InvecchiatIGP: Cantina Tollo – Montepulciano d’Abruzzo DOC Riserva “Cagiòlo” 2008


di Andrea Petrini

A parte i fulgidi esempi altoatesini, in Italia le cooperative vitivinicole non brillano certamente per qualità diffusa anche se, devo ammettere, negli ultimi tempi le cose stanno lentamente cambiando e anche grande realtà, come ad esempio Cantina Tollo, hanno nella loro gamma di prodotto dei vini in grado di emozionare anche il degustatore più smaliziato.


Tollo, cui nome fa riferimento ad un piccolo paese in provincia di Chieti, è una cantina fondata negli anni ’60 e, a quel tempo, è diventata un punto di riferimento importante per la zona, sia dal punto di vista economico che sociale, divenendo una fonte di reddito per molti, impedendo così agli abitanti locali – e in particolare ai giovani – di spostarsi altrove per cercare migliori opportunità.


Con il tempo la cooperativa è cresciuta e da questa sono nate tre diverse aziende: Cantina Tollo, l’azienda madre, Feudo Antico, che sei concentra maggiormente sulla DOCG Tullum e l’Ho.Re.Ca, e Auramadre, progetto del 2019 che promuove la viticoltura e il vino biologici con un approccio di offerta multiregionale e multiprodotto. L’attuale Presidente del gruppo è Luciano Gagliardi, imprenditore agricolo del gruppo Tollo che, ad oggi, gestisce una superficie vitata di 2.700 ettari, coltivati da 700 viticoltori associati, che producono in totale 14 milioni di bottiglie.

Foto Andrea Di Fabio

Le vigne si estendono dal mare Adriatico fino alla maestosa montagna della Maiella, superando i 2.790 metri slm. Le principali uve coltivate sono varietà autoctone come Montepulciano d’Abruzzo, Trebbiano d’Abruzzo, Pecorino, Passerina, Cococciola. Non mancano le varietà più conosciute come Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Pinot Grigio.
Tra rossi prodotti dalla cooperativa, sicuramente il più premiato ed ambito è il Cagiòlo, Montepulciano d’Abruzzo DOP Riserva che dal 1992 rappresenta il fiore all’occhiello del gruppo teatino che, proprio per festeggiare il trentennale, ha voluto organizzare a Roma una bellissima verticale storica di questo vino in grado di sfidare il tempo.


Tra le varie annate presenti in degustazione, quella che, a mio giudizio, incarna l’animo di come dovrebbe essere un grande Montepulciano d’Abruzzo è stata la 2008. Considerata un’annata fresca in Abruzzo, ha prodotto sicuramente un Cagiòlo più fine ed elegante rispetto agli altri “fratelli” presenti in degustazione grazie ad un incipit olfattivo in cui l’overture di spezie orientali lascia spazio ad una aristocratica successione di sottobosco, modulata di ciliegia succosa, felce, more di bosco e un’idea balsamica quasi di erbe mediterranee essiccate.


Appena assaggiato avvolge il palato in maniera pacata ma al tempo stesso seducente, nel gusto ritrovo la sintesi ideale di un vino rosso d’annata fresca a cui non manca però la spinta e la profondità gustativa di un grande Montepulciano d’Abruzzo che ama farsi ricordare. La persistenza è lunga, impreziosita da costanti richiami balsamici e speziati.

Renato Fenocchio – Langhe Nebbiolo 2020


Renato Fenocchio e sua moglie Milva, contadini in Neive, hanno il dono e la sensibilità di trasformare il loro nebbiolo “base” in purissima emozione sensoriale. 


Questo 2020 ha una eleganza floreale pazzesca ed un sorso leggiadro e succoso che prende le fattezze della seta più pura che conosciate.

La magia di Andriano declinata nel suo Pinot Nero Riserva “Anrar”


Di Andrea Petrini

Andriano è uno dei comuni più piccoli dell'Alto Adige e grazie al suo clima mediterraneo è meta ambita di escursionisti e ciclisti che, già a partire dalla primavera, vogliono godersi le loro vacanze immersi in una natura caratterizzata da aria purissima, meleti e antichi vigneti. Infatti, questo piccolo borgo, a metà strada tra Bolzano e Merano, è anche una importante e storica terra da vino tanto che i viticoltori locali nel 1893 fondarono qui la cantina sociale più antica del Tirolo meridionale.


Fin dall’inizio questa piccola cooperativa sociale si distinse per la sua straordinaria intraprendenza tanto che, negli anni tra il 1896 e il 1908, la Cantina di Andriano prese parte con successo a numerose mostre e rassegne a livello internazionale fra cui le esposizioni mondiali di Roma e Vienna. In tutte, i vini di Andriano valsero all’Alto Adige premi e riconoscimenti. Questo percorso di qualità, mai abbondonato, ha avuto una ulteriore svolta positiva nel 2008 quando, con una decisione storica, la cooperativa strinse un’alleanza strategica con Cantina Terlano che si è impegnata a garantire a tutti i soci conferitori, ad oggi 60, una maggiore stabilità tecnica ed economica grazie alla quale si coltivano circa 80 ettari con la maggiore qualità produttiva possibile.


Dal punto di vista pedoclimatico è importante sapere che il villaggio di Andriano è situato a 285 metri s.l.m. sul versante occidentale dell’Adige, ai piedi del massiccio del Macaion, che gioca un ruolo fondamentale nel proteggere le viti dal freddo del nord mentre, verso Sud-Est, l’ampia apertura della valle garantisce a tutti gli appezzamenti un’esposizione solare dall’alba fino alle prime ore del pomeriggio quando poi il sole cala dietro alla montagna.


