Lambrusco, identità e futuro di un grande vino popolare


Il Lambrusco è uno dei vini italiani più conosciuti al mondo e, allo stesso tempo, uno dei più complessi da raccontare. Un nome che racchiude territori, vitigni e stili molto diversi, e che per anni ha sofferto una semplificazione narrativa difficile da superare. Oggi però il quadro sta cambiando: il Lambrusco è al centro di una fase di ridefinizione, sospesa tra identità popolare e nuove ambizioni qualitative. In un mercato che chiede vini sempre più riconoscibili e coerenti, la sfida è trovare un equilibrio tra volume e valore, tradizione e visione futura. Un passaggio che coinvolge produttori, territori e denominazioni, chiamati a costruire una narrazione più consapevole. Ne abbiamo parlato con Giacomo Savorini, direttore del Consorzio Tutela Lambrusco DOC, per mettere a fuoco presente e prospettive di uno dei grandi vini identitari italiani.

Giacomo Savorini

Direttore, il mondo del vino vive una contrazione dei consumi: come sta reagendo il Lambrusco e quali strategie sta mettendo in campo il Consorzio per mantenere identità e competitività?

Il Lambrusco ha dimostrato negli anni una resilienza notevole. Di fronte alla contrazione dei consumi, il Consorzio Tutela Lambrusco sta puntando su due direttrici principali: la tutela dell’identità del prodotto e l’innovazione nella comunicazione. Sul fronte della tutela, continuiamo a rafforzare il controllo della qualità e a vigilare sulle denominazioni storiche. Per quanto riguarda la comunicazione, stiamo adottando strategie mirate per raccontare la storia, la cultura e la versatilità del Lambrusco, evidenziando la sua capacità di accompagnare ogni momento di convivialità.

Oggi i consumatori cercano vini più leggeri, freschi e con alcol moderato. È il momento storico perfetto per il Lambrusco? Come state valorizzando questa sua modernità intrinseca?

Assolutamente sì. Il Lambrusco, con la sua anima fresca e naturalmente vivace, si inserisce perfettamente nelle nuove tendenze di consumo, caratterizzate da un’attenzione alla leggerezza e alla piacevolezza in abbinamento al cibo. Questa modernità intrinseca viene valorizzata dal Consorzio attraverso campagne di comunicazione che ne sottolineano la versatilità, nonché tramite iniziative di formazione per operatori e sommelier, affinché possano raccontare con competenza le caratteristiche uniche di ciascuna denominazione. In particolare, stiamo promuovendo il Lambrusco in abbinamenti quotidiani e informali, ad esempio con la pizza o piatti di diverse cucine internazionali, dimostrando che si tratta di un vino contemporaneo, capace di valorizzare sia la tradizione italiana sia esperienze gastronomiche d’oltreconfine.

ll Lambrusco per anni ha sofferto una reputazione ingiusta. Qual è stato il cambio di passo che ha permesso di ribaltare questa percezione e parlare oggi di rinascita?

Per lungo tempo il Lambrusco è stato percepito come un vino semplice e poco strutturato, lontano dall’eccellenza dei grandi vini italiani. Il cambio di passo è sicuramente arrivato grazie al coraggio di una nuova generazione di giovani produttori, che hanno dato un notevole impulso alla filiera e alla promozione, così come grazie all’impegno del Consorzio nel valorizzare qualità, identità e territorio. Abbiamo puntato su una sempre maggiore attenzione in vigna e in cantina, sulla tutela della qualità e delle uve tipiche del territorio, comunicando al pubblico non solo un vino, ma una storia di territorio e tradizione. Oggi il Lambrusco è finalmente riconosciuto per la sua versatilità, freschezza e capacità di accompagnare la convivialità, entrando a pieno titolo tra i vini di riferimento della cucina italiana contemporanea.

In che modo i produttori stanno lavorando in cantina per elevare lo stile del Lambrusco, dai rifermentati in bottiglia al metodo classico? C’è una tendenza anche in questo?

I produttori stanno crescendo in precisione enologica e innovazione, con l’obiettivo di esprimere al meglio le caratteristiche varietali e la personalità di ciascuna denominazione, stile e varietà. Nei rifermentati in bottiglia si lavora sulla tradizione calandola nella modernità e ricercando freschezza ed equilibrio, mentre chi sperimenta il metodo classico punta a produrre vini Lambrusco eleganti e dal maggiore potenziale evolutivo, capaci di confrontarsi con i grandi spumanti internazionali. Questo approccio contribuisce non solo a elevare lo stile del Lambrusco, ma anche a consolidarne la reputazione e a rafforzare la percezione di un vino contemporaneo, moderno e versatile.


Passiamo alla vigna: quali pratiche agronomiche stanno diventando centrali per migliorare qualità e sostenibilità, anche alla luce dei cambiamenti climatici?

L’attenzione alla salubrità delle uve, messa sempre più a rischio da fitopatologie e dal cambiamento climatico, pone il Consorzio in prima fila per sostenere studi insieme a università e istituti di ricerca locali.

Quali progetti sta portando avanti il Consorzio per aiutare i produttori a crescere in termini di sostenibilità certificata senza snaturare la loro identità agricola?

L’Emilia-Romagna è sempre stata una regione all’avanguardia per la lotta integrata, ampiamente diffusa su tutto il territorio. Inoltre, all’interno del Consorzio abbiamo una forte rappresentanza di cooperative e di grandi imbottigliatori che sul tema sostenibilità si muovono autonomamente e già possiedono diverse certificazioni. Ci auguriamo che a livello di territorio si possano fare sempre più passi avanti nella direzione della sostenibilità ambientale, anche e soprattutto seguendo percorsi con certificazione finale.

