La Signora dell'Uva



di Luca Dresda

Mi ha detto papone che oggi si va sui monti, si sale verso il fresco, ma io je l’ho detto che voglio la neve, voglio mangiare il freddo. Quella pulita e scavata di qualche centimetro. Dice che andiamo a conoscere la signora dell’uva. Una signora che fa l’uva e poi fa il vino. Che ci farà mangiare uva che non abbiamo mai assaggiato. Dolce e scrocchiarella. Ma io non mi fido. Lo dice solo per farmi stare buono e portarmi via dal ciaffi-ciaffi tra le onde, perché dice che troppo sole gli fa male. Che suda".


In macchina si sale e si sale. Tutte salite e curve. La strada non si vede. È stretta stretta. Non ce la faccio più, legato a sto seggiolino. Ma poi, papone si ferma sotto un albero mezzo secco dove c’è una signora piccolina che sembra Ilenia, la mia amica di scuola. Scendiamo tutti con le ciabattine e ce le cambiamo. “Sennò i sassolini ti fanno male” dice la mamma. Ma io non le voglio le scarpe chiuse. Mi fa caldo. Rivoglio i miei sandalini. Qui non c’è sabbia, c’è terra secca e piante picca picca. Fa più caldo che in spiaggia. Almeno lì ci si poteva mettere nel mare.

Foto: Andrea Federici

Dietro un monte si vede il fumo che sale. È un fuoco. Ci sono anche gli aerei dei pompieri che buttano l’acqua. I canadè. Dice papone che quelle che si vedono lontano sono montagne alte alte dove quando fa freddo c’è la neve. E mi ha promesso di portarmi. La signora dell’uva è vestita tutta di scuro e ha degli occhialoni grandi. Sorride a papone e poi gli dà un abbraccio di quelli che non finiscono più. Poi mi saluta e mi dice che ora mi farà sentire un po’ di odori. Strappa delle foglioline e ce le mette sotto il naso, papone mi dice tutti i nomi. Alcuni sono nuovi, altri li ho già sentiti nella casa colorata, la casa mia di Roma. Alloro. Timo. Rosmarino. Poi, la signora dell’uva, che si chiama Giovanna, ed è la prima Giovanna che conosco, a parte la zia Anna che è la più brava a fare i dolci, si mette a camminare. E non si ferma quasi mai. 


Cerco di raggiungerla con papà che gli vuole stare vicino, ma sbuffa e suda che tra poco cade a terra svenuto. Giovanna sale scalini di sassi e di pietre e poi strappa due o tre foglioline di una pianta che è la salvia, ma è molto più profumata della salvia che conosco io. Deve essere una super salvia. E a quel punto papone mi dice che posso prendere delle palline di uva dalla pianta. È un’uva nera nera, scura scura, ma i pallini non sono grandi, e papone mi dice che il semino si può masticare perché scrocchia ed è buono. Dolce. A volte non lo capisco. Nel seme, non c’è il succo dolce. Che si mangia a fare? Non è un biscotto. E neanche un crècher. Che lo mangiamo a fare? Va beh, lo faccio per lui che è tutto entusiasta. L’uva è buona. Mmm… Buona buona. Mi piace. E siccome mi ha detto che posso mangiarla, me ne prendo altra. E un’altra. Ora mi comincio a divertire. Prendo tutti i pallini neri da tutte le piante e via. La signora dell’uva dice che se continuo così non resterà niente. Ma non è vero. Qui è pieno di piante piene di uva.


Camminiamo ancora, e io sono stanco di camminare e mi faccio prendere sulle spalle per vedere meglio tutto quello che indica la signora dell’uva. Ci sono alberi nuovi nuovi, dice che uno fa i manghi, ma non ci sono i manghi appesi, quindi deve essere una di quelle cose che dicono gli adulti per farci aprire la bocca. Poi indica in basso in alto, di qua e di là, e ci fa vedere tutto il mondo che si vede da questo posto pieno di salite, e parla di tanti anni fa e di oggi che è tutto diverso e io intanto anche basta dei pallini di uva. Ho fame. E voglio giocare un po’. Alla fine, torniamo in macchina e scendiamo giù, verso le case. La signora dell’uva ci fa entrare in una stanzetta che sembra una grotta dove ci sono tante cose di metallo, macchine, casse, reti, bottiglie piene e vuote. E su un tavolino vedo molti bicchieri, come quelli di casa appesi a testa in giù, e le bottiglie del vino. Papone è sempre il solito. Ti fa camminare, ti fa stancare, ti dà qualche contentino e poi ti porta a bere vino, che è una cosa che io non posso ancora bere. Da grande voglio capire com’è questo vino che ora dicono che mi farebbe male. Ma anche a papà non sembra fargli proprio bene, eh. Ogni volta che il bicchiere diventa vuoto, gli viene un sorriso grande come la faccia in un pagliaccio e dice cose che non si capiscono, tutte mischiate.