Queste caratteristiche climatiche, unite ai terreni di origine calcarea, rendono il terroir di Andriano molto tipicizzante richiedendo, al tempo stesso, molta attenzione ed esperienza nella scelta dei vitigni e dei cloni più adatti, soprattutto quando si realizzano impianti nuovi, grazie ai quali oggi le tecniche di coltivazione sono sempre più sostenibili e naturali ed in grado di permettere rese sempre più basse (basti pensare che nel totale di tutti i vitigni la resa media è di 49 hl/ha).

“Il principio ispiratore del lavoro continua a essere quello di credere nel territorio di Andriano e nel potenziale delle sue vigne. L’obiettivo condiviso è, quindi, rendere riconoscibile nel calice la provenienza e la peculiarità degli splendidi vini che scaturiscono da questi appezzamenti”.

Rudi Kofler, enologo di Cantina Andriano

I vini di Andriano Vengono suddivisi, a seconda della provenienza, della varietà di uva e dei metodi di lavorazione, in due linee: la linea “Le Selezioni” e la linea “I Classici” con protagonisti sia vitigni bianchi, Chardonnay e Sauvignon, che vitigni rossi come Merlot, Pinot Nero e Lagrein.


Anrar, il Pinot Nero Riserva che ho deciso di raccontarvi oggi, è un punto fermo fra le Selezioni della Cantina di Andriano ed è sicuramente tra i miei vini rossi altoatesini preferiti. Cresce su terreni calcarei in uno degli appezzamenti di Pinot Nero più ambiti dell’Alto Adige, a circa 470 metri di quota a Pinzon, nel comune di Egna. Le uve utilizzate provengono da un unico vigneto con esposizione verso Sud-Sudovest, in quella che in tutto l’Alto Adige si considera la culla nobile del Pinot Nero. Il vigneto è gestito da un socio conferitore storico, sicché il Pinot è vinificato con denominazione di vigna e in quantità limitata (da 4.000 a 5.000 bottiglie). Grazie all’elevata densità d’impianto (8.000 ceppi per ettaro), la resa per ceppo è molto bassa per natura. La vendemmia si esegue esattamente nel momento della maturazione organolettica ottimale, ma senza mai oltrepassare questa soglia, in modo da conservare le caratteristiche più tipiche del Pinot. Un terzo delle uve viene poi lavorato a grappolo intero, diraspando invece gli altri due terzi. L’affinamento si svolge in barrique.


Recentemente ho avuto la fortuna di degustare due millesimi di Anrar, la 2019, ovvero l’ultima in commercio, e la 2016. La prima annata, sulla base dei racconti di Rudi Klofler, enologo della cantina, è stata varia e complessa, con una alternanza di condizioni atmosferiche abbastanza estreme sia in termini di temperatura che di piogge che, soprattutto in estate, hanno creato anche danni ingenti causa grandinate violente. Nonostante tutto la vendemmia, cominciata in ritardo rispetto alle ultime annate, ha avuto tempo ottimale al fine di garantire all’uva comunque una buona maturazione.


Ciò che di questo vino mi incanta, soprattutto in annate non troppo calde come questa, è sicuramente la sua finezza perché Anrar è un pinot nero assolutamente filiforme ed essenziale dove i tratti di essenza di rosa antica, ribes e spezie rosse impreziosiscono il gusto del vino che sa essere leggero e raffinato e di grande precisione armonica. Curiosità: quest’anno Anrar 2019 è stato giudicato da una giuria internazionale, al 24° concorso nazionale del Pinot Nero, Miglior Pinot Nero d’Italia 2022.


Anrar 2016, invece, è figlio di una annata molto complicata in Alto Adige caratterizzata da gelate primaverili, temperature medie abbastanza basse e piogge che si sono protratte, fortunatamente, non oltre la metà di agosto quando è giunta la svolta meteorologica che ha salvato la vendemmia caratterizzata da giornate calde e asciutte. Rispetto all’annata vista in precedenza, questo Pinot Nero Riserva ha una impronta più speziata seguita da frutti di bosco leggermente macerati, pot-pourri, muschio e cenni di grafite. Al sorso è più carnoso della 2019, ma rimane comunque fresco, compatto e di soave leggiadria sviluppando nel finale una eco lunga e di grande charme.

InvecchatIGP: Ar.Pe.Pe - Rossi di Valtellina 2004


di Lorenzo Colombo

Ar.Pe.Pe. è un nome che tutti gli appassionati di vino conoscono, l’azienda, fondata nel lontano 1860 è giunta alla sua quinta generazione attraversando nel corso degli anni anche momenti bui che hanno avuto il culmine nel 1973, quando Arturo Pellizzatti Perego fu costretto a cedere azienda (che allora si chiamava Pellizzatti) e nome. Già dieci anni dopo, nel 1984 Arturo si è però rimesso in gioco, rientrando in possesso di una parte dei vigneti nella sottozona del Grumello e, non potendo più utilizzare il proprio nome, battezzò la sua nuova azienda con il suo acronimo: Ar.Pe.Pe. Altra data fondamentale nella storia aziendale è il 2004, anno che segna la definitiva entrata in campo dei tre figli di Arturo: Isabella, Emanuele e Guido e, curiosamente, anno del vino che ci accingiamo a degustare.


