano l'apertura dei vini molto vecchi.

Capsula un po’ danneggiata e tappo molto imbevuto, ma integro e privo di sentori inquietanti: buon segno. Ho lasciato comunque riposare e acclimatare la bottiglia un'oretta prima di versarla.


Il colore si è rivelato sorprendente, pieno e vivo oltre ogni aspettativa, fitto direi, solo appena opaco. Anche al naso il vino è risultato intatto al primo affondo e nel bicchiere, col passare dei minuti, si è aperto a poco a poco scivolando dalle note piene ma un po’ ostiche dell'inizio a una lenta sequenza di tartufi, spezie, prugne, cuoio asciutto. Dopo ancora un po’ ecco affiorare qualche accenno balsamico e una vaga coda di legno.


In bocca, invece, il Ghiaie '99 è apparso al primo impatto meno convincente: ancora apprezzabile, certo, ma un po' stanco, direi seduto. Si riprende dopo una buona mezz’ora con una sorta di sussulto riacquisendo corpo, ampiezza, finezza e nerbo e regalando a lungo sorsi godibili prima di sedersi nuovamente e facendo comunque degna compagnia a una tagliata di chianina fatta come si deve da un amico capace. Ora sono incerto che stappare la seconda bottiglia, se lasciarla invecchiare almeno un decennio per vedere l’effetto che fa o se conservarla per sempre a ricordo di quella grade persona, del vino e non, che è stato Ugo Contini Bonacossi.

Castello Bossi - Barbaione Metodo Classico


di Stefano Tesi

Mica facile oggi farsi sorprendere da un metodo classico chiantigiano a base di Sangiovese. 


Ci riesce quest’intrigante dosaggio zero, col naso intenso di crosta di pane, note fumè e biscotti Lazzaroni (i profumi della memoria), lasciati sospesi nel retrogusto e tenuti a bada dall’acidità e dalla verticalità del sorso.

Avete mai partecipato ad una "orizzontale" di bistecca?


di Stefano Tesi

A quindici anni istoriavo il diario Vitt con artistiche graduatorie dei migliori cinque gruppi, chitarristi, bassisti, cantanti, tastieristi e batteristi del rock.

Poi ho smesso.

E da allora in nessun settore mi sono più dilettato in punteggi o classifiche assolute, per via del fatto che quelle graduatorie tendono a lasciare scolpite per sempre nella pietra, come verità immutabili, giudizi il cui scopo e natura è, viceversa, quello di evolversi nel tempo e in relazione alle circostanze.


Sono rimasto quindi un po’ sorpreso quando qualche tempo fa ho ricevuto l’invito a partecipare a una “verticale della bistecca”. Nel senso, ho inteso lì per lì, del tipo di carne migliore per cucinarne una. Argomento tanto spinoso quanto complesso, soprattutto in Toscana dove la ciccia dà sempre vita a dibattiti accaniti quanto, spesso, surreali. Quando mi sono presentato alla sede della tenzone, la classica Osteria Cipolla Rossa, in pieno centro storico fiorentino, ho potuto però rincuorarmi subito.

Massimo Manetti e Marco Benvenuti

Primo, perché l’appuntamento aveva tutte le caratteristiche di una serata gaudente, anziché quello di un’inquisizione carnivora. Secondo, perché non si trattava affatto di una “verticale”, ma casomai di una “orizzontale”: i commensali erano chiamati infatti a giudicare, fra tre bistecche di razze bovine diverse (di cui si conoscevano i tempi di frollatura, stando forse in ciò la “verticalità”), quale risultasse la più gradevole al palato. Terzo, e soprattutto, perché la circostanza era improntata al massimo relativismo: fermi restando la cottura sulla medesima brace e la mano del medesimo cuoco, era ovvio che qualunque classifica avrebbe potuto riferirsi solo ed unicamente a quella serata.


