di Stefano Tesi
Il bello di
questo mestiere è che – sia essa verità o suggestione – il vino e ciò che gli
ruota attorno finisce spesso per essere l’anello mancante di un cerchio da
chissà quanto tempo in attesa di chiudersi.
E tu non
finisci mai di sorprenderti di questo suo ancestrale potere. Così ai
primi di ottobre vado a Sagrado, in provincia di Gorizia, tra il Carso e
l’Isonzo. L’appuntamento
è in trattoria per il classico “spuntino veloce di lavoro” prima della
degustazione istituzionale in cantina. Ma al tavolo trovo ad attendermi un
arzillo ventenne. E dico arzillo perché non parlo dei commensali, ma del vino:
un Cabernet Franc del 2002, Carso doc di Tenuta Castelvecchio. Siamo a due passi
dal Sacrario di Redipuglia, penso. E il mio subconscio si mette in moto.
La bottiglia
è di sorprendente vitalità. Un bell’impatto speziato, cangiante e asciutto dove
l’erbaceo aleggia ormai come un soffio vellutato. Il sorso è soave ma preciso,
profondo, ancora sostenuto dall’acidità. Ciò che dona all’insieme
quell’eleganza un po’ austroungarica – mi sorprendo di aver pensato mentre
stavo col naso nel bicchiere - di certi vecchi signori ancora dritti e severi,
cui l’età ha addolcito lo sguardo senza attenuarne l’autorevolezza.
Tra un
calice e l’altro, tra una notizia e l’altra, Luca Tomasic (che è il
responsabile commerciale dell’azienda nonché marito di Isabella, una delle tre
figlie del fondatore Leopoldo Terraneo), mi racconta la storia della proprietà,
del suo recupero cominciato nel lontano 1986, dei trentacinque ettari di vigna
biodinamica abbracciati interamente da centoventi ettari di bosco e della
grande villa Della Torre di Valsassina-Hofer-Hohenlohe che vi sorge al centro,
oggi destinata all’ospitalità. Da qui, nelle giornate più limpide, si intravede
Venezia. Mi parla dell’ospedale militare per i feriti “intrasportabili” che
l’edificio accolse durante la Grande Guerra, dei gravi danni subiti per i
bombardamenti, dei tunnel scavati dai soldati e dei graffiti, quasi dei
dolorosi diari murali, lasciati dai degenti sulle pareti e ora riportati alla
luce.
A mia mente
continua stranamente a pulsare mentre riassaporo quel Cabernet Franc divenuto
etereo ma che non vuol saperne di dissolversi e a ogni rabbocco mi pare capace
di tirare fuori qualcosa di nuovo: incenso, mela cotogna, note di bosco. Ecco. “Il
bosco, il bosco!” mi suggerisce all’improvviso il subconscio. Qualcosa si
accende, ma non riesco ancora a mettere a fuoco.
Ai primi del
‘900, continua Luca (e intanto la bottiglia finisce), la villa fu venduta al
letterato Spartaco Muratti, che nel 1915 dovette abbandonarla per sfuggire ai
combattimenti. E il suo posto, non certo come proprietario ma come poeta
“residente”, fu preso dal fante Giuseppe Ungaretti, che in queste trincee
trascorse un anno e compose alcune celebri liriche. “Nella proprietà abbiamo un
parco a lui dedicato”, conclude.
Deglutisco
di colpo l’ultimo sorso di vino e all’improvviso la luce affiora dalle nebbie
della memoria. Quinta ginnasio di millant’anni fa, la professoressa di lettere,
il tema a commento di una poesia di Ungaretti, “Bosco Cappuccio”. Quello pieno
di morti e rovine ma che aveva, o meglio s’immaginava avesse, “un declivio di
velluto verde come una dolce poltrona”.
Realizzo che
ho appena finito di bere un Cabernet Franc prodotto a un tiro di schioppo da
Bosco Cappuccio. Un vino-veterano come l’allievo ufficiale Ungaretti alla fine
della Grande Guerra. Ora lo
spirito è quieto e posso passare alla Vitovska, alla Malvasia, al Sauvignon, al
Terrano, al Refosco, ai Cabernet di Castelvecchio.
Un’altra
bella storia che però, qui e ora, non c’è tempo di raccontare.
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