Il Lambrusco è un vino molto diffuso nella ristorazione informale, ma sta conquistando sempre più carte dei vini di livello. Come sta cambiando il suo posizionamento?

Negli ultimi anni il Lambrusco ha compiuto un vero e proprio salto di percezione. Se storicamente era legato principalmente alla convivialità informale, oggi viene riconosciuto anche come vino di qualità, capace di arricchire carte dei vini sofisticate e menu di ristoranti di alto livello. Questo cambiamento è frutto di un lavoro costante dei produttori e del Consorzio nel valorizzare qualità, territorio e identità varietale, oltre che della crescente attenzione dei sommelier verso vini più immediati ma pur sempre dal carattere distintivo. Il Lambrusco dimostra così una capacità unica: mantenere la sua natura popolare pur affermandosi come scelta di qualità anche in contesti gastronomici più eleganti.

L’export continua a essere un pilastro. Quali mercati stanno crescendo e quali invece risentono maggiormente della crisi globale del vino?

L’export rappresenta da sempre un asset strategico per il Lambrusco, e oggi registra dinamiche differenziate a seconda dei mercati. Innanzitutto i vini Lambrusco sono esportati in oltre 90 Paesi. Tra i mercati principali vanno innanzitutto menzionati gli USA cui sono dirette oltre 13 milioni di bottiglie (tra DOC e IGT Emilia) ogni anno. Su questo mercato siamo alle prese con un equilibrio da ridefinire dopo l’introduzione dei dazi, ma ciò che è certo è che in una piazza tanto importante e competitiva non possiamo permetterci di perdere quote di mercato. Ci sono anche mercati che mostrano un interesse crescente, ad esempio il Messico e il Brasile, che tradizionalmente preferiscono vini Lambrusco con un più alto residuo zuccherino.


Molti giovani vignaioli stanno tornando alle origini con versioni più secche, territoriali e anche artigianali. Come si integra questa energia con la visione del Consorzio?

Accogliamo con entusiasmo l’energia dei giovani vignaioli, che portano innovazione senza dimenticare il legame con il territorio e le tradizioni. Le espressioni secche, territoriali e artigianali rappresentano un arricchimento per l’intero panorama del Lambrusco, contribuendo a diversificarne l’offerta e a valorizzare le specificità di ciascuna denominazione e tipologia. L’innovazione dei giovani produttori si integra perfettamente con la nostra visione: un Lambrusco di qualità, riconoscibile, contemporaneo e capace di parlare sia ai consumatori tradizionali sia a chi cerca nuove esperienze enologiche.

Dal punto di vista sociale, il Lambrusco è un territorio fatto di cooperative, famiglie e vignaioli che presidiano la terra. Quanto è importante salvare questo tessuto umano e produttivo?

Il tessuto umano e produttivo che caratterizza l’areale del Lambrusco è al cuore della sua identità. Cooperative, famiglie e piccoli vignaioli custodiscono conoscenze e tradizioni che sono irrinunciabili per dar vita a vini sinceri, che parlino la lingua del territorio in cui nascono. Salvaguardare questo patrimonio significa preservare un modello agricolo sostenibile e comunitario. Il Consorzio lavora costantemente per supportare queste realtà, attraverso formazione, innovazione e iniziative di promozione, perché il Lambrusco non sia solo un prodotto, ma una storia di persone e di territorio. In aggiunta al tessuto umano e produttivo, c’è da considerare anche l’importantissimo ruolo svolto dalla viticoltura in ambito di tutela ambientale. La coltivazione della vite ha un ruolo essenziale nel preservare la compattezza dei terreni evitando erosioni e smottamenti.

Raccontare il Lambrusco non è facile: tanti vitigni, territori diversi, stili diversi. Come si costruisce una narrazione unitaria senza appiattire la ricchezza della denominazione?

Le tante sfaccettature dell’universo Lambrusco sono per noi un grande valore. Nel raccontare il Lambrusco, la nostra sfida è di trovare un giusto equilibrio tra varietà e identità comune. Il Consorzio lavora per valorizzare le differenze, dai vitigni alle tecniche di vinificazione, dai territori alle diverse espressioni stilistiche, senza perdere di vista ciò che unisce tutte le denominazioni: versatilità, convivialità e legame con il territorio emiliano. La narrazione unitaria si costruisce attraverso una comunicazione chiara e coerente dei valori del Lambrusco. In questo modo, la ricchezza dei diversi stili non viene appiattita, ma valorizzata, facendo emergere un’immagine del Lambrusco contemporanea, riconoscibile e capace di conquistare nuovi pubblici.


Guardando ai prossimi 10 anni, qual è il futuro del Lambrusco? Come immagina il suo ruolo in un mercato che chiede vini autentici, sostenibili e identitari?

Nei prossimi dieci anni, ci aspettiamo che il Lambrusco continui a consolidare il suo posizionamento come vino versatile e contemporaneo, capace di soddisfare le nuove esigenze dei consumatori che cercano prodotti autentici che siano veri e propri ambasciatori del territorio. Il Consorzio lavorerà per rafforzare questi valori attraverso promozione domestica e internazionale, supporto ai produttori per incentivare innovazione e percorsi di sostenibilità certificata. L’obiettivo è far sì che il Lambrusco non sia solo un’icona della tradizione emiliana ma un vero e proprio simbolo dell’Italia nel mondo. Un esempio di eccellenza moderna con un’immagine definita e consolidata nel panorama vitivinicolo mondiale.