Il Rosso di Valtellina è in genere un vino poco considerato dagli stessi produttori che preferiscono di gran lunga realizzare i Valtellina Superiore (e lo Sforzato). Si tratta in pratica di una denominazione di ricaduta che può essere prodotta nell’intera zona vitata della provincia di Sondrio, da Ardenno a Tirano, includendo anche vigneti situati sul versante delle Orobie, sulla sponda sinistra dell’Adda. Spesso è frutto di uve allevate nelle zone marginali e meno vocate della Docg, le zone più basse e più alte (oltre i 650 metri), oppure è prodotto da vigneti giovani, le uve dei quali non sono ancora ritenute adatte all’utilizzo nei Valtellina Superiore. Il suo affinamento obbligatorio è minimo, sei mesi a partire dal 1° dicembre dell’anno della vendemmia e non è obbligatorio l’uso del legno.


La produzione nel 2021 è stata di 3.275 ettolitri, per un totale di 747.000 bottiglie a fronte di 18.800 ettolitri e 1.576.000 bottiglie di Valtellina Superiore e di 2.440 ettolitri e 330.000 bottiglie di Sforzato.

Il vino

Prodotto per la prima volta nel 2003 come conseguenza di un’annata dall’andamento climatico torrido (quest’anno forse è peggio), tanto che l’azienda non ritenne le uve adatte a produrre i Valtellina Superiore Docg, si è ritagliato nel corso degli anni uno spazio di tutto rispetto all’interno della gamma di prodotti aziendali. Il vino che andiamo ad assaggiare è dunque frutto della seconda annata prodotta, affinato per due anni in vasche d’acciaio è stato poi posto per tre mesi in botte grande. Ne sono state prodotte 14.000 bottiglie.

Il color mattone con unghia aranciata denuncia perfettamente la sua età. All’inizio anche il naso, compresso, anche se integro, non ci entusiasma più di tanto, ma in pochissimo tempo il vino s’apre, su note terziarie ovviamente e vi cogliamo fiori appassiti, frutta secca e note balsamiche. Media la sua struttura, certamente in gioventù non sarà stato un campione di body building, ma il tempo l’ha un poco smagrito. L’eleganza però c’è tutta, il vino è sapido e succoso, ancora fresco, con una bella vena acida e tannini in equilibrio, si percepiscono sentori di radici, notevole l’armonia gustativa, buona la sua persistenza. Un vino senza cedimento alcuno, a quasi vent’anni dalla sua vendemmia.


“Il giusto tempo del nebbiolo”, come riportato in home page del sito aziendale.

Ps: siamo andati alla ricerca di informazioni su questo vino (dell’annata 2004 ovviamente) e abbiamo trovato che la Guida Duemilavini di AIS del 2008 gli assegnò 4 grappoli, una valutazione eccellente per un vino che a quel tempo costava meno di 10 euro.

Ps 2: attualmente il Rosso di Valtellina di Ar.Pe.Pe viene prodotto con uve provenienti da vigneti situati tra i 350 ed i 600 metri d’altitudine che danno una resa di 50 ettolitri/ha. La fermentazione si svolge in tini troncoconici di legno da 50 ettolitri con una macerazione sulle bucce che può arrivare ad oltre due mesi, il suo affinamento avviene in botti da 50 ettolitri dove sosta per cinque mesi, prima d’essere posto in vasche di cemento. Ne vengono prodotte oltre 90.000 bottiglie/anno.

Ps 3: noi ce lo siamo gustato con un coniglio in umido con funghi porcini secchi e dobbiamo dire che si è trattato di un abbinamento azzeccato.

Fabio Perrone - Langhe Favorita “Parroco” 2021


di Lorenzo Colombo

Da un vigneto situato a Santo Stefano Belbo a 350 metri d’altitudine e da un vitigno poco conosciuto, anche se i suoi sinonimi sono Vermentino e Pigato, Fabio Perrone ricava questo vino fresco e sapido, caratterizzato da note di frutta bianca, agrumi. 


Il finale di bocca chiude su sentori d’erbe aromatiche

Domaine Tariquet - Igp Côtes de Gascogne “Côté” 2019


di Lorenzo Colombo

Ercé è un piccolissimo villaggio situato nel Parc naturel régional des Pyrénées Ariégeoises, ai piedi dei Pirenei nel dipartimento di Ariège, nella regione dell'Occitania, tanto piccolo che il numero dei suoi abitati è di poco inferiore all’altitudine del villaggio che è di 574 metri s.l.m. La fama di questo villaggio, tra la fine Ottocento e l’inizio Novecento era legata ad una particolarità dei suoi abitanti, specializzati in qualcosa di piuttosto insolito, ovvero l’addestramento degli orsi. A Ercé si trovava infatti l’unica scuola francese atta a sviluppare questo particolare talento.


Anche la storia del Domaine Tariquet inizia con gli orsi, infatti il fondatore del Domaine, un certo Artaud, era un addestratore di questi plantigradi, mestiere che lo portò in giro per il mondo, sino a che non si stabilì negli Stati Uniti.Rientrato infine in Francia nel 1912 s’innamorò del castello di Tariquet e, richiamato in patria il figlio Jeanne Pierre il quale, rimasto in America, s’era sposato con Pauline, anche lei originaria del dipartimento d’Ariège, acquistano insieme la diroccata dimora di Tariquet ed i sette ettari di vigneto circostante, completamente devastato dalla fillossera.