A un certo punto arriva l’uomo della grotta e ci saluta. È alto, biondolino e tutto sorridente. Dice che ci vuole far vedere una macchina magica. Una macchina che veste le bottiglie. E io non vedo l’ora di andare a vedere, perché sicuramente mi diverto di più che a vedere papone che svuota bicchieri e parla parla parla che non si capisce che cosa dice. Ghé, si chiama, l’uomo della grotta. Dice che viene da lontano e che lui lavora come un mulo. Ma a me non sembra di vedere la coda. Poi ci fa vedere come la macchina magica veste una bottiglia e la prepara per uscire dalla grotta e andare a casa di tutte le mamme e i paponi. È veramente magica. Fa un rumore brutto, forse è un mostro cattivo? Forse devo chiamare Spiderman e fargli dare un cazzottone sulla capoccia e farla secca, come dice papone. Forse. Ma forse no. Quando la macchina smette di urlare e ruggire Ghé alza la bottiglia e ci fa vedere il vestito. È una maglietta rossa. Dice che si chiama Luvà. “La voglio”, gli dico. E lui, ridendo: “Kiedilo a tuo papà. Magari te la kompra.” È simpatico, Ghé. Dice che lui è l’amico di Giovanna, la donna dell’uva e che insieme sono la mamma e il papà del vino. Ma io non vedo bambini. “Lui è nostro bambino.” Mi risponde Ghè. Poi mi regala un vestitino rosso. Io corro di là da papone e mamma urlando come mai. “Guardate! Ghé mi ha regalato un vestitino per bottiglie!” Ed è tutto un ridere e saltare e urlare che non ci si capisce più niente. Solo Giovanna, la donna piccina dell’uva resta ferma e sorride appena. 


Ci guarda, forse è contenta, forse si è divertita anche lei con papone che parlava e parlava, mentre noi vestivamo le bottiglie. Ma adesso dicono che è l’ora di andare a mangiare. E si salutano. Una, due, tante volte. Papone dice che vuole tornarci. La donna dell’uva dice che è stato fortunato. E papone giù a ridere, che non si sa perché. E così ce ne andiamo a fare le pappe. E i paponi e le mamme sembrano tutti così felici che ho il sospetto che anche loro abbiano visto una magia. 

Foto: Pasquale Pace

E intanto, mentre scendiamo, la donna dell’uva e l’uomo della grotta ci salutano e diventano sempre più piccoli. Che adesso quasi assomigliano ai nonni di Firenze. Mi giro e gioco con il mio vestitino rosso.”

NOTA

In questo pomeriggio a Posaù e poi in cantina, abbiamo avuto occasione di assaggiare nell’ordine:

1. L’uva del vigneto. Talmente matura che veniva voglia di vendemmiarla subito. Ma fermandoci qualche giorno avremmo potuto partecipare attivamente.


2. Rossese di Dolceacqua 2021. Prima di tutto, bisogna sottolineare la perfetta temperatura di degustazione di un Rossese, in agosto. Fresco. Dissetante. Lenitivo. Ne è seguita una breve discussione, giocosa e ironica, visto che noi stessi, con amici, il giorno prima avevamo un po’ sfiorettato sull’argomento, ovviamente in totale disaccordo e con determinazione crescente a ogni bicchiere svuotato. Ci piace molto la modernità del pensiero filosofico secondo cui ognuno fa un po’ come cacchio gli pare. Ma… se parli di temperatura di servizio è sempre al netto del prendo una bottiglia, la porto in sala, la stappo, la verso e do il tempo ai commensali di assaggiarla. E poi… poi, quello che resta se ne va lentamente in un altro mondo termico che raramente viene controllato. Quindi, i primi bicchieri si bevono bene e con gli ultimi meno ci pensiamo e meglio è. Questo è il vino che raccomandiamo in spiaggia, al tramonto, con il plaid coperto di leccornie. Lo raccomandiamo in coppia o in tris, perché va giù troppo rapidamente. Cascata del Niagara.


3. Luvaira 2018. Confesso che forse è un vino che ho mitizzato troppo. A casa mia non manca mai. Ho qualche bottiglia nascosta nella cantina di mia madre che urla e implora di essere bevuta. La mia memoria papillare mi fa accogliere il 2018 con un po’ di stupore. Per la prima volta non sento un vino dal duplice carattere, pronto al godimento e allo stesso tempo che necessita attenzione e cura. Il giusto compromesso tra leggiadria e profondità. Un vino che chiede anche attesa, riflessione, un componimento di versi non solo da stornello. Per la prima volta, sento mancare l’aspetto più romantico e sensuale. Quella femminilità controllata che ti conquista anche senza essere smodata. A quanto pare la 2018 è stata un’annata proprio così. Pulita, elegante, ma con una dimensione più piccola, esile, anche se commercialmente ineccepibile. Sono di quelle annate sul cui futuro pochi scommetterebbero, tranne poi riservare a volte sorprese, come la 1966 del Chianti Classico o della Langa. Ma ormai lo abbiamo capito, quando in un vino si sente il carattere dell’anno, siamo di fronte a un prodotto vero, lavorato in vigna e non corretto in cantina. Anche se vorremmo che mantenesse il suo livello senza mai piegarsi ai capricci della natura. Lo voglio riassaggiare. Il ritorno.


4. Posaù 2020. Ecco il banale effetto “influenzale” di una visita in vigna che ha del poetico, del prosaico e dell’epico allo stesso tempo. Il Posaù lascia tutti a bocca… chiusa. In silenzio. Di là sentiamo gli strilli dei bimbi che chissà contro quale drago staranno combattendo all’interno delle fiabe di Goetz e il piacere di questo vino fuori dall’ordinario, quasi smaccatamente profondo, cornucopia di sentori, ricco e di grande allungo ci porta lontano. Non mi chiedete dove. Il senso di una giornata.