InvecchiatIGP: Severino Garofano – Azienda Monaci Igt Salento rosso “Simpotica” 2006


di Lorenzo Colombo

Spesso ricostruire la nascita di un vino con diversi anni sulle spalle è impresa ardua, soprattutto se quel vino non esiste più o se è cambiato completamente nel corso degli anni o, quello che è cambiato -più volte- è il nome dell’azienda. Non sappiamo con certezza quale sia stata la prima annata di produzione di questo vino però siamo certi che nel 1998 già esisteva, su una Guida del 2002 lo troviamo prodotto da Masseria Monaci di Copertino di proprietà di Severino e Stefano Garofano, composto da 85% Negroamaro, 13% Montepulciano e 2% Malvasia Nera. In altre due Guide, entrambe del 2009, il vino, dell’annata 2004 risulta prodotto dall’Azienda Monaci, sempre di Copertino (sempre la stessa) sempre di proprietà di Severino Garofano, ed i vitigni utilizzati -senza specifica delle percentuali- risultano essere Negroamaro e Montepulciano. Sulle ultime Guide l’azienda prende il nome di Garofano Vigneti e Cantine, di proprietà della famiglia Garofano ed il vino viene commercializzato come Copertino Rosso Doc Riserva “Simpotica” e risulta prodotto con solo uve Negroamaro.


Severino Garofano è stato uno tra i più importanti enologi del meridione (è scomparso l’8 settembre 2017), nato in Irpinia ha trascorso tutta la sua carriera d’enologo tra Calabria (ha messo le mani sia nel Gravello che nel Duca San Felice di Librandi) e soprattutto in Puglia dove s’era trasferito a metà degli anni Cinquanta.
In quest’ultima regione ha firmato alcuni tra i più importanti vini, Patriglione e Notarpanaro (per Cosimo Taurino), Graticciaia (per Vallone) ed altri ancora e nel 1995 ha fondato la sua cantina a Copertino.


Il nome del vino si riferisce al simposio l’aggregazione conviviale finalizzata a una specifica celebrazione dove le poesie o i carmi conviviali erano destinati ad essere recitati nel momento conclusivo del banchetto. “Sii contento e bevi bene”, quest’iscrizione si trova su una coppa del V sec a.C. che invitava i partecipanti ad un simposio a bere con moderazione secondo le indicazioni del simposarca. Presumiamo che il vino dell’annata da noi degustata sia stato prodotto con uve Negramaro più un 10% di Montepulciano.


Evoluto il colore, profondo con unghia tra il mattonato e l’aranciato. Buona l’intensità olfattiva, vi si colgono sentori di confettura di prugne, prugne in sciroppo, accenni di liquirizia dolce, chiodi di garofano, e note balsamiche. Discreta la sua struttura, ancora assai decisa la trama tannica che rende il vino leggermente asciutto, buona la vena acida, note di liquirizia forte, accenni di fichi cotti e di noci, chiude con lunga persistenza su sentori di radici. Un vino che ancora emoziona seppure ormai abbia passato da qualche tempo il suo momento di massimo fulgore.

Orsolani - Erbaluce di Caluso Docg “La Rustìa” 2022


di Lorenzo Colombo

La Rustìa significa “arrostita dal sole” in dialetto locale, ad indicare le uve ben mature con le quali una delle aziende storiche del Canavese specializzata nella produzione di Erbaluce produce questo vino.


Il vino è fresco, sapido e verticale e presenta note d’agrumi e sentori d’erbe aromatiche.

Mooiplaas e i vini di Stellenbosch: tra storia, terroir e tradizione sudafricana


di Lorenzo Colombo

Nel 2024, in Sudafrica sono stati prodotti 7.474.000 ettolitri di vino, di cui oltre il 63% bianchi, su una superficie vitata di 86.544 ettari. Il 55% di questi ettari è coltivato con uve a bacca bianca. 11.653 ettari di questa superficie si trovano nel distretto di Stellenbosch, che risulta essere il quarto per estensione vitata dopo Paarl, Robertson e Breedekloof. Contrariamente alla maggior parte delle altre regioni vitivinicole, a Stellenbosch prevalgono i vitigni a bacca nera (64%). Su tutti spicca il Cabernet Sauvignon con 2.292 ettari, seguito da Merlot (1.413 ha), Shiraz (1.351 ha) e Pinotage (1.044 ha). Tra i vitigni a bacca bianca, il più coltivato è il Sauvignon Blanc (1.517 ettari), seguito da Chenin Blanc (1.253 ha) e Chardonnay (949 ha).


Stellenbosch

Stellenbosch è un'Unità Distrettuale situata nella regione geografica del Western Cape e precisamente nella Coastal Region. Fondata nel 1679 da Simon Van der Stel, dista 40 km da Città del Capo e vanta una tradizione vinicola che risale alla fine del XVII secolo. In origine era una zona agricola e dedicata all'allevamento dei bovini; furono gli Inglesi a trasformarla in zona viticola. Presenta notevoli variabilità sia climatiche che pedologiche (di suoli). Il terreno montuoso, le buone precipitazioni, i suoli profondi e ben drenati, uniti alla diversità dei terroir, ne fanno una zona viticola molto ricercata. Il numero in rapida crescita di aziende vinicole e produttori (più di 200) include alcuni dei nomi più famosi del vino del Capo. Nel suo comprensorio si producono ottimi esempi di quasi tutti i vitigni nobili ed è nota soprattutto per la qualità dei suoi blend rossi.


La città di Stellenbosch è anche il centro educativo e di ricerca delle terre del vino. La Stellenbosch University è l'unica università in Sudafrica a offrire una laurea in viticoltura ed enologia e annovera tra i suoi alunni molti dei produttori di vino di maggior successo del paese. Anche la Scuola di Agraria di Elsenburg si trova vicino a Stellenbosch, così come l'Istituto di Viticoltura ed Enologia Nietvoorbij. Questa organizzazione dispone di una delle più moderne cantine sperimentali al mondo e, presso le sue aziende (situate in diversi distretti vitivinicoli), viene intrapresa un'importante ricerca su nuovi vitigni, cloni e portainnesti.