Massimo Manetti, titolare del ristorante e della storica Macelleria Manetti Massimo, nata nel 1892 e divenuta il punto di riferimento per la carne al Mercato Centrale di Firenze, non ha girato intorno al perché dell’iniziativa: “Per parlare di cibo, e a maggior ragione di bistecca”, ha detto, “occorre conoscerla. E l’unico modo per farlo è assaggiare. Ecco come mai abbiamo deciso di metterne a confronto, in parità di condizioni e qui, nel locale tipico che gestiamo da quindici anni e di cui quindi abbiamo tutto sotto controllo, tre di razze diverse: Maremmana, Black Angus e Chianina. In modo da offrire in parallelo la possibilità di valutare la provenienza, le caratteristiche, la sapidità delle diverse varietà. A Firenze del resto la bistecca c’è sempre stata, come la tradizione ci insegna. Ma l’appellativo “alla Fiorentina” è venuto dopo, lo ritroviamo nell’Artusi”, ha aggiunto. “E la bistecca può essere nel filetto o nella costola. Denominatore comune lo spessore e la cottura al sangue. Nella costola la presenza dei grassi assicura maggiore sapidità e più tenerezza. Per noi la bistecca più buona e più saporita è dunque quella nella costata”.

Ed eccoci all’assaggio.

Decisivo davvero il metodo prescelto: la tre bistecche sono arrivate non contemporaneamente ma in sequenza di cottura, quindi sempre alla stessa temperatura e solo quando era già terminata la degustazione del campione precedente. Stessa brace e stesso cuoco, come detto, quindi tutto identico tranne la carne.


Nessuna ha deluso, ma non solo a parere del sottoscritto la più gradita è risultata la Maremmana, grazie alla sua marcata sapidità unita a una consistenza in bocca quasi scioglievole e tuttavia asciutta, tenera al morso e facile al taglio, succulenta ma al tempo stesso compatta e ricca di un retrogusto lungo, incisivo, mai ingombrante. Decisamente più tenace in bocca si è rivelata la carne di Black Angus, bella rossa, senza dubbio molto gustosa e saporita, ma meno suadente della precedente, sebbene assai “bisteccosa” sotto l’aspetto strettamente tattile.


Marcata, come previsto, l’identità e la personalità della Chianina, senza dubbio la più tosta delle tre bistecche per via della sua consistenza più elastica e filamentosa ed il suo gusto profondo, deciso. Buonissima, ma a conti fatti meno convincente della meno celebrata Maremmana.

Ed ora si apra il dibattito…

InvecchiatIGP: Galardi - Terra di Lavoro 2007


di Luciano Pignataro

Ogni generazione ha il suo calciatore preferito e assolutizza i propri gusti sulla base del proprio vissuto estendendoli a chi è stato e a chi sarà. Con il vino italiano, con tutto il rispetto che dobbiamo a qualche etichetta dei decenni che hanno preceduto lo scandalo del metanolo, è possibile parlare in termini assoluti dal punto di vista cronologico perché dopo il 1986 abbiamo vissuto una viticoltura completamente nuova attraverso la moda delle barrique e quella delle no-barrique, del vetro, del cemento, delle anfore, dei vini filtrati e non filtrati, dei lieviti selezionati e di quelli indigeni e tralasciano di entrare nelle mode dei sistemi di allevamento, della selezione dei cloni. Tirando le somme, possiamo fare una nostra Hall of Fame, di vini cioè che dovrebbero restare per sempre nell’immaginario collettivo.


Fare questa selezione per i rossi della Campania è sicuramente un po’ più facile, essendo questa una regione essenzialmente bianchista. Non sono pochi comunque i rossi di grande spessore, ma le specificità dell’Aglianico ha fatto da filtro facendone passare alla fine pochi. Tra questi non vi è dubbio che il Terra di Lavoro di Galardi, prima edizione 1994, è uno dei più grandi in assoluto, leggibile anche fuori dalla regione, forte di una complessità straordinaria dal punto di vista olfattivo e gustativo. Ottenuto da uve Aglianico e Piedirosso coltivate alle falde del vulcano spento di Roccamonfina (dove nasce la Ferrarelle) parte sempre un po’ lento per evolversi in maniera spettacolare dopo quattro, cinque anni.