5. Curli 2019. Dopo avermi guardato con un ghigno dolce, Giovanna mi dice che lei non fa visite. Non dice che di solito non le fa. No. Lei non fa visite in vigna e in cantina. Punto. Non mi viene istintivamente di ringraziarla in ginocchio, come dovrei forse, ma mi rendo conto di essere un prescelto. Io, e company, ovvio. Mi rendo conto che sono qui e allo stesso tempo non dovrei esserci. Ci sono e non ci sono. E nel breve tempo in cui faccio questa riflessione, lei mi va a prendere questo ultimo regalo che mi fa scendere una lacrimuccia ribelle da un occhio a scelta. Deglutisco e mi preparo. L’aspettativa è enorme. Troppe cose si sono dette e scritte. Sarà veramente lui, il mito? Glielo chiedo prima di assaggiare. E lei non risponde. Mi guarda. Sfida la mia sfacciataggine. E poi, e poi… Curli non è solo un Rossese. Nasce Rossese e poi diventa un luogo in cui si incontrano molti protagonisti dei nostri viaggi e delle nostre sortite. Uno scambio senza fine di identità e di esperienze. C’è sicuramente tanta influenza, tanta sovrastruttura, eppure è davvero un vino denso di significati. Ma direi che il termine che più lo contraddistingue è solenne. Come una messa di Beethoven, penso. Come… ma a quel punto, Ale mi si aggrappa con tutto il peso alla camicia, mi dice che ha fame e che vuole salirmi a cavallo, sulle spalle, che quasi mi cade il bicchiere a terra… e mi riporta alla realtà.

Foto: Intralcio

Facciamo in tempo a fare alcuni brevi riassaggi casuali per mischiare le carte, e la complessità e il piacere di un incontro letteralmente non previsto ci prende a tutti la mano e ci lasciamo andare a saluti e contro saluti come quando si lasciano dei parenti dopo un’estate insieme, mentre ci avviamo a cenare a Bordighera vecchia da Magiargè, un posto che nessuno può farsi mancare se passa da quelle parti.

InvecchiatIGP: Tenuta Cantagallo - Colli Toscana Centrale "Gioveto" 2009


di Roberto Giuliani

Se da un Brunello di Montalcino o un Carmignano, o ancora un Chianti Classico, puoi aspettarti di trovare una bottiglia del 2009 in grado di essere apprezzata, da un’IGT Colli Toscana Centrale fai un po’ più fatica, sebbene qui siamo a Montalbano, che non è proprio un posto qualsiasi in campo vitivinicolo.


Aggiungiamo che questo Gioveto è stato sì chiuso in confezione da 6 bottiglie nel sottoscala al buio, ma certamente gli sbalzi di temperatura in tutti questi anni li ha subiti, di estati torride ne abbiamo avute, soprattutto la 2017 e la 2022 non hanno scherzato dalle mie parti. Eppure eccolo qui, sangiovese 60%, merlot 20%, syrah 20%, 12 mesi in barriques di Allier, un anno in bottiglia e poi in vendita. Quindi era già in commercio da più di 10 anni.

La Tenuta

In verità devo dire che ero abbastanza fiducioso di non rimanere deluso, in passato avevo già aperto vecchie bottiglie sia della Tenuta Cantagallo che di Le Farnete, ambedue di proprietà della famiglia Pierazzuoli, evolute molto bene, senza ossidazioni e cedimenti marcati. E anche in questo caso è andata bene, il vino è nel calice da più di mezzora e non sembra temere l’ossigeno, non si spegne nei profumi e non accenna a terziarietà spinte. Anche il colore è ancora compatto con riflessi rubini e buona profondità, solo all’unghia accenna al granato, ma è davvero poca cosa.


All’olfatto esprime belle note di prugna matura, confettura di more, ribes nero, pepe, cacao, tabacco, leggero cuoio, sottobosco, legno di liquirizia, incenso, riesce ad esprimere ancora una piacevole vena balsamica, il tutto in equilibrio ed estremamente piacevole.


Al palato c’è un velo di maturità, si sentono in parte quelle note che ricordano il goudron, la cenere, la polvere da sparo, ma la carica fruttata e speziata è ancora dominante e c’è una buona freschezza a sostenere una materia sostanziosa e profonda, segno che nelle intenzioni dell’autore la longevità era stata contemplata, altrimenti un anno di barrique lo avrebbe ammazzato...


Un rosso a tratti austero ma pieno di calore, avvolgente, il sorso non stanca, il tannino è perfettamente integrato e setoso, non ci sono sensazioni amare, quindi ci si può sbizzarrire senza paura con una bella fiorentina alta almeno 5 centimetri, anche se a questo punto io mi orienterei più verso le carni cotte lungamente, con intingoli speziati e scuri, perché questo Gioveto ha le spalle per reggere quasi tutto lo scibile alimentare.

Cantine Garrone - Vino Rosso "Munaloss" 2020


di Roberto Giuliani

Da quella meravigliosa terra che è la Val d’Ossola, un rosso base nebbiolo con un 20% di croatina che i fratelli Matteo e Marco Garrone vinificano solo in acciaio (una settimana di macerazione). 