Il distretto di Stellenbosch è stato a sua volta suddiviso in diverse piccole aree viticole tra cui Banghoek, Bottelary, Devon Valley, Jonkershoek Valley, Papegaaiberg, Polkadraai Hills, Simonsberg-Stellenbosch e Vlottenburg. La Strada del Vino di Stellenbosch è la più antica del paese e una delle destinazioni turistiche più popolari del Western Cape.

Mooiplaas

La storia moderna dell'azienda Mooiplaas ha origine nel 1963 con l'acquisto della storica tenuta da parte di Nicolaas Ross, anche se la storia della tenuta risale al 1806. All'interno della proprietà si trova la villa — ora monumento nazionale — che è un notevole esempio di architettura "coloniale olandese del Capo". L'azienda, ora gestita dai fratelli Tielman (agronomo) e Louis (enologo) Roos, dispone di 100 ettari di vigneti situati tra i 135 e i 370 metri d'altitudine su ripidi pendii ricchi di minerali nelle colline Bottelary di Stellenbosch, con vista su Città del Capo. Nel 1995, Mooiplaas ha istituito una Riserva Naturale Privata, dedicando 70 ettari alla conservazione delle specie di Fynbos — vegetazione locale composta da arbusti tipici di questa regione costiera — in via di estinzione.


I vigneti sono situati su suoli di diversa natura. Sono presenti affioramenti e colline composte dall'erosione di materiale vulcanico, principalmente granito. Inoltre, vi sono notevoli differenze nei microclimi che variano anche in base alle diverse altitudini. I vigneti, dell'estensione di circa 100 ettari, vengono coltivati con metodi e tecniche artigianali, un approccio classico rispettoso dell'ambiente e della biodiversità. Il winemaker Louis Roos è conosciuto per essere un purista, che sceglie di utilizzare solo i migliori grappoli dai migliori vigneti, con minime interferenze umane nel processo produttivo. Nella vinificazione utilizza lieviti indigeni, filtrazioni limitate, fermentazioni naturali e maturazioni in piccole botti di legno.

I Vini Degustati

La produzione di Mooiplaas è suddivisa in tre linee: The Collection, Gamma Classica e infine Collezione Mercia, la più importante, dedicata al fondatore Nicolaas Roos e a sua moglie Mercia. Abbiamo potuto degustare i seguenti vini presso la sede dell'importatore italiano, ovvero Pellegrini SpA.

Chenin Blanc Bush Vine Stellenbosch (Gamma Classica)

Le uve provengono dal vigneto Houmoed, che in lingua afrikaans significa "grinta, determinazione e perseveranza". Messo a dimora nel 1972, è situato a 290 metri d'altitudine sulle colline di Bottelary ed è allevato ad alberello (Bush vine). La resa per ettaro è di 34 ettolitri. Dopo la decantazione statica, metà del mosto fermenta con lieviti indigeni e l'altra metà con lieviti selezionati. Dopo l'assemblaggio, il vino rimane per un lungo periodo a contatto con le fecce fini. Di questo vino sono state presentate due annate: l'ultima in commercio (la 2024) e la 2017.


2024 - Colore giallo paglierino di discreta intensità. Buona l'intensità olfattiva: frutta a polpa gialla e frutta tropicale, accenni d'erbe aromatiche, sentori affumicati, leggere note minerali. Intenso e di buona struttura, succoso e morbido, frutta tropicale e accenni piccanti di zenzero, buona la persistenza.


2017 - Giallo dorato luminoso. Fresco e verticale, accenni di fieno e leggere note idrocarburiche. Asciutto, fresco, verticale, minerale, lunga la persistenza su accenni affumicati. Un vino che impressiona per la freschezza e verticalità a otto anni dalla vendemmia.

Houmoed Bush Vine Chenin Blanc Stellenbosch 2022 (Collezione Mercia)

Le uve provengono sempre dal vigneto Houmoed. In questo caso la resa è di 37 ettolitri/ettaro e il 10% delle uve è stato interessato da botrite. Dopo tre ore di macerazione pellicolare, le uve sono state fatte fermentare con diversi ceppi di lieviti e affinato in barriques per 12 mesi. Il 90% delle barriques è di rovere francese e la parte rimanente ungherese; il 20% nuove, il 20% di secondo passaggio e le restanti di 3° e 4° passaggio.


Colore giallo oro luminoso. Mediamente intenso al naso: pesca gialla e albicocca, note boisé e accenni nocciolati. Buona la struttura, succoso, legno appena percepibile, leggere note piccanti. Chiude con buona persistenza, leggermente amaricante su sentori d'erbe officinali.

Chardonnay Stellenbosch 2024 (Gamma Classica)

Il vigneto dal quale provengono le uve per la produzione di questo vino è posto su suoli composti da argille rosse e granito. Pressatura a grappolo intero, fermentazione in barriques usate di rovere francese da 300 litri dove poi il vino sosta per sei mesi sulle fecce fini con periodici batonnages.


Colore paglierino luminoso. Discreta l'intensità olfattiva: fresco, pulito e agrumato, sentori di pesca gialla. Dotato di buona struttura, agrumi maturi, legno dolce, accenni piccanti di zenzero, lunga la persistenza.

Pinotage Stellenbosch 2023 (Gamma Classica)

Il Pinotage è l'unico vitigno prettamente sudafricano. Si tratta di un incrocio di Pinot Nero e Cinsaut (Hermitage), creato dal professor Abraham Perold nel 1925. Messo a dimora nel 1952, dopo sette anni vinse il primo premio al Wine Show di Città del Capo. Questo vitigno unisce le caratteristiche nobili del primo con l'affidabilità del secondo. Può produrre vini complessi e fruttati con l'invecchiamento, ma è spesso piacevolmente bevibile anche da giovane. Il vigneto è situato a 250 metri d'altitudine sulle colline di Bottelary su suolo granitico con esposizione a Est. Il sistema d'allevamento è ad alberello. La fermentazione è stata effettuata in vasche d'acciaio e la maturazione del vino è avvenuta in barriques di rovere francese, il 10% delle quali nuove.