Senza addentrarci ulteriormente nella storia del Domaine e nelle vicissitudini degli Artaud, cosa che potete leggervi qui, arriviamo direttamente al secondo dopoguerra, quando la proprietà passa di mano e viene acquistata da Pierre Grassa –ex barbiere- e dalla moglie Hélène che ristrutturano la proprietà e, assieme ai quattro figli iniziano la produzione e la commercializzazione di Bas-Armagnac. Arriviamo infine al 1982, quando inizia la produzione di vini bianchi. Attualmente il Domaine Tariquet dispone di 900 ettari, dai quali, i figli ed i nipoti di Pierre traggono le uve per produrre diverse tipologie di Bas-Armagnac oltre a dieci vini bianchi e due rosé, la maggior parte dei vini utilizzano come chiusura lo screwcap, mentre per altri si usano tappi in materiale sintetico.


Numerosi i vitigni coltivati, soprattutto a bacca bianca: Chardonnay, Sauvignon blanc, Colombard, Ugni blanc, Gros e Petit Manseng, Chenin, Semillon, mentre per le uve a bacca rossa, utilizzate per i vini rosé, troviamo: Merlot, Cabernet franc, Syrah, Tannat e Marselan. L’Igp Côtes de Gascogne si sviluppa su circa 13.500 ettari di superficie vitata dalla quale si ricavano, da numerosi vitigni, oltre 1.100.000 ettolitri di vino all’anno, l’85% del quale bianco, l’8% rosé ed il 7% rosso.


Vi si trovano tre distinte tipologie di terroir, il Bas-Armagnac, dove si trovano circa i 2/3 della superficie vitata, qui, i suoli leggeri, chiamati “sables fauves” sono particolarmente adatti alla produzione di vini bianchi, il Ténarèze, con suoli calcarei chiamati “peyrusquettes”, in parte con argilla in profondità “terreforts” sono più adatti ai vini rossi, infine l’Haut-Armagnac con suoli di natura argillo-calcarea dove i vini hanno un carattere simile a quelli del Ténarèze.

Il vino in degustazione

L’Igp Côtes de Gascogne “Côté” 2019 è frutto di un blend in parti uguali di Chardonnay e Sauvignon blanc, due vitigni dalle caratteristiche opposte che si fondono in questo vino. La vinificazione avviene in ambiente protetto, in assenza d’ossigeno, le uve vengono pressate a 0,6 Bar e la fermentazione, condotta a bassa temperatura prosegue per circa un mese, l’imbottigliamento avviene infine a lotti da 50 ettolitri per volta. La sua gradazione alcolica è piuttosto bassa (11,5% vol.) rispetto a quanto si è soliti ritrovare ultimamente nella stragrande maggioranza dei vini bianchi.


Il vino si presenta nel bicchiere con un color giallo paglierino luminoso tendente al dorato. Buona la sua intensità olfattiva, vi si colgono sentori di frutta tropicale, ananas, accenni d’agrumi, pompelmo maturo, leggere note idrocarburiche e affumicate, vi cogliamo anche accenni iodati e ricordi di foglie di sedano e di salvia. 


Fresco al palato, con buona vena acida, decisamente sapido, vi ritroviamo la frutta tropicale, pesca matura ed albicocca, accenni piccanti che rimandano allo zenzero, scorza d’arancio candito e note idrocarburiche più pronunciate rispetto al naso, lunga infine la sua persistenza.

InvecchiatIGP: Castelvecchio - Cabernet Franc Carso doc 2002


di Stefano Tesi 


Il bello di questo mestiere è che – sia essa verità o suggestione – il vino e ciò che gli ruota attorno finisce spesso per essere l’anello mancante di un cerchio da chissà quanto tempo in attesa di chiudersi. 
E tu non finisci mai di sorprenderti di questo suo ancestrale potere. Così ai primi di ottobre vado a Sagrado, in provincia di Gorizia, tra il Carso e l’Isonzo. L’appuntamento è in trattoria per il classico “spuntino veloce di lavoro” prima della degustazione istituzionale in cantina. Ma al tavolo trovo ad attendermi un arzillo ventenne. E dico arzillo perché non parlo dei commensali, ma del vino: un Cabernet Franc del 2002, Carso doc di Tenuta Castelvecchio. Siamo a due passi dal Sacrario di Redipuglia, penso. E il mio subconscio si mette in moto. 


La bottiglia è di sorprendente vitalità. Un bell’impatto speziato, cangiante e asciutto dove l’erbaceo aleggia ormai come un soffio vellutato. Il sorso è soave ma preciso, profondo, ancora sostenuto dall’acidità. Ciò che dona all’insieme quell’eleganza un po’ austroungarica – mi sorprendo di aver pensato mentre stavo col naso nel bicchiere - di certi vecchi signori ancora dritti e severi, cui l’età ha addolcito lo sguardo senza attenuarne l’autorevolezza. 


Tra un calice e l’altro, tra una notizia e l’altra, Luca Tomasic (che è il responsabile commerciale dell’azienda nonché marito di Isabella, una delle tre figlie del fondatore Leopoldo Terraneo), mi racconta la storia della proprietà, del suo recupero cominciato nel lontano 1986, dei trentacinque ettari di vigna biodinamica abbracciati interamente da centoventi ettari di bosco e della grande villa Della Torre di Valsassina-Hofer-Hohenlohe che vi sorge al centro, oggi destinata all’ospitalità. Da qui, nelle giornate più limpide, si intravede Venezia. Mi parla dell’ospedale militare per i feriti “intrasportabili” che l’edificio accolse durante la Grande Guerra, dei gravi danni subiti per i bombardamenti, dei tunnel scavati dai soldati e dei graffiti, quasi dei dolorosi diari murali, lasciati dai degenti sulle pareti e ora riportati alla luce. 