Di questa etichetta mai però avremmo dato importanza alla 2007, abbiamo anche riletto gli appunti di degustazione scritti nel corso di una verticale fatta con Riccardo Cotarella, l’enologo della piccola azienda di Sessa Aurunca che oggi non supera le 30mila bottiglie da dieci ettari di terreno vitato: non era l’annata che aveva brillato di più nel 2010. Riprovata nella seconda verticale nel 2018 già presentava un carattere diverso e più convincente:
L’impressione iniziale è quello di tuffare il naso in un cesto di frutta e spezie dolci. Grafite in sottofondo. Non tarda la componente balsamica. Al gusto è diretto e schietto nel mostrarsi più giovane dell’età che ha. Un “trentenne palestrato" e ruggente. Al palato è rampante anche nel tannino. Spiccata sapidità dalla verve fresca e percettibile. Particolare il ritorno di zolfo anche al gusto. Buona la componente acido-sapida. Il fin di bocca richiama in modo netto gli aromi della macchia mediterranea.

Allegra Selvaggi - Galardi

La 2007 è una annata generalmente amata dagli enologi per le sue caratteristiche tranquille: certamente annata calda che ha consentito una regolare maturazione delle uve grazie alle piogge giuste al momento giusto. Calda perché per certi versi richiamava la 2003, prima vera annata torrida e tropicale di questo millennio, ma appunto, più regolare al punto di consegnare nelle cantine frutta fresca, matura e sana.


La riproviamo nelle migliori condizioni possibili: con un gruppo di cari amici in una giornata di sole adatta a festeggiare il mio onomastico in quel di Sant’Agata sui Due Golfi, con la cucina sincera e semplice dello Stuzzichino. Dalla bella cantina si decidere di spendere questo rosso 2007 su un pollo vegetariano, cresciuto sgambettando nell’Orto Ghezzi seguito dalla famiglia Di Gregorio e ne godiamo in pieno quello che secondo noi è lo zenit del vino: profumo di frutta matura con rimandi di sottobosco, note lievi di cenere e di fumé, grandissima freschezza al palato, allungo meraviglioso nel finale che resta nella memoria papillosa per un tempo lunghissimo che lascia spazio alla voglia di ripetere subito il sorso.


Un grandissimo vino di valore assoluto, straordinario, in uno spettacolare rapporto fra qualità e prezzo. Un consiglio a tutti gli appassionati: fate incetta di queste bottiglie come se non ci fosse un domani.

A Roma arriva la Sardegna di Vinodabere


Conoscere la produzione vitivinicola di un'isola affascinante come la Sardegna; girare tra i banchi di assaggio ed apprezzare la varietà enologica che questa terra sa offrire; incontrare di persona gli artigiani del vino e degustare oltre 170 etichette. Tutto questo succederà a Roma a La Sardegna di Vinodabere, alla sua prima edizione, che si terrà sabato 21 e domenica 22 gennaio all'Hotel Belsaty.


Saranno 40 le cantine sarde selezionate dal team della testata Vinodabere diretta da Maurizio Valeriani profondo conoscitore della produzione locale, che condurrà i visitatori in un viaggio alla scoperta di tante aree diverse tra loro, ovvero Alghero, Gallura, Mamoiada, Mandrolisai, Ogliastra, Orgosolo, Oristanese, Sorso, Sulcis ed il sud della Sardegna. Alcuni di questi stessi territori saranno anche i protagonisti delle masterclass in programma sabato 21 gennaio. Scopo di questa manifestazione, al suo primo anno di vita, è quello di promuovere una viticoltura dove ancora tanto è da scoprire, attraverso l'assaggio di vini prodotti da realtà anche di piccole dimensioni e meno conosciute, oltre che da cantine note in tutto il Mondo.