Sa di viole, fragole, lamponi, guizzi agrumati, liquirizia e una bevibilità da urlo, fresco e pieno di energia.

Ristorante 53 Untitled: il tapas concept a due passi da Campo de’ Fiori


di Roberto Giuliani

Può un filosofo livornese avere uno stretto rapporto con il vino e la comunicazione? Oh yes! Vino e filosofia viaggiano con l’umano essere dalla notte dei tempi, lo sanno ben oltre il sistema solare. Sto parlando di un certo Riccardo Gabriele (in Ungheria o in Giappone si chiamerebbe Gabriele Riccardo, ma qui in Italia il nome e il cognome non si invertono, tranne negli elenchi e negli indici), che conosco da quasi vent’anni e stimo fortemente, perché la sua agenzia Pr-Vino funziona alla grande, e quando mi arriva un invito a un pranzo con un’azienda, faccio carte quarantotto per esserci. Cari pisani, fatevene una ragione, del resto stiamo parlando di vino, non di porti…


E così, quando Lisa Tommasini, responsabile rapporti con la stampa ed eventi, mi ha mandato l’invito per un pranzo al ristorante 53 Untitled di Roma con i vini di Cantine Garrone (di cui parlerò in altro contesto), non ho avuto alcuna esitazione, sia perché rivedere Matteo Garrone mi faceva un gran piacere, memore di un bellissimo tour in Val d’Ossola, sia perché non ero ancora stato in questo locale di recente apertura, sito in Via del Monte della Farina 53, alle spalle del Teatro Argentina e a due passi da Campo de’ Fiori.
Una doppia esperienza di cui è davvero valsa la pena, condivisa con un drappello di wine writers, tutte vecchie conoscenze, fra le quali Andrea Petrini, il più “giovane” di quel gruppo fondato da Carlo Macchi che si chiama IGP (I Giovani Promettenti) e di cui faccio parte anch’io.

Cecilia Moro

Devo dire che l’Untitled è stato una piacevole sorpresa, gestito da due giovani donne che si sono incontrate a un evento bolognese e hanno capito che potevano fare qualcosa di grande insieme, Cecilia Moro (chef romana con lontane parentele orientali) e Mariangela Castellana (avvocato e sommelier di origini pugliesi). A onor del vero c’è anche una terza persona, il sous chef brianzolo Andrea Riva, ma venerdì 18 non era presente.

Mariangela Castellana

Il locale è piccolino, massimo 24 posti, in un’atmosfera fine, di buon gusto, con un occhio moderno ma non privo di calore, merito dell’interior designer Adalberto De Paoli. All’arrivo ci ha accolto Mariangela, che è stata fondamentale per spiegarci i piatti proposti in abbinamento con i 4 vini portati da Matteo Garrone, azienda ossolana che amo profondamente, il suo Prünent, come viene chiamato il nebbiolo dalle sue parti, è pura poesia, sia nella versione giovane che in quella denominata “10 Brente”, più complessa e dalle notevoli capacità evolutive.


Cecilia, che da sempre ama le contaminazioni, forte delle sue numerose esperienze fra cui Pascucci al Porticciolo (Fiumicino), Guido di Ugo Alciati (Serralunga d’Alba), Don Alfonso a Sant’Agata dei due Golfi (NA), ha pensato di unire la cucina della tradizione romana con quella piemontese (e non solo), proponendo dei piatti davvero gustosi e di eccellente equilibrio.

Vitello tonnato

Si parte con il “Vitello tonnato e fondo bruno” affiancato da un cucuncio (il frutto del cappero), quindi un piatto di origine squisitamente piemontese, si faceva già nel ‘700, probabilmente nel cuneese, non c’era il tonno, che qui è presente, né la maionese; tenerissimo e ricco di sapore, l’aggiunta del fondo bruno ne aumenta la profondità.

I formaggi

Segue un “tagliere di tre formaggi”: comté, caciocavallo stagionato nelle vinacce di Primitivo Pioggia (fornitore di prodotti pugliesi) e Blu cremoso del Moncenisio; quindi un francese, un pugliese e un piemontese, consistenze e sapori diversi, personalmente ho perso la testa per il Blu cremoso…

Agnolotti del plin

Arriviamo al primo: “Agnolotti del plin al tovagliolo ripieni di sugo all’amatriciana, accompagnati da crema al pecorino romano DOP”; questa volta il Piemonte si fonde con il Lazio, devo dire che il risultato è notevole, soprattutto perché il piatto non risulta per nulla pesante, ed è anche divertente intingere con le mani il raviolo nella crema, appena lo mordi esce il sugo e si fondono i sapori, davvero ottima preparazione.

Dumpling

Un altro piatto che al 53 credo sia un must: “Dumpling coda alla vaccinara su crema di pecorino, fondo bruno e angostura”. Il dumpling, anche se tradotto in italiano è “gnocco”, di fatto è un raviolo cinese, altra contaminazione, ripieno con la romanissima coda alla vaccinara e aromatizzato con l’angostura, un bitter a base di erbe aromatiche amare, molto utilizzato in cucina. La cosa che ho maggiormente apprezzato, non solo in questo piatto, è la capacità che ha Cecilia Moro di trovare un equilibrio perfetto tra ingredienti non così semplici da unire, ottenendo preparazioni allo stesso tempo ricche, originali ma mai pesanti.