Rubino brillante, intenso e luminoso. Di media intensità olfattiva: frutta rossa fresca, ciliegia e frutti di rovo, leggere note speziate, vanigliate e nocciolate. Fresco e succoso, di media struttura, tannino delicato, buona vena acida, leggeri accenni speziati, lunga la persistenza. Vino dalla piacevole beva, senza essere molto complesso.

Watershed Pinot Noir Stellenbosch 2022 (Collezione Mercia)

Da uve Pinot Nero in purezza provenienti dal vigneto più alto di Mooiplaas, situato a 370 metri d'altitudine. La resa è di 29 ettolitri/ha. L'uva viene diraspata e quindi macerata per 48 ore ad acino intero. La fermentazione si svolge in vasche aperte, dopodiché la massa viene posta in pressa pneumatica. L'affinamento avviene in barriques selezionate da 225 e 300 litri dove il vino sosta per nove mesi.


Il colore è rubino-granato scarico, luminoso. Bel naso, intenso, presenta sentori floreali di fiori rossi e note fruttate di ciliegia e frutti di bosco con leggeri accenni di legno dolce. Fresco, sapido e succoso, delicato e di buona eleganza, bel frutto (ciliegia fresca e lampone), bella vena acida e buona persistenza.

Cabernet Sauvignon Stellenbosch 2022 (Gamma Classica)

90% Cabernet Sauvignon e 10% Petit Verdot provenienti da un vigneto situato a 150 metri d'altitudine su suolo ghiaioso sulle colline di Bottelary. La resa è di 32 ettolitri/ha. Fermentazione con macerazione di 10 giorni, affinamento in barriques da 225 e 300 litri, il 15% delle quali nuove, per 18 mesi.


Colore rubino profondo e luminoso. Buona l'intensità olfattiva, accenni tostati e leggere note vanigliate. Dotato di buona struttura senza essere pesante, succoso, frutta a bacca scura, accenni di cacao, caffè e cioccolato, leggere note piccanti, bella vena acida e lunga persistenza.

Tabakland Cabernet Sauvignon Reserve Stellenbosch 2020 (Collezione Mercia)

Il vigneto Tabakland è stato messo a dimora nel 1992 dove precedentemente si coltivava tabacco. È situato a 150 metri d'altitudine con esposizione a nord-ovest su suolo ghiaioso sulle colline Bottelary di Stellenbosch. Il sistema d'allevamento è a spalliera e la resa è di 34 ettolitri/ha. L'affinamento del vino avviene in barriques di rovere francese, il 42% delle quali nuove e le rimanenti di 3° e 4° passaggio, per una durata di 24 mesi. Dopo aver selezionato unicamente le barriques ritenute migliori, viene imbottigliato senza alcuna stabilizzazione, previa una leggerissima filtrazione. Viene prodotto unicamente in annate considerate eccezionali.


Molto bello il colore: rubino profondo e luminoso. Intenso al naso: frutta a bacca scura, note vanigliate e di tabacco dolce. Dotato di buona struttura, succoso, frutta a bacca scura (prugna, more), accenni di peperone e di legno dolce, bella vena acida e lunga persistenza. 

InvecchiatIGP: Villa di Capezzana Carmignano Doc Riserva 1979


di Stefano Tesi

Lo ammetto: avrei potuto (forse) sorprendervi sciorinando le note del Villa di Capezzana 1925 assaggiato mesi fa alla memorabile degustazione celebrativa del centenario. 1925, avete letto bene. Ma poi ho pensato che raccontare un vino che, di fatto, è imparagonabile e ormai praticamente impossibile da assaggiare da parte di chiunque avrebbe rischiato di trasformare questa rubrica in un esercizio di ostentazione gratuita. E allora ho ripiegato, si fa per dire, su un altro vino della stessa cantina: vecchissimo anch’esso, ma forse ancora miracolosamente reperibile da qualche parte, chissà. E comunque di un’età meno clamorosa del secolo tondo.


Si tratta del Villa di Capezzana 1979 Riserva, all’epoca Carmignano doc, prodotto dal leggendario e compianto Ugo Contini Bonacossi, personalità straordinaria alla quale mi legano tanti ricordi professionali e non solo e che ha costituito, si può dirlo senza tema di smentita, una delle figure più importanti del vino italiano dal dopoguerra ad oggi. Quando questa bottiglia nasceva, Ugo aveva 58 anni (era del 1921, ci ha lasciato nel 2012) e a Capezzana aveva seguito ben 33 vendemmie. Dentro, spiega oggi suo figlio Filippo, ci sono Sangiovese e, forse, un po’ di Colorino, Cabernet e Mammolo.


Del vino colpisce subito il colore, ancora integro, ma è soprattutto il bouquet che scuote per la sua incredibile freschezza e il susseguirsi di note vivaci, pungenti e vinose, con echi di resina e un’eleganza impettita che non tradisce le 46 primavere trascorse, relegando in fondo in fondo gli accenni terziari destinati a affiorare poi, con delicatezza, al palato. Qui, il gentile richiamo ai funghi secchi e al tartufo aleggia etereo e si disperde nella grande profondità del sorso, un insieme di eleganza e di vitalità, un che di sontuoso di cui è impossibile non compiacersi. Per quanto mi riguarda, uno degli assaggi più memorabili di questo 2025 che si avvia alla fine. E l’ennesimo motivo per ricordare con gratitudine Ugo Contini Bonacossi.