Tra bollicine, bianchi, rossi e rosati La Sardegna di Vinodabere sarà una esperienza vinosa fatta di mille colori, sfumature ed odori: un tour in una terra fatta di storia e di tradizioni, con lo sguardo attento e curioso sul futuro.

Programma

Sabato 21 gennaio ore 9:00: Masterclass “Il Carignano del Sulcis ed il piede franco” – condotta da Dario Cappelloni e Maurizio Valeriani. Costo 25 euro. Prenotazioni https://www.metooo.it/e/la-sardegna-di-vinodabere

Sabato 21 gennaio ore 10:30: Masterclass “Mamoiada e la viticoltura di montagna” – condotta da Dario Cappelloni, Antonio Paolini e Maurizio Valeriani. Costo 25 euro. Prenotazioni https://www.metooo.it/e/la-sardegna-di-vinodabere

Sabato 21 gennaio ore 12: Masterclass “Mandrolisai e la vocazione enoica di un territorio nel cuore della Sardegna” – condotta da Dario Cappelloni e Maurizio Valeriani. Costo 25 euro. Prenotazioni https://www.metooo.it/e/la-sardegna-di-vinodabere

Sabato 21 gennaio ore dalle 15 alle 16,30

Apertura banchi di assaggio per operatori (ristoratori, agenti, distributori, enotecari, n.1 accredito per attività commerciale) e stampa. Ingresso gratuito accreditandosi inviando una mail a vinodabere@gmail.com entro il 19 gennaio 2023.

Sabato 21 gennaio ore dalle 16,30 alle 20,30

Apertura banchi di assaggio per il pubblico (kit di degustazione 25 euro con calice incluso; acquisto on line a 20 euro https://www.metooo.it/e/la-sardegna-di-vinodabere). Per operatori (ristoratori, agenti, distributori, enotecari, n.1 accredito per attività commerciale) e stampa ingresso gratuito accreditandosi inviando una mail a vinodabere@gmail.com entro il 19 gennaio 2023.

Domenica 22 gennaio ore dalle 10 alle 12,30

Apertura banchi di assaggio per operatori (ristoratori, agenti, distributori, enotecari, n.1 accredito per attività commerciale) e stampa. Ingresso gratuito accreditandosi inviando una mail a vinodabere@gmail.com entro il 19 gennaio 2023.

Domenica 22 gennaio ore dalle 14 alle 19

Apertura banchi di assaggio per il pubblico (biglietto di ingresso 25 euro con calice incluso; acquisto on line a 20 euro https://www.metooo.it/e/la-sardegna-di-vinodabere). Per operatori (ristoratori, agenti, distributori, enotecari, n.1 accredito per attività commerciale) e stampa ingresso gratuito accreditandosi inviando una mail a vinodabere@gmail.com entro il 19 gennaio 2023.

Per il kit di degustazione per l’ingresso cumulativo nelle due giornate il costo è 40 euro, acquisto on line a 30 euro https://www.metooo.it/e/la-sardegna-di-vinodabere

Veuve Fourny Et Fils - Champagne 1er Cru Grands Terroirs


di Luciano Pignataro

Sentori agrumati di cedro a cui corrisponde una sorprendente e moderna freschezza al palato. Questo Champagne, bevuto a Capodanno, è una cuvèe di tre annate dove Chardonnay (80%) e Pinot Noir provengono da 9 ettari piantati dai fratelli Charles-Henry ed Emmanuel nella zona Vertus, nella Côte des Blancs, 


Insuperabile rapporto qualità e prezzo.