A mia mente continua stranamente a pulsare mentre riassaporo quel Cabernet Franc divenuto etereo ma che non vuol saperne di dissolversi e a ogni rabbocco mi pare capace di tirare fuori qualcosa di nuovo: incenso, mela cotogna, note di bosco. Ecco. “Il bosco, il bosco!” mi suggerisce all’improvviso il subconscio. Qualcosa si accende, ma non riesco ancora a mettere a fuoco. 

Ai primi del ‘900, continua Luca (e intanto la bottiglia finisce), la villa fu venduta al letterato Spartaco Muratti, che nel 1915 dovette abbandonarla per sfuggire ai combattimenti. E il suo posto, non certo come proprietario ma come poeta “residente”, fu preso dal fante Giuseppe Ungaretti, che in queste trincee trascorse un anno e compose alcune celebri liriche. “Nella proprietà abbiamo un parco a lui dedicato”, conclude. 


Deglutisco di colpo l’ultimo sorso di vino e all’improvviso la luce affiora dalle nebbie della memoria. Quinta ginnasio di millant’anni fa, la professoressa di lettere, il tema a commento di una poesia di Ungaretti, “Bosco Cappuccio”. Quello pieno di morti e rovine ma che aveva, o meglio s’immaginava avesse, “un declivio di velluto verde come una dolce poltrona”. 

Realizzo che ho appena finito di bere un Cabernet Franc prodotto a un tiro di schioppo da Bosco Cappuccio. Un vino-veterano come l’allievo ufficiale Ungaretti alla fine della Grande Guerra. Ora lo spirito è quieto e posso passare alla Vitovska, alla Malvasia, al Sauvignon, al Terrano, al Refosco, ai Cabernet di Castelvecchio.

Un’altra bella storia che però, qui e ora, non c’è tempo di raccontare.      

Villa San Carlo - Valpolicella DOC "La" 2020


di Stefano Tesi

Caso più unico che raro di vino assaggiato completamente alla cieca di cui, poi, scopri che la retroetichetta dà una descrizione più o meno identica a quella che hai appena annotato sul taccuino: “vibrante freschezza”. 


Insomma assai godibile ma sfaccettato, suadente, gastronomico e tutt’altro che banale.

Colline Albelle - Vermentino IGT Toscana "Inbianco" 2021


di Stefano Tesi

Questa è la storia di un vino fatto da un’azienda dove la maggioranza è bulgara, ma il capo del governo è francese. Un giovanotto dall’espressione guascona, ancorchè nativo di Carcassonne e con ascendenti spagnoli, che si definisce cittadino del mondo perché il mondo l’ha girato davvero. Come enologo, nonostante la giovane età. Si chiama Julian Reneaud.


Racconta che nel 2016 fa mise gli occhi su Poggioventoso, un’azienda semiabbandonata nei dintorni di Riparbella, quindici chilometri dal Tirreno e tre da Bolgheri, praticamente al confine tra le provincie di Pisa e Livorno. Quaranta ettari, dei quali diciotto di vigneto malmesso. Si fa due conti, vagheggia e progetta un po’, trova due soci (bulgari, appunto: Dilyana Vasileva e il consorte, fondatori dell’e-commerce Seewine.com), se la compra e comincia l’avventura. Fin qui una bella storia, ma non ancora originalissima visto che la Toscana, costiera e non, è piena di belle cantine frutto delle folgorazioni enoiche di stranieri nel Bel Paese.


Abbastanza lineare anche il cursus honorum aziendale, diciamo così, col recupero di alcuni vigneti, l’espianto e la rimessa a dimora di altri (alla fine in campo ci saranno Sangiovese, Ciliegiolo, Merlot, Vermentino, Canaiolo Bianco e Petit Manseng), il classico casale da ristrutturare, qualche intoppo burocratico nella costruzione della cantina, idee chiare, scelte al tempo stesso precise ma trendy: biodinamico, sostenibilità, biodiversità, permacultura. Neppure questo, però, oggi è originalissimo.


I nostri vini principali – spiega ancora Julian – si chiamano Serto, Altenubi e Halis, rispettivamente un Sangiovese, un Ciliegiolo e un Canaiolo Bianco, tutti in purezza e provenienti da tre distinte parcelle. Il primo esce adesso, mentre per gli altri la prima vendemmia sarà la prossima. Abbiamo poi Nebe, un passito di Petit Manseng”. Insomma, di davvero pronti per ora ci sono solo i due vini più giovani e semplici della gamma: Colline Albelle Inrosso e Colline Albelle Inbianco. Il primo è un Merlot, il secondo un Vermentino, “che volevamo fare diverso dal solito”.


Nemmeno questa sarebbe stata una gran sorpresa se, con sornione understatement, prima ancora di servire il vino Julian non si lasciasse sfuggire di aver pensato a produrre il bianco come una sorta di “base spumante” destinato, invece, ad andare direttamente nel bicchiere: “La filosofia di produzione è quella dello Champagne, con un primo vino estremamente aromatico e quasi imbevibile: la sfida era renderlo bevibile e gradevole, ma mantenendone le caratteristiche di fondo. L’uva quindi è stata raccolta il 14 agosto, data che ho scelto in base al solo assaggio degli acini, senza fare analisi: era ricca di aromi freschi e fruttati, quasi acerba, ideale per ottenere una gradazione alcoolica bassissima. Poi pressatura leggerissima (0,86 bar anziché 1,2 ndr), fermentazione in acciaio a 16° con lieviti indigeni, uso di barrique piegate con vapore e quindi povere di tannini, assemblaggio e imbottigliamento senza filtrazioni”.