Iolei - Cannonau Sardegna Doc 2023


di Stefano Tesi

Gli webinar vinicoli sono un po’ passati di moda, ma è grazie a uno di questi che ho messo il naso nel Cannonau di una giovane azienda di Oliena fatto fatto tutto in acciaio, al contempo austero e fragrante, neghittoso e piacevole


Note di melagrana e geranio al naso, vibrante e agilissimo al palato. Bene!

Ristorante La Sosta a Serre di Rapolano: dove la vera Toscana si ferma a tavola


di Stefano Tesi

Non fatevi scoraggiare dalla bruma incombente sulla piana industriale che conduce alla Valdichiana, nè dall’architettura un po’ anni ’70 del contesto o dalla posizione fin troppo defilata: se passate dal raccordo Siena-Bettolle, siete all’altezza di Serre di Rapolano o dintorni e avvertite quel certo languorino allo stomaco imboccate senza esitare la rampa d’uscita. Dopo un km vi troverete, proprio sulla curva della strada che sale verso il borgo antico - qui una visita pre o postprandiale è consigliatissima, soprattutto all’antica Grancia fortificata, con panorama accecante sulle Crete Senesi - il viale di accesso al Gran Hotel Serre e, quasi nascosto in un basso edificio a parte, al suo ristorante, La Sosta.


Sobrio e curato come chi lo gestisce da sempre, Carlo Pazzaglia (per gli amici Chicco) e sua moglie Barbara, il locale è la classica e confortante sorpresa che si incontra lungo il cammino quando l’appetito chiama. Ci sono stato millanta volte e ognuna è stata una piacevole conferma. La cucina è ovviamente tipica toscana, spogliata però dagli orpelli e dai conformismi tourist-oriented tanto frequenti a queste latitudini, senza rinnegare però certe velate influenze della nativa Umbria, e in ogni piatto denuncia un’attenzione davvero appassionata alle materie prime locali: Chianina, olio extravergine proprio ed ottimo, verdure, formaggi. Chicco è attentissimo e vi segue con una miscela di inappuntabile aplomb professionale e di cortesia sorridente che mettono a proprio agio. La sua spontanea gentilezza, che sembra entrarci poco con la gastronomia in sé, è in questo caso un vero valore aggiunto. Lui c’è quando è necessario, sparisce se non c’è bisogno della sua presenza: virtù non comune tra gli osti. Consiglia e spiega se richiesto, segue con gli occhi, si interessa con discrezione. Ed è sempre disponibile. L’arredo è classico, i tavoli sono ben distanziati, niente frastuoni, niente chiacchiere udibili degli altri avventori nè musiche caciarone (il titolare è un beatlesiano accanito!), cosa sempre più rara al giorno d’oggi, come dicevano in un famoso film.

Carlo e Barbara

Se Chicco è il front-man, è Barbara che, rintanata tra i fornelli, ammannisce portate dal gusto consistente e dalla bontà collaudata, che attingono al classico ricettario regionale, ben districate tra ciò che la spesa quotidiana mette a disposizione della chef. I prima fila la stagionalità, è ovvio. Vietati gli eccessi: al bando tanto le megaporzioni da camionisti e quanto il minimalismo gastrofighetto. L’attenzione è concentrata sui sapori intensi della tradizione e sul loro equilibrio, per sfamare senza rimpinzare (molto più probabile uscire satolli che affamati, però!) e dare il giusto risalto agli ingredienti.

La Tartare

Dunque, tanto per fare degli esempi presi qua e là dalla carta, ecco la tartare, specialità della casa davvero da urlo, talvolta servita spalmata su crostini croccanti (ma in verità quasi crostoni), il coniglio porchettato al finocchio, l’insalata di baccalà all’extravergine, le pappardelle sull’anatra, le suadenti zuppe all’ortolana con le verdure croccanti, i fusilli al pecorino delle Crete. oltre, si capisce, a portate di salumi e formaggi eccellenti, selezionati di persona da Carlo. 

Tagliolini al tartufo

Tra i suoi suggerimenti, da ascoltare sempre, quelli sulle opportunità offerte dai fuori menu, altrimenti dette improvvisate, come quando al ristorante arrivano i panieri di funghi freschi del Casentino (assaggiata di recente un’insalata di ovoli memorabile) e i tartufi bianchi, specialità delle Crete Senesi medesime. La cantina è toscana, naturalmente, con un buon ventaglio di referenze affidabili. Si parcheggia davanti al locale e, vini esclusi, si spendono sui 35 euro.

Ristorante La Sosta
Località Crocevie, 222
Serre di Rapolano (SI)
Tel. +39 0577 704777
serre.hotel@gmail.com

InvecchiatIGP: Terredora - Taurasi DOCG "Pago dei Fusi" 2005


di Luciano Pignataro

Pago dei Fusi è un Taurasi di Terredora che nasce da uve di aglianico coltivate a Pietradefusi, uno dei comuni dell’areale della DOCG, nella parte più bassa per la precisione: i vigneti si trovano infatti sulle dolci colline di argilla rossa che circondano il paese, non lontano dalla sede aziendale, comunque a 400 metri di altitudine. Nell’ambito della riorganizzazione della linea aziendale avviata dalla famiglia Mastroberardino, i fratelli Lucio e Paolo, entrambi enologi, decisero di affiancare questo vino alla loro etichetta più conosciuta, Campore. Ci troviamo davanti a questo bicchiere in un’occasione decisamente particolare: i vent’anni di Vitigno Italia, la rassegna diretta da Maurizio Teti a Napoli, che sta vivendo una nuova fase di espansione con la decisione di traslocare dalla sede di Castel dell’Ovo, spettacolare e pratica, ben servita da treni, bus e aliscafi della Stazione Marittima.