Cantine Olivella e le due anime del Piedirosso sul Vesuvio


di Luciano Pignataro

Pur amando l’Aglianico nelle sue diverse declinazioni alla domanda su quale sia il rosso tipico della Campania non posso che rispondere: Piedirosso. Si tratta di una varietà conosciuta solo dagli addetti ai lavori, si avvicina a quei rossi leggeri e bevibili come il Pelaverga, la Lacrima di Morro d’Alba, la Bonarda ed è per questo che veniva usato, insieme ad altre varietà locali simili come lo Sciascinoso, per tagliare l’aglianico. Un grande vino come Terra di lavoro, è appunto il frutto di un taglio otto a due tra Aglianico e Piedirosso.

foto: vino.tv

Si tratta di un varietà non particolarmente amata dai contadini perché poco prolifica, e neanche dai vinificatori perché ha sempre avuto problemi di riduzione e di scarsa pulizia al naso. Da una ventina di anni, grazie al lavoro di giovani enologi possiamo dire che è diventata la grande novità della Campania ovunque venga coltivato e vinificato con attenzione: il suo profumo è di geranio e di frutta fresca, inconfondibile anche a chi non ha fatto una sola lezione di approccio al vino, al palato è bevibile perché ha tannini sottili che si risolvono molto facilmente. Un vino antico ma anche moderno perché ama il caldo e il suolo sabbioso vulcanico, si è ben allocato nei Campi Flegrei, il territorio a Nord di Napoli che è un frullatone di terra, acqua e fuoco e, appunto, sul Vesuvio. E’ presente da protagonista nella doc Campi Flegrei e in quella Lacryma Christi del Vesuvio, talvolta con un saldo di aglianico.

Ciro Giordano

Tra le Cantine che hanno saputo valorizzarlo c’è Cantina Olivella a Sant’Anastasia, un paesone sul versante nord del Vulcano, famoso un tempo per il mercato di carni ovine e per il Santuario della Madonna dell’Arco, luogo di culto che raccoglie decine di miglia di persone ogni anno. Il progetto di Cantina Olivella nasce ufficialmente nel 2005 anche se al lavoro sui dodici ettari è la terza generazione. Questa azienda a noi è sempre piaciuta per il rigore filologico del progetto che non ha mai ceduto a sollecitazioni commerciali: l’azienda è sempre stata concentrata sulle uve tipiche del territorio vesuviano, la Catalanesca e il Caprettone per i bianchi, il Piedirosso e altre varietà a bacca rossa per i rossi.
Ecco allora il Piedirosso in una doppia versione che questa azienda propone da quest’anno.


"Vipt" 2021 Piedirosso Vesuvio Rosso DOP

Si tratta della etichetta classica aziendale, con una fermentazione moto semplice in acciaio e il riposo in bottiglia sino alla primavera. In queste condizioni Il Piedirosso esprime al meglio la sua fragranza fruttata e floreale ed è ideale sui piatti della tradizione contadina dell’orto vesuviano o su una semplice pasta al pomodoro.


Vesuvio Rosso 2020 DOP

Questa è la nuova etichetta in cui l’uva è in purezza ma viene lavorata in anfora. Una sperimentazione che l’azienda ha fatto anche sulla catalanesca e delle due stavolta ci è sembrata più convincente proprio quella in rosso. Si tratta infatti di un Piedirosso che non ha perso la freschezza ma ne acquisisce in profondità e anche, soprattutto all’olfatto.


Due piccoli grandi vini di una viticultura rispettosa dell’ambiente, si tratta infatti di uve certificate biologiche, che esprimono biodiversità senza scorciatoie. Imperdibili per entrare nell’anima della gente che vive alle falde del vulcano, o, come la chiamano loro, ‘a Muntagna.