Uovo morbido 63°

Chiusura in bellezza con un altro cavallo di battaglia: “Uovo morbido 63° funghi porcini, topinambur e spuma di formaggio bruno”. Qui si tocca l’apice, l’uovo si trova sotto la spuma, con il cucchiaio è bene unire le diverse componenti per sentirne l’effetto, a mio avviso esaltante; altro punto a favore della cucina di Cecilia è riuscire a creare sapori intensi senza che questi diventino eccessivi, stancanti, privi di armonia, non sono scoppiettanti ma avvolgenti; si gode senza sentirsi appesantiti, tanto che l’ottimo pane di Roscioli (che si trova a meno di 100 metri) si è esaurito per ripulire ogni piatto. Meglio di così!

La Vernaccia Nera è la vera regina di Serrapetrona


Serrapetrona, nelle Marche, è un bellissimo borgo della provincia di Macerata dove bellezze naturalistiche, artistiche ed enogastronomia di eccellenza sembrano trovare una coesione che è difficile trovare da altre parti di Italia.


A Serrapetrona, il cui nome, di origine longobarda, indica un abitato fortificato con funzioni di sbarramento a difesa dell’inizio di una valle “Petrona” di pietra, ci si arriva uscendo dalla superstrada Civitanova-Foligno percorrendo una ripida strada di circa 6 km che porta al centro del piccolo borgo medievale, che vanta oggi circa 1000 abitanti, che si staglia fiero e ieratico in un entroterra “Alto Collinare”, dominante il lago di Borgiano, con altitudini medie che vanno dai 500 fino ai 1000 metri s.l.m.


In questo luogo magico, dove la vita scorre lenta ed il senso di comunità è più forte che mai, da tempo immemore la viticoltura ha un posto culturalmente rilevante tanto che già nel 1132 d.C., durante la dominazione longobarda, lo stemma comunale riporta tra l’altro una vite con grappoli. Storicamente il vitigno principale coltivato nel territorio è la Vernaccia Nera, la regina di Serrapetrona, la cui vinificazione risale al XV secolo: secondo lo storico Conti, nella "Storia di Camerino e dintorni", si riferisce che nel Medio Evo, un polacco al soldo di truppe mercenarie, attratto dalla Vernaccia prodotta nella zona esclamasse: "Domine, Domine quare non Borgianasti regiones nostras" (Signore, Signore, perchè non hai fatto le nostre terre come Borgiano? -
Borgiano è una frazione del Comune di Serrapetrona).


Inconfutabile è che nel 1876 l’allora Ministero dell’Agricoltura pubblicò il “Bollettino Ampelografico” che dichiarava la Vernaccia “prima delle uve colorate per fornire eccellenti vini da pasto”. Ancora, nel 1893 l’Annuario Generale per la Viticoltura e l’Enologia descrive le uve da vino rosso e cita la Vernaccia così esprimendosi: “diamo il primo posto a questo vitigno……perché è uno dei vitigni caratteristici della regione marchigiana…….sia per usarne come correttivo di altri mosti e sia per farne base di un tipo di vino da pasto apprezzabile in Italia e all’estero”.

Grappolo di Vernaccia Nera

Di sicuro, inoltre, è che di Vernaccia Nera a Serrapetrona se ne è sempre piantata poca tanto che qualcuno, addirittura, la dava per estinta soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale con il conseguente abbandono delle zone rurali in favore delle città. Nel corso degli anni, fortunatamente, le cose sono decisamente migliorate grazie all’ostinazione di un piccolissimo manipolo di vignaioli che hanno fortemente voluto rilanciare la viticoltura nel territorio tante che, nel 2004, è stata istituita la DOC Serrapetrona e la DOCG Vernaccia di Serrapetrona.

Attualmente, la superficie vitata complessiva si aggira attorno ai 66 ettari dove l’uva viene coltiva da 6\7 aziende in totale per un totale, tra DOC e DOCG, di circa 100.000 bottiglie prodotte.

Esaminando in particolare i vari disciplinari di produzione, si può notare come il vino Serrapetrona DOC, la cui zona di produzione ricomprende il territorio del comune di Serrapetrona e in parte quello dei comuni di Belforte del Chienti e di San Severino Marche, deve essere prodotto per almeno il 75% di Vernaccia Nera ed è immesso al consumo non prima di 10 mesi di affinamento.


Il discorso di fa molto più intrigato ed affascinante parlando di Vernaccia di Serrapetrona DOCG visto che il disciplinare fa riferimento alla produzione solo ed esclusivamente di spumante, nelle tipologie secco e dolce, ottenuto da uve del vitigno Vernaccia Nera per almeno l’85%. Ciò che rende assolutamente unico questo vino è il fatto che lo spumante viene prodotto attraverso tre fermentazioni:

1) le uve raccolte vengono pigiate ed il mosto ottenuto è soggetto alla lisciviazione delle sostanze coloranti e di altri componenti prima della svinatura. Inizia quindi la 1° fermentazione del vino base;

2) parte delle uve, sane e raccolte a coppie, vengono messe ad appassire fino a gennaio, in modo naturale per essere poi pigiate, diraspate ed il mosto ottenuto aggiunto al vino base di cui sopra. Parte la seconda fermentazione alcolica, più lenta, e dopo due mesi essa termina lasciando spazio al processo di maturazione che riduce la presenza di acidi e tannini attraverso la precipitazione tartarica e la fermentazione malolattica;

3) il vino così ottenuto è portato in autoclavi che, con l’aggiunta di zuccheri e lieviti avvia la terza fermentazione con trattenimento della CO2 disciolta nel vino, la cosiddetta “presa di spuma” di cui al metodo “charmat”. Il prodotto vino avrà 5 atmosfere di pressione ed è così divenuto dopo altri 2 mesi lo spumante “Vernaccia di Serrapetrona”.