Alla prova del bicchiere il vino si rivela in effetti originale e interessante. Senza dubbio diverso dal solito e soprattutto dal Vermentino che si produce nella media collina toscana: l’impatto olfattivo qui è pungente, quasi tendenzioso nella sua acuta pietra focaia e in certi richiami, inconfondibili per i boomer, all’olio minerale, ai fulminanti, all’accendino spento. Tutto s’acquieta in bocca, dove l’alcool (10,3° dichiarati) è quasi impercettibile e il palato gioca a nascondino con una freschezza ondivaga e amarognola, che aleggia tra accenni di agrumi, di sfalcio e di fiori di campo. In definitiva un prodotto decisamente moderno e piacevole, di quelli che ti ricordi per un pezzo. Va in enoteca attorno ai 25 euro.

Quanto all’inevitabile la domanda finale sul nome scelto per l’azienda, ecco la risposta di Reneaud: “L’antico nome di Riparbella era Ripa Albella, cioè Ripa bianca o biancheggiante per via dei suoi suoli tufacei e chiari, quindi abbiamo deciso di chiamarci così: Colline Albelle”.

Dalla Toscana franco-bulgara è tutto.

La nobiltà del Refosco declinata in sei grandi vini di territorio


Il Refosco, storicamente, è stato sempre considerato un vino di grande pregio tanto che alcuni lo identificano con il Pucino del Timavo che l’imperatrice Livia, moglie di Augusto, si dichiarava a lui debitrice della buona salute. 
Qualche secolo più in là, nel 1390, la questione attorno al Refosco si fa più circoscritta visto che troviamo una primo riconoscimento del vino negli Annali del Friuli compilati dal conte Francesco di Manzano dove, col nome di Terrani, si fa riferimento a quello che, all'epoca, veniva considerato il “vino nostrano”.


Bisogna, però, fare un salto di quasi 400 anni per trovare con certezza il nome Refosco che, all’interno di un Catalogo delle viti del Regno Veneto, veniva così classificato:

-Refosc – “Nera da bottiglia e da botte…Da vino molto generoso e delicato”

-Refosc blanc – “Bianca da botte…In piano”

-Refosc dolz – “Nera mangerecca da bottiglia e da botte…Colli e pianura di Maniaco”

-Refoschin – “Nera da bottiglia… In piano”

-Refoscon – “Nera da bottiglia e da botte…In piano ed in colle”.

Da questo documento si nota chiaramente quanto sia variabile la popolazione che costituisce la famiglia dei Refoschi ed è possibile conoscere in quali zone del Friuli fossero coltivati. Emerge, infatti, che proprio dalle colline dell’alto Friuli e nei Colli Orientali si trovano i vitigni di maggior pregio, quali il Refosc.

Guido Poggi

Guido Poggi, nel 1939, all'interno del suo atlante ampelografico, semplifica ulteriormente le cose riportando solo tre varietà: Refosco dal peduncolo rosso, Refoscone (che identifica come Refosco di Faedis) e il Refosco d’Istria
Ricapitolando, fin dai primi anni dell’Ottocento, si è capito che, così come per le Malvasie, anche per i Refoschi bisogna parlare al plurale in quanto appartenenti ad una grande famiglia che, pur avendo alcune caratteristiche comuni (antociani in particolare), possiamo distinguere oggi, dopo attente analisi del DNA, in cinque categorie:

1. Refosco dal peduncolo rosso, a cui appartiene un Refoschin, detto anche Refosco degli uccelli, proveniente da Ramandolo;

2. Refosco d’Istria o Refosco dal Peduncolo Verde che da cui proviene il vino chiamato Terrano prodotto sul Carso

3. Refosco gentile: così viene chiamato, il Refosco di Rauscedo, localmente anche Refosc dolc;

4. Refosco di Faedis che è sinonimo di Refosco Nostrano, Refosco di Runcjis, e a volte del Refoscone;

5. Refosco di Guarnieri che si è recentemente scoperto essere la Trevisana nera, una varietà caratteristica del Feltrino.

Il più noto di tutti, sicuramente, è il Refosco dal peduncolo rosso, così chiamato a causa del “pedicello” che tiene l’acino, il quale cambia colore, diventando rosso appunto, poco prima della vendemmia. Dal punto di vista ampelografico il grappolo ha grandi dimensioni, forma piramidale ed è alato. Gli acini sono anch’essi di buon volume e presentano il caratteristico colore bluastro tendente al viola. Tipicamente coltivato in tutto il Friuli Venezia Giulia, il Refosco dal Peduncolo Rosso trova però il suo terroir di elezione in provincia di Udine, soprattutto nell’areale di produzione ricadente nei comuni di Cividale del Friuli, Aquileia e Latisana, e nella provincia di Trieste e Gorizia.


Dal vitigno Refosco dal peduncolo verde, invece, nasce il Terrano, la cui produzione è particolarmente diffusa nella zona del Carso triestino, dove rientra della DOC Carso Terrano, nella zona del Carso sloveno, dove viene tipicamente chiamato Teran, e in alcune zone della Romagna (Refosco Terrano) dove viene usato per la produzione dei vini rientranti nella DOC Cagnina.


Grazie alla Rete Carso-Kras ho potuto degustare sei grandi Refosco in purezza che, con le loro differenze, offrono un quadro molto preciso dei vari terroir di provenienza.


Stanko Milič - Terrano 2021: in un mondo che cambia alla velocità della luce e tutto sembra apparenza e superficialità, Stanko Milič rimane una preziosa mosca bianca che difende da sempre, grazie anche alla sua antica osmiza, le tradizioni enogastronomiche del territorio del carso triestino. Il suo Terrrano, con la sua etichetta d’antan, sa sorprendere ed incantare perché è succosa, speziata e terrosa e sa intrigare al gusto grazie ai suoi continui richiami iodati. Un Terrano che vede l’abbinamento perfetto con un prosciutto crudo carsolino stagionato 24 mesi. Sublime matrimonio!