InvecchiatIGP. Querciabella - Batàr 2012


di Carlo Macchi

Il fatto di essere vecchi ha pochissimi vantaggi ma uno è sicuramente quello di “aver presenziato” , alla fine degli anni ’80, all’esplosione di questo chardonnay e pinot bianco (se non sbaglio però le prime annate era solo chardonnay) fermentato e maturato in legno piccolo. Infatti Il Batàr di Querciabella è sicuramente uno dei bianchi toscani più famosi, un vero è proprio Supertuscan bianco sin dalla prima annata nel 1988. Come per ogni grande vino, specie negli anni in cui polemiche tra tradizionalisti e innovatori si sprecavano, si crearono due schieramenti: da una parte chi vedeva in questo vino la via italiana ai grandi bianchi borgognoni (allora non tanto di moda) chi invece lo accusava di essere un vino pretenzioso, dove il legno marcava troppo il vino.


Non siamo qui adesso per dire chi aveva ragione o torto, anche perché a Querciabella se ne sono sempre ampiamente strafregati, continuando per la loro strada che è passata anche attraverso la conversione alla biodinamica all’alba del nuovo secolo. Dicevo che la prima annata è stata la 1988, bevuta molti anni fa rimanendone impressionato, ma allora fare grandi bianchi in Toscana era un po’ come camminare sulle acque, un miracolo. Poi l’ho incontrato altre volte, con giudizi alterni: sia verso la fine del secolo che nei primi anni del nuovo mi era sembrato una brutta copia molto legnosa delle prime edizioni, mentre con il passare degli anni mi erano arrivate voci di un suo “alleggerimento” sul fronte dei legni e della struttura.


Per questo quando in cantina mi sono imbattuto in questo 2012 non c’ho pensato un minuto e l’ho portato in casa. Certo valutare un bianco di un’annata tra le più calde di questo caldo secolo a dieci anni dall’uscita non è certo fargli un favore ma ricordate il vecchio detto “Quando il gioco si fa duro i duri entrano in gioco”?. Con il Batàr 2012 è successo proprio questo.


Il colore era quasi dorato e il naso all’inizio quasi recalcitrante a dare segnali di vita. Ma era solo un attimo di snobbismo enoico, il farsi attendere di una bella donna che fa parte di ogni serata che si rispetti. Così dopo un po’ sono cominciate ad uscire note di crema, vaniglia accanto e sempre più intensi aromi di frutta bianca. Poi è stato il momento delle erbe e delle spezie e mano a mano che il vino si apriva e si scaldava si fondevano le sensazioni, senza però mai diventare aggressive o troppo marcate. “Eleganza, eleganza, eleganza” sembrava suggerirmi il vino. Certo è che niente denotava aromi cotti o maturi e tutto era giocato su un registro non certo urlato ma sussurrato.


Ma il meglio mi aspettava in bocca, con una sapidità quasi debordante accanto a un corpo importante ma non certo “pantagruelico”. Il legno dava segnali di vita, ma solo per indicare la strada, il resto lo facevano una freschezza soffusa e una persistenza notevole. Dava l’impressione di un vino leggero ma invece in bocca non finiva mai.


Insomma, questo Batard 2012 mi ha fatto capire che, per dirla con una battuta che “è l’eleganza del pinot bianco che traccia il solco, ma è la forza dello chardonnay che lo difende”.

De' Ricci - Vino Nobile di Montepulciano 2019


di Carlo Macchi

Color rubino scarico ma brillante, naso con frutta rossa matura accanto a spezie finissime. Bocca leggiadra, giustamente tannica, fresca, mai aggressiva. 


Una seta fatta vino. Assaggiato bendato e mai avrei detto Nobile di Montepulciano, perché una finezza del genere è hors categorie in quella zona.

Alla scoperta dello Xinomavro, il rosso più elegante della Grecia


di Carlo Macchi

Sono almeno due anni che Haris Papandreou, il nostro agente all’Avana per il vino greco ci ripete che “Lo Xinomavro assomiglia molto al Nebbiolo”. 