Il lavoro in autoclave consente l’ottenimento del “dolce” o “secca” in base al contenuto residuo degli zuccheri.

Foto: Lorenzo Vinci

Grazie all’IMT diretto da Alberto Mazzoni, ho potuto visitare il territorio e le sue aziende che mi hanno permesso, attraverso la degustazione dei loro vini, di avere un quadro più chiaro delle due denominazioni di origine per le quali, di seguito, riporto le esperienze gustative migliori.


Alberto Quaquarini – Vernaccia di Serrapetrona DOCG Secco: l’azienda, probabilmente, è la realtà imprenditoriale più importante a Serrapetrona visto che, oltre al vino, si occupa di produrre dolci di grande squisitezza. Con i suoi 35 ettari vitati a Vernaccia Nera, Monica, Luca e Mauro, che hanno preso le redini dell’azienda famigliare fondata da Alberto Quaquerini, rappresentano il maggior produttore di Vernaccia di Serrapetrona DOCG che, durante la degustazione, ho amato in questa versione secca grazie ad un naso non scontato che sa di peonia, succo di lamponi e grafite. Sorso fresco, leggiadro, misurato e pennellato da un tannino cesellato. Finale austero.


Fontezoppa – Serrapetrona DOC “Pepato” 2020
: altra grande realtà marchigiana, Fontezoppa vede divisi i suoi 35 ettari vitati tra Civitanova e Serrapetrona dove gestisce circa 20 ettari di vigneto producendo sia Serrapetrona DOC che Vernaccia di Serrapetrona DOCG. Questo “Pepato”, che ho avuto la fortuna di bere moltissime volte, conferma il fatto che il suo nome non è stato dato a caso visto che questa Vernaccia Nera in purezza esplode al naso con sensazioni speziate, soprattutto di pepe nero, per poi evolvere e sfilare su richiami di erbe aromatiche, china e refoli di frutta rossa matura. Sorso assolutamente piacevole e ben equilibrato da una trama tannica contenuta che esalta la beva rinvigorita da un finale fresco e vibrante.


Podere sul Lago – Serrapetrona DOC “Travenano” 2018
: la piccola azienda, di proprietà di Sandrino Quadraroli, sorge sopra la valle del Chienti, in un piccolo paradiso sospeso tra il lago di Borgiano e le cime che portano ai Sibillini a circa 500 metri di altezza. Questo Serrapetrona DOC, di spirito artigianale come tutta la produzione di Quadraroli, sciorina sentori di fragoline di bosco, rosa rossa selvatica, ciliegie sotto spirito e ciclamino. Bocca gustosa, intrigante, corroborata da sapida mineralità. Durevole la persistenza.


Terre di Serrapetrona (Tenuta Stefano Graidi) – Serrapetrona DOC “Collequanto” 2017
: tra le realtà più importanti e dinamiche della denominazione, Terre di Serrapetrona, appartenente e gestita dalla famiglia Graidi, è stata fondata nel 1999 con la volontà di rendere la Vernaccia Nera, vitigno sconosciuto ai più, un’eccellenza della marca maceratese. Oggi, l’azienda gestisce 20 ettari di vigneto di Vernaccia Nera, diviso in sette parcelle, e dal 2022 è in conversione biologica. Il “Collequanto”, prodotto a partire da uve non appassite, è un rosso che sfida il tempo in maniera eccellente che si rivela di misurata eleganza offrendo richiami di ribes, viola, humus, china e tabacco dolce. Ricco al palato, dona rotondità, tannini ben coesi e fusi nella struttura del vino che chiude succoso e levigato.


Colleluce – Serrapetrona DOC “Brecce Rosse” 2015
: Franca Malavolta è una donna sanguigna e caparbia e ama il suo territorio come pochissimi altri. Assieme al marito Bruno, dal 1998, gestiscono un piccolo appezzamento di terra di 4 ettari dove sudore e speranze, fatica e passione rappresentano un tutt’uno volto a dar vita a frutti che garantiscano il miglior vino possibile in base all’annata di riferimento. Questo “Brecce Rosse” 2015, figlio di un millesimo abbastanza fresco ed equilibrato, è l’unico Serrapetrona DOC che prevede un piccolissimo saldo di merlot (8%) che non va certo ad inficiare i dettami organolettici tipici della Vernaccia Nera che in questo caso viene appassita per due mesi. Il risultato è un naso appariscente che esprime un bel mix di toni di ciliegia nera, frutti di bosco, prugne, ricordi di spezie orientali e resine balsamiche. Possente e gustoso, cattura il palato con sensuale avvolgenza e brillante freschezza.