Cacovich – Refosco 2020: classe 1998, con i suoi 24 anni Dimitri Cacovich rappresenta il futuro della viticoltura del suo territorio in bilico tra la terra rossa del Carso e l’arenaria del Breg dove gestisce circa 2 ettari e mezzo di vigneto con all’interno le arnie da cui produce anche un ottimo miele. Il suo Refosco, vinificato rigorosamente in acciaio con lieviti indigeni, proviene da uve vendemmiate tardivamente (fine settembre, inizio ottobre) che svela un bouquet di spezie, fragoline di bosco, mirtillo in confettura, fienagioni estive e fiori rossi secchi da diario. Al sorso è deciso, avvolgente, di buon corpo e con un allungo sapido sorprendente.


Damijan Milič – Terrano 2019: Repen è una piccola frazione del comune di Monrupino (TS) dove la famiglia Milik gestisce una eccellente osmiza e dove Damijan, all’interno della piccola cantina, produce vini di innata artigianalità. Il suo Terrano, nato su vigne piantate su pietra carsica, riflette in tutto e per tutto il territorio di provenienza fornendo al fortunato degustatore una esperienza unica. Naso ritmato da netti e tipici profumi di viola di bosco, ciliegia del Carso, poi spezie nere, erbe officinali e aromatiche essiccate. Territoriale anche la beva, con un tannino leggero perfettamente fuso in un agile corpo che rende la beva succosa ed irresistibile.


Lenardon – Refosco 2019: al confine tra Italia e Slovenia, a poca distanza dal mare e dal borgo marinaro di Muggia (TS), Bruno Lenardon, in località Pisciolon, coltiva da tantissimo tempo ulivi e viti inseriti in un microclima unico dove i venti freddi del Carso sono mitigati dal clima temperato e dalle brezze marine del Golfo di Trieste. Tra i quattro vini di tradizione muggesana che vengono prodotti spicca sicuramente questo Refosco, uvaggio tra varietà dal Peduncolo Rosso e varietà dal Raspo Verde, ricco di sensazioni di mirtillo, pepe nero in salamoia, viola appassita, sottobosco ed effluvi iodati. Sorso all’ingresso morbido e succoso, tannino arrotondato e fine persistenza con ritorni piccanti di pepe nero e richiami salmastri.


Budin – Terrano 2018: Gregor Budin è un altro dei giovani vignaioli talentuosi del Carso e a Sales, a due passi dal suo collega Skerlj, gestisce dal 2015 la sua piccola azienda vitivinicola di circa 2 ettari da 5000 bottiglie mentre il resto del vino finisce sfuso direttamente nella sua caratteristica osmiza. Questo Terrano riflette benissimo la filosofia produttiva di Budin incentrata sulla massima eleganza e pulizia di tutti i suoi vini. Al naso il vino si apre si sensazioni aromatiche di mirtillo, ribes, ginepro, carruba e tabacco da pipa. Bocca convincente, fresca, con tannini sottili e con una bella chiusura sapida a chiudere il finale.


Grgič – Rosso Carso 2018: Igor e Tanja Grgič, a Pedriciano, gestiscono un piccolo micromondo agricolo formato da un agriturismo, una fattoria didattica e una cantina tradizionale dove vengono vinificate le uve (vitovska, malvasia e refosco dal peduncolo verde) provenienti dal vigneto di quattro ettari sito in località Dolina. Igor dà vita a “Vini di Luce”, prodotti senza interventi chimici perchè sia in vigna che in cantina si ispira ai principi della biodinamica. Il suo Rosso Carso riflette lo spirito naturale di Igor, è un vino schietto, pulito, con una impronta fruttata e leggermente speziata che ripropone note di visciola, lamponi, pepe nero, terra rossa bagnata. Assaggio snello, piacevolmente rustico e finale decisamente minerale.



Le attività di pubblicazione fanno parte di un progetto della rete CARSO-KRAS per la valorizzazione dei vini autoctoni ad Indicazione Geografica Tipica Vitovska, Malvasia, Refosco e Terrano, finanziato dalla misura 3.2.1 del PSR 2014-2020 della Regione Friuli Venezia Giulia.

InvecchiatIGP: Candido - Cappello di Prete 2009


di Luciano Pignataro

Il Cappello di Prete di Candido è una delle grandi creazioni enologiche dell'indimenticabile enologo Severino Garofano. Ci sono vino che vano bevuti in occasioni speciali, in primo luogo con persone con cui stiamo bene insieme. Se poi sei nel posto giusto allora fai Bingo.


Nel posto giusto giusto ci siamo eccome: precisamente nella Osteria degli Spiriti a Lecce, il regno di Tiziana Parlangeli e Piero Merazzi che si ricordava perfettamente il posto dove ero seduto proprio con Severino Garofano e la figli Renata a pranzo tanti anni fa. Stavolta con i cari amici Davide Gangi, vulcanico inventore di format sulla comunicazione del vino, Beniamino D'Agostino della cantina Botromagno e del collega Pino de Luca, storica firma del vino in Puglia ci godiamo una cena con i controfiocchi. Al momento clou, le braciole di carne di cavallo, Piero, da oste consumato ed esperto, tira fuori quest'ultima grande bottiglia che gli è rimasta.