La consueta Anteprima, di solito fissata nell’ultima settimana di novembre, è stata arricchita da una degustazione storica di sette vini campani usciti in commercio nel 2005: quattro bianchi e tre rossi. La scelta è caduta proprio su Pago dei Fusi, affiancato dal Taurasi di Quintodecimo di Luigi Moio e dal Camarato di Villa Matilde, tutti da aglianico in purezza. L’aglianico è un vitigno che non conosce parabole discendenti quando è trattato bene e senza fretta. E il protocollo del Taurasi non è certo una corsa contro il tempo, anzi: molti produttori aspettano anche oltre il necessario prima di metterlo in commercio. In un momento in cui vanno di moda rossi snelli ed eleganti, questa degustazione ci ha in qualche modo riportato con i piedi per terra, ricordandoci l’importanza dei vini strutturati e il loro straordinario fascino con il passare del tempo. La 2005 era la terza edizione di questa etichetta, dopo la calda 2003 e l’eccezionale 2004, osannata da Wine Spectator con un 95; a questa 2005 in degustazione era stato comunque assegnato un 94, cui si aggiungono i 90 punti di Wine Enthusiast.


Statistiche a parte, il punto, quando si apre un Taurasi di vent’anni, non è verificare se ha resistito, ma come è evoluto. E il Pago dei Fusi 2005 si è presentato all’appuntamento con il pubblico degli appassionati in splendida forma: pimpante, fresco, con note di frutta, tabacco, arancia, cenere, fumé, carruba. Un viaggio olfattivo complesso, a cui ha risposto un palato perfettamente allineato, con tannini morbidi ma ancora ficcanti e tanta acidità, in grado di sostenere il sorso fino in fondo, con una chiusura lunga, appagante, precisa. Un vino compatto ma non pesante, perfettamente in linea con lo stile taurasino, mai troppo ammiccante, tipico dei vini montanari. 


La magia del vino sta nella sua capacità di evocare le persone, ricordarci il passato, e il nostro pensiero in sala è andato ovviamente a Lucio Mastroberardino, scomparso prematuramente qualche anno dopo, i cui vini continuano a far parlare di sé quando vengono stappati. Non è un semplice omaggio a chi non è più fra noi, ma il riconoscimento di chi ancora oggi ci racconta la sua visione lungimirante nello scegliere uno stile in perfetto equilibrio contemporaneo, rendendo leggibile la tradizione anche a chi non ha avuto il Taurasi nel biberon. Un grande vino che ha chiuso una degustazione emozionante e memorabile.

Cantele - Fiano Salento IGP "Alticelli" 2015


di Luciano Pignataro

Della serie: bottiglie dimenticate che spuntano all’improvviso. Pensate solo in acciaio per essere bevute subito, economiche, ma capaci di regalare belle sorprese a chi è curioso.


Eccolo qui: il Fiano di Cantele, coltivato nel ventoso Salento. Fresco dopo dieci anni, polposo, fruttato al naso e con un finale lungo.

Federico Graziani - Etna Doc "Profumo di Vulcano" 2022


di Luciano Pignataro

Se i miei calcoli sono giusti, Federico Graziani festeggia il mezzo secolo di vita quest’anno, ma dovremmo moltiplicare la sua età per tutte le vite che ha vissuto da quando lo vidi per la prima volta, giovanissimo, vincere il titolo di Sommelier dell’anno a Sorrento nel 1998. Ha lavorato nei media, poi ha studiato da sommelier anche a livello internazionale, è diventato sommelier praticante in numerosi ristoranti di grido a Milano, infine è stato fulminato dall’Etna, dove ha acquistato una piccola proprietà da un macellaio di Passopisciaro in Contrada Feudo di Mezzo, finendo per diventare un produttore di successo mondiale grazie anche all’incontro con l’incredibile Salvo Foti, il Mago Merlino dei vini siciliani.


Quale occasione migliore per portare il suo Profumo di Vulcano 2022 se non a un pranzo da Nu Trattoria Italiana, ad Acuto in Ciociaria, per abbinarlo ai piatti straordinari di Salvatore Tassa, grande cuoco italiano, o meglio “cuciniere” come ama definirsi lui, stellato da trent’anni? La compagnia lo merita, dei piatti non parliamone nemmeno: fra orto che regala bietole, scarole, cavolfiori e misticanza biodinamica, pasta fresca fatta a mano al momento con grani del territorio, maiale nero dei Monti Lepini allevato allo stato brado… e così via.


L’abbinamento, per essere centrato, deve essere soprattutto ideologico prima ancora che gustativo: deve appartenere alla stessa visione del mondo di chi produce vino e di chi cucina. Sono vite e racconti che si incrociano in un ritorno all’autenticità come unica via di uscita possibile dalla opprimente omologazione plastificata e sotto vuoto. E così, fra un piatto e un bicchiere, si consuma il patto fra la generazione boomer e quella Zeta: memoria ricostruita ma ormai un po’ fatalista da un lato, ribellione energica allo tsunami comunicativo industriale dall’altro.


Tassa cucina pensando al nonno ma con tecniche contemporanee; Federico Graziani guarda al suo piccolo appezzamento vulcanico a 600 metri, da cui nasce il suo vino a base di nerello mascalese, nerello cappuccio, alicante e francisi, partendo dal sapere magico di Foti e arrivando alla sua personale idea di cosa e come comunicare per sfondare. Direi, in ogni caso, unicità e autenticità: gli storytelling lasciamoli ai polli di batteria degli uffici marketing e alle loro improbabili invenzioni.