Serboni – Vernaccia di Serrapetrona DOCG Dolce “Ripanè”
: Massimo Serboni, assieme ai suoi figli, gestisce una piccola azienda famigliare dove da generazioni si coltiva e si “respira” Vernaccia Nera di grande qualità piantata sulle colline a ridosso del lago di Caccamo, dove il particolare microclima, garantisce alle uve un ideale stato di maturazione. Ripanè è un vino spumante delizioso ed accattivante nei suoi delicati profumi di fruttini di bosco e peonia passita la cui dolcezza al sorso è ben calibrata e mai stucchevole tanto da rendere questo vino un c.d. “dolce non dolce” da gustare in assoluta spensieratezza visto che non appesantisce mai il palato.

InvecchiatIGP: Cantina Tollo – Montepulciano d’Abruzzo DOC Riserva “Cagiòlo” 2008


di Andrea Petrini

A parte i fulgidi esempi altoatesini, in Italia le cooperative vitivinicole non brillano certamente per qualità diffusa anche se, devo ammettere, negli ultimi tempi le cose stanno lentamente cambiando e anche grande realtà, come ad esempio Cantina Tollo, hanno nella loro gamma di prodotto dei vini in grado di emozionare anche il degustatore più smaliziato.


Tollo, cui nome fa riferimento ad un piccolo paese in provincia di Chieti, è una cantina fondata negli anni ’60 e, a quel tempo, è diventata un punto di riferimento importante per la zona, sia dal punto di vista economico che sociale, divenendo una fonte di reddito per molti, impedendo così agli abitanti locali – e in particolare ai giovani – di spostarsi altrove per cercare migliori opportunità.


Con il tempo la cooperativa è cresciuta e da questa sono nate tre diverse aziende: Cantina Tollo, l’azienda madre, Feudo Antico, che sei concentra maggiormente sulla DOCG Tullum e l’Ho.Re.Ca, e Auramadre, progetto del 2019 che promuove la viticoltura e il vino biologici con un approccio di offerta multiregionale e multiprodotto. L’attuale Presidente del gruppo è Luciano Gagliardi, imprenditore agricolo del gruppo Tollo che, ad oggi, gestisce una superficie vitata di 2.700 ettari, coltivati da 700 viticoltori associati, che producono in totale 14 milioni di bottiglie.

Foto Andrea Di Fabio

Le vigne si estendono dal mare Adriatico fino alla maestosa montagna della Maiella, superando i 2.790 metri slm. Le principali uve coltivate sono varietà autoctone come Montepulciano d’Abruzzo, Trebbiano d’Abruzzo, Pecorino, Passerina, Cococciola. Non mancano le varietà più conosciute come Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Pinot Grigio.
Tra rossi prodotti dalla cooperativa, sicuramente il più premiato ed ambito è il Cagiòlo, Montepulciano d’Abruzzo DOP Riserva che dal 1992 rappresenta il fiore all’occhiello del gruppo teatino che, proprio per festeggiare il trentennale, ha voluto organizzare a Roma una bellissima verticale storica di questo vino in grado di sfidare il tempo.


Tra le varie annate presenti in degustazione, quella che, a mio giudizio, incarna l’animo di come dovrebbe essere un grande Montepulciano d’Abruzzo è stata la 2008. Considerata un’annata fresca in Abruzzo, ha prodotto sicuramente un Cagiòlo più fine ed elegante rispetto agli altri “fratelli” presenti in degustazione grazie ad un incipit olfattivo in cui l’overture di spezie orientali lascia spazio ad una aristocratica successione di sottobosco, modulata di ciliegia succosa, felce, more di bosco e un’idea balsamica quasi di erbe mediterranee essiccate.


Appena assaggiato avvolge il palato in maniera pacata ma al tempo stesso seducente, nel gusto ritrovo la sintesi ideale di un vino rosso d’annata fresca a cui non manca però la spinta e la profondità gustativa di un grande Montepulciano d’Abruzzo che ama farsi ricordare. La persistenza è lunga, impreziosita da costanti richiami balsamici e speziati.

Renato Fenocchio – Langhe Nebbiolo 2020


Renato Fenocchio e sua moglie Milva, contadini in Neive, hanno il dono e la sensibilità di trasformare il loro nebbiolo “base” in purissima emozione sensoriale. 


Questo 2020 ha una eleganza floreale pazzesca ed un sorso leggiadro e succoso che prende le fattezze della seta più pura che conosciate.

La magia di Andriano declinata nel suo Pinot Nero Riserva “Anrar”


Di Andrea Petrini

Andriano è uno dei comuni più piccoli dell'Alto Adige e grazie al suo clima mediterraneo è meta ambita di escursionisti e ciclisti che, già a partire dalla primavera, vogliono godersi le loro vacanze immersi in una natura caratterizzata da aria purissima, meleti e antichi vigneti. Infatti, questo piccolo borgo, a metà strada tra Bolzano e Merano, è anche una importante e storica terra da vino tanto che i viticoltori locali nel 1893 fondarono qui la cantina sociale più antica del Tirolo meridionale.