Il vino ha di bello questo. Come d'incanto, è come se Severino fosse entrato e si fosse accomodato al tavolo con noi. Il mago del Negroamaro, che con lui ha toccato vette difficilmente eguagliabili, si rivela ancora una volta nei profumi di spezie e di frutta matura, ciliegia al cento per cento, rimandi fumè e carruba, poi nello scatto al palato agile, veloce, al tempo stesso caldo e piacevole con una chiusura straordinariamente pulita e precisa. Tralasciamo la considerazione, banale, sulla gioventù di questa esecuzione, una delle migliori di sempre in una annata tra l'altro abbastanza complicata per le uve tardive.


L'azienda Candido fu una delle prime ad imbottigliare i vini a partire dal 1957, proprio con un giovanissimo Severino Garofano che dall'Irpinia si era trasferito in Salento. Ed è con Francesco Candido che nel 1974 nasce il Cappello di Prete che darà mille soddisfazioni al figlio Alessandro, tra cui la citazione nei 1001 vini da bere almeno una volta nella vita di Neil Beckett.
E la serata si chiude così, con un grande brindisi alla memoria di Severino, il piacere immenso di stare insieme e di condividere ciascuno dei ricordi del suo vissuto e dei suoi vini e la gioia di poter fare ancora tante cose insieme.

Tenuta del Travale - Eleuteria 2019


di Luciano Pignataro

Nerello Mascalese in Calabria? Oh yeah! Nelle due etichette della piccola Tenuta del Travale sulla Sila, a Rovito. 


In una con il Nerello Cappuccio, qua da solo. Eleganza, finezza, carattere. Un vero fuoriclasse indimenticabile.

Tra le vigne di Sorrentino, sul Vesuvio, alla scoperta dell'eruzione che distrusse Pompei


di Luciano Pignataro

Stavolta non parliamo di un vino, ma di un territorio misterioso e onirico, il Vesuvio, A' Muntagna come la chiamano i napoletani. Più passa il tempo e più questo paesaggio straordinario che abbiamo dato per acquisito e normale sin dalla nascita non finisce mai di stupire man mano che ci addentriamo fra le vigne della famiglia Sorrentino che hanno iniziato a fare discorsi di buona agricoltura sin dagli anni '50, certificata biologica e puntata esclusivamente sui vitigni autoctoni del territorio, dal caprettone al piedirosso, dalla catalanesca alla coda di volpe. Un'agricoltura sorvegliata la vulcano sul terreno sabbioso nero che è diventata anche meta enoturistica, con piccoli appartamenti ricavati tra le vigne, una sala ristorante, visite guidate, visite a cavallo: un'azienda che accoglie ogni mese almeno 5000 visitatori, per la maggior parte stranieri che prima visitano gli scavi di Pompei a pochissimi chilometri da qui.

La visita al sito

Tra queste vigne adesso è possibile rileggere tutta la storia della terribile eruzione del 79 d.C. che sconvolse il Golfo di Napoli: una lettura dal vivo, attraverso le stratificazioni di quello che in quelle giornate sono rimaste per sempre in un angolo di terreno di recente scoperto dagli scienziati dell’Università di Napoli tra le vigne di Sorrentino a Boscotrecase. Non una eruzione qualsiasi, ma proprio L’ERUZIONE PIU FAMOSA DELLA STORIA, iniziata il 24 ottobre e non ad agosto come recenti studi sembrano confermare.


La foto di questo spazio ovviamente non dice nulla se non c'è chi ci inforca gli occhiali della storia per addentrarci in quelle ore terribili che provocrono una orribile morte e migliaia di persone. Quando, coperto dalla macchia mediterranea e custodito fra i cigneti di caprettone, i vucanologi Claudio Scarpati e Annamaria Perrota hanno visto la parete quasi non credevano ai loro occhi. Per oltre duemila anni era stato conservato, attraverso le diverse stratificazioni, il riassunto di quello che era successo. Lascio la parola ai due scienziati per evitare imprecisioni:

"In questa località affiora la successione completa dei prodotti dell’eruzione vesuviana del 79 d.C. L'eruzione iniziò alle ore 13 circa del 24 ottobre (o agosto) con la formazione di una colonna pliniana preceduta da una debole fase di apertura freatomagmatica (livello C1). Il deposito di lapilli è formato da pomici bianche (livello A) e pomici grigie (livello B) che si sono accumulate da una colonna eruttiva alta fino a 32 km. Numerose correnti piroclastiche (livelli C) si sono verificate durante (livelli da C2 a C5) e dopo (livello C6) l’accumulo della parte superiore del deposito di pomici. Le campagne e le città romane intorno al Vesuvio furono sepolte dalle pomici e definitivamente distrutte dalle successive correnti piroclastiche".

Giuseppe, Maria Paola e Benny Sorrentino

La storia della famiglia Sorrentino è una storia di donna. Comincia nel 1953 con nonna Benigna che, nel dopoguerra, decide di fare del suo “moggio” una piccola realtà aziendale. Paolo Sorrentino e la moglie lo ereditano e lavorano a quattro mani per continuare il suo progetto ampliandolo anno dopo anni. Come loro, anche figlii Giuseppe, Maria Paola e Benny che oggi sono in prima linea per la produzione e distribuzione del vino e degli altri prodotti della loro terra.

Questa energia dei tre giovani fratelli, inserita in un contesto più generale che vede anche altre aziende del territorio impegnate in questa direzione, fa davvero ben sperare per lo straordinario e unico territorio vesuviano. Sono le nuove generazioni che si affacciano convinte ad impegnarsi nella terra e nei suoi valori più profondi.