Per questo, quando ce ne siamo trovati di fronte una ventina, non dico che ci aspettavamo una bella serie di “quasi” Barolo ma una cosa simile. Invece le cose sono andate diversamente, ma prima di dirvi cosa è successo alcune notizie sul vitigno. La parola Xinomavro è l’unione dei termini “Acido” (xino) e “nero” (mavro), anche se gli acini e soprattutto il vino che ne deriva non è proprio di una colorazione intensa. Viene coltivato nella Macedonia Centro-Occidentale, soprattutto nella zona di Naoussa, da cui è partito per trovarsi poi a suo agio anche nelle vicine zone di Amynteo, Goumenissa, Siatista e Rapsani.


In realtà negli anni ’60 del secolo scorso era coltivato solo nella zona di Amynteo, perché Naoussa era stata colpita dalla fillossera a inizi ‘900 e da allora i vigneti non erano stati ripiantati. Il primo rempianto a Naoussa fu nel 1968 e oggi ci sono quattro DOP (oltre a Naoussa Amynteo, Goumenissa, e Rapsani) a base Xinomavro.

La degustazione

L’assaggio che la redazione di Winesurf ha fatto a fine novembre aveva 18 vini da 9 cantine diverse. La cosa che ci ha stupito di più è stato trovarsi davanti, all’inizio ad alcuni Xinomavro vinificati in bianco e rosé, sicuramente non il miglior modo per avvicinarsi a questo vitigno.
Le cose sono migliorate nettamente passando ai rossi, sia giovani che con qualche anno di invecchiamento. Mentre assaggiavamo i primi l’idea che quest’uva assomigliasse al Nebbiolo (se si lascia da parte il colore non certo intenso) si scioglieva come neve al sole, anche perché la potenza non è certo paragonabile al vitigno di Langa e i tannini sono molto più levigati e rotondi. Però una cosa che Haris ci aveva detto c’era e cioè un aroma di pomodoro che scompare però dopo qualche anno di invecchiamento. Una caratteristica molto particolare che caratterizza veramente il vitigno e non dipende assolutamente da scarsa maturazione in quanto non è affiancato da note vegetali ma da sentori fruttati.


Ad un certo punto, attorno al decimo vino degustato abbiamo cominciato a guardarci come tra giocatori di poker, attendendo che qualcuno parlasse, ma niente è successo sino al tredicesimo vino, uno Xinomavro in purezza del 2012 di Apostolos Thymiopoulos, quando quasi all’unisono abbiamo esclamato: “Ma questo sembra un Sangiovese!” In effetti sia il colore non certo rubino intenso, che le note aromatiche che soprattutto la trama tannica e la presenza al palato erano quelle di un ottimo sangiovese chiantigiano.


In definitiva: lo Xinomavro, si è dimostrato un vitigno estremamente eclettico, con caratteristiche che variano a seconda dei territori dove è coltivato che da un punto di vista altmetrico vanno dai 150-200 metri di molte vigna di Naoussa sino ai quasi 700 della DOP Amynteo. Lasciando un attimo da parte le versioni in bianco e rosé sono vini profumati, di non grande intensità colorante, dotati di profumi particolari che vanno dal pomodoro alle spezie, con una buona (ma non eccessiva) tannicità e una freschezza precisa ma non marcata. Maturano bene e sicuramente negli ultimi anni progressi tecnici in vigna e in cantina gli permettono di invecchiare bene per diversi anni.


In chiusura oltre allo Xinomavro 2012 di Thymiopoulos ci piace sottolineare anche:

XinomavRAW 2020, Oenops. Xinomavro in purezza: Colore rubino scarico, bei profumi di pomodoro e china, di media potenza con tannini giovani e ancora ruvidi ma dal finale dolce.


Kali Riza 2019 Amynteo DOP, Kir-Yianni. Vino che nasce quasi a 700 metri di altezza da xinomavro in purezza, ha un’equilibrata freschezza e i classici aromi del vitigno ben amalgamati a frutta rossa. In bocca è rotondo e armonico, con tannini ben fusi.