Fin dall’inizio questa piccola cooperativa sociale si distinse per la sua straordinaria intraprendenza tanto che, negli anni tra il 1896 e il 1908, la Cantina di Andriano prese parte con successo a numerose mostre e rassegne a livello internazionale fra cui le esposizioni mondiali di Roma e Vienna. In tutte, i vini di Andriano valsero all’Alto Adige premi e riconoscimenti. Questo percorso di qualità, mai abbondonato, ha avuto una ulteriore svolta positiva nel 2008 quando, con una decisione storica, la cooperativa strinse un’alleanza strategica con Cantina Terlano che si è impegnata a garantire a tutti i soci conferitori, ad oggi 60, una maggiore stabilità tecnica ed economica grazie alla quale si coltivano circa 80 ettari con la maggiore qualità produttiva possibile.


Dal punto di vista pedoclimatico è importante sapere che il villaggio di Andriano è situato a 285 metri s.l.m. sul versante occidentale dell’Adige, ai piedi del massiccio del Macaion, che gioca un ruolo fondamentale nel proteggere le viti dal freddo del nord mentre, verso Sud-Est, l’ampia apertura della valle garantisce a tutti gli appezzamenti un’esposizione solare dall’alba fino alle prime ore del pomeriggio quando poi il sole cala dietro alla montagna.


Queste caratteristiche climatiche, unite ai terreni di origine calcarea, rendono il terroir di Andriano molto tipicizzante richiedendo, al tempo stesso, molta attenzione ed esperienza nella scelta dei vitigni e dei cloni più adatti, soprattutto quando si realizzano impianti nuovi, grazie ai quali oggi le tecniche di coltivazione sono sempre più sostenibili e naturali ed in grado di permettere rese sempre più basse (basti pensare che nel totale di tutti i vitigni la resa media è di 49 hl/ha).

“Il principio ispiratore del lavoro continua a essere quello di credere nel territorio di Andriano e nel potenziale delle sue vigne. L’obiettivo condiviso è, quindi, rendere riconoscibile nel calice la provenienza e la peculiarità degli splendidi vini che scaturiscono da questi appezzamenti”.

Rudi Kofler, enologo di Cantina Andriano

I vini di Andriano Vengono suddivisi, a seconda della provenienza, della varietà di uva e dei metodi di lavorazione, in due linee: la linea “Le Selezioni” e la linea “I Classici” con protagonisti sia vitigni bianchi, Chardonnay e Sauvignon, che vitigni rossi come Merlot, Pinot Nero e Lagrein.


Anrar, il Pinot Nero Riserva che ho deciso di raccontarvi oggi, è un punto fermo fra le Selezioni della Cantina di Andriano ed è sicuramente tra i miei vini rossi altoatesini preferiti. Cresce su terreni calcarei in uno degli appezzamenti di Pinot Nero più ambiti dell’Alto Adige, a circa 470 metri di quota a Pinzon, nel comune di Egna. Le uve utilizzate provengono da un unico vigneto con esposizione verso Sud-Sudovest, in quella che in tutto l’Alto Adige si considera la culla nobile del Pinot Nero. Il vigneto è gestito da un socio conferitore storico, sicché il Pinot è vinificato con denominazione di vigna e in quantità limitata (da 4.000 a 5.000 bottiglie). Grazie all’elevata densità d’impianto (8.000 ceppi per ettaro), la resa per ceppo è molto bassa per natura. La vendemmia si esegue esattamente nel momento della maturazione organolettica ottimale, ma senza mai oltrepassare questa soglia, in modo da conservare le caratteristiche più tipiche del Pinot. Un terzo delle uve viene poi lavorato a grappolo intero, diraspando invece gli altri due terzi. L’affinamento si svolge in barrique.


Recentemente ho avuto la fortuna di degustare due millesimi di Anrar, la 2019, ovvero l’ultima in commercio, e la 2016. La prima annata, sulla base dei racconti di Rudi Klofler, enologo della cantina, è stata varia e complessa, con una alternanza di condizioni atmosferiche abbastanza estreme sia in termini di temperatura che di piogge che, soprattutto in estate, hanno creato anche danni ingenti causa grandinate violente. Nonostante tutto la vendemmia, cominciata in ritardo rispetto alle ultime annate, ha avuto tempo ottimale al fine di garantire all’uva comunque una buona maturazione.


Ciò che di questo vino mi incanta, soprattutto in annate non troppo calde come questa, è sicuramente la sua finezza perché Anrar è un pinot nero assolutamente filiforme ed essenziale dove i tratti di essenza di rosa antica, ribes e spezie rosse impreziosiscono il gusto del vino che sa essere leggero e raffinato e di grande precisione armonica. Curiosità: quest’anno Anrar 2019 è stato giudicato da una giuria internazionale, al 24° concorso nazionale del Pinot Nero, Miglior Pinot Nero d’Italia 2022.


Anrar 2016, invece, è figlio di una annata molto complicata in Alto Adige caratterizzata da gelate primaverili, temperature medie abbastanza basse e piogge che si sono protratte, fortunatamente, non oltre la metà di agosto quando è giunta la svolta meteorologica che ha salvato la vendemmia caratterizzata da giornate calde e asciutte. Rispetto all’annata vista in precedenza, questo Pinot Nero Riserva ha una impronta più speziata seguita da frutti di bosco leggermente macerati, pot-pourri, muschio e cenni di grafite. Al sorso è più carnoso della 2019, ma rimane comunque fresco, compatto e di soave leggiadria sviluppando nel finale una eco lunga e di grande charme.