Prima annata 2009, Profumo di Vulcano punta alla fermentazione spontanea senza controllo della temperatura, con successivi affinamenti in tonneaux di primo e secondo passaggio per una ventina di mesi, prima di altri quattro in bottiglia. In sintesi: due anni, e il 2022 è sicuramente da considerare giovane. Cosa ci stupisce di questo vino? Anzitutto la leggerezza assoluta del naso e del sorso, poi quell’energia misteriosa che non possiamo ridurre al semplice termine “freschezza”: una beva tumultuosa, cangiante. La suggestione del vulcano e del nome stesso del vino ci fa immaginare la lava che vediamo in tv o il pennacchio che si scorge dall’aereo quando voliamo da vulcano a vulcano, dal Vesuvio all’Etna. La nota fumé è indiscutibile, così come l’alternanza fra una lieve sensazione amaricante e una frutta rossa croccante che conduce a un finale lungo, lunghissimo, che resta per molto tempo e invita subito a un nuovo sorso appagante.


Un vino di carattere, insomma, che non si dimentica. Proprio come i piatti del cuciniere che si diverte con il forno a legna e con la brace. Una bellissima esperienza congiunta, che ci lascia ottimisti in un’Italia che annaspa in cerca di soluzioni: soluzioni che ognuno di noi, in realtà, ha davanti al portone di casa.

Brunello di Montalcino 2021: l’annata delle sfaccettature, il racconto delle vigne


Si è chiusa a Montalcino la 34ª edizione di Benvenuto Brunello, l’appuntamento più longevo d’Italia dedicato alle anteprime del Sangiovese, che dal 20 al 24 novembre ha portato al Chiostro di Sant’Agostino 123 cantine e oltre duemila partecipanti tra stampa, operatori e appassionati. La manifestazione, attesa ogni anno perché segna ufficialmente il debutto delle nuove annate, aveva acceso fin da subito i riflettori sul Brunello 2021, sul Brunello Riserva 2020 e sul Rosso di Montalcino 2024, proiettando la denominazione verso un calendario commerciale che si apre, come tradizione, il 1° gennaio. Nei giorni riservati alla stampa – 20, 21 e 22 novembre – erano stati attesi circa cento tra giornalisti e critici, quasi la metà provenienti dall’estero, con una delegazione statunitense particolarmente folta affiancata da operatori di Regno Unito, Canada, Corea del Sud, Paesi Bassi, Austria, Germania, Danimarca e Scandinavia. Un segnale forte per un territorio che, in un momento complesso per il vino italiano, continua a rappresentare uno dei brand più solidi del Made in Italy enologico.


Il doppio format è stato confermato anche quest’anno: dopo le degustazioni tecniche dedicate alla critica, da sabato 22 a lunedì 24 novembre i banchi d’assaggio sono stati consegnati ai produttori per i walk around tasting aperti a operatori, sommelier e appassionati italiani e stranieri. «Benvenuto Brunello è l’evento che evidenzia l’impegno qualitativo della nostra denominazione – aveva ricordato il presidente del Consorzio, Giacomo Bartolommei – ed è un’occasione privilegiata per guardare al futuro e costruire strategie di promozione più incisive a partire dagli Stati Uniti. La presenza di tanti giornalisti internazionali è una vera iniezione di fiducia». E la risposta del pubblico ha confermato le aspettative: presenze qualificate, grande interesse per le masterclass e un forte dinamismo lungo tutto l’arco della manifestazione.


Al centro dell’attenzione, naturalmente, il millesimo 2021 ovvero l’ultima annata che andrà in commercio. Secondo il metodo di valutazione “Brunello Forma”, messo a punto dal Consorzio, l’annata si è presentata come “fragrante”, “definita” e “verticale”: tre parole chiave che ben sintetizzano un profilo aromatico più floreale e fruttato rispetto al passato, con note di ciliegia croccante, pesca, spezie leggere e una freschezza che accompagna la beva senza irrigidire i tannini. L’andamento climatico, segnato da una delle gelate primaverili più dure degli ultimi vent’anni e da un’estate molto secca ma priva di eccessi termici, ha generato vini equilibrati, di ottima precisione estrattiva e con una pulizia aromatica rara. Nonostante le difficoltà della stagione, l’armonia tra alcol, tannino e concentrazione ha sorpreso sia la commissione interna sia il panel internazionale di Master of Wine coinvolti negli assaggi alla cieca.


Concentrandomi, come detto, sui Brunello 2021 – sia nelle versioni “base” sia nella versione “selezione\vigna” – il quadro complessivo restituisce calici dal profilo nitido, sorretti da una componente fruttata precisa e da una tessitura tannica ben rifinita. Il frutto rosso croccante, i richiami floreali e una speziatura discreta ricorrono con costanza, mentre la struttura tende a privilegiare la misura più della forza. Non è un’annata che punta sull’abbondanza, ma sulla pulizia e sulla leggerezza controllata, con un sorso capace di coniugare profondità e scorrevolezza. Nei campioni più convincenti si ritrovano energia, equilibrio e una progressione naturale; altrove compaiono lievi accenni di maturità o una freschezza meno vibrante, elementi coerenti con l’andamento climatico.


Detto ciò, è nelle selezioni da singola vigna che il 2021 mostra talvolta un passo in più: qui il Sangiovese assume toni più intensi e territoriali, con trame più fitte, personalità più marcata e una capacità espressiva che riporta al cuore agricolo di ogni parcella. Sono vini che, pur senza perdere la finezza dell’annata, riescono a scavare più a fondo nel carattere del luogo, offrendo complessità e una prospettiva evolutiva più autorevole. Riassumendo, la 2021 consegna vini generalmente già godibili, ma con una traiettoria evolutiva tutt’altro che scontata. Le differenze tra i vari terroir dell’areale – soprattutto se confrontiamo le espressioni “base” e le selezioni di vigna – non sono un limite: rappresentano semmai la ricchezza delle molte anime che convivono nella denominazione, ciascuna capace di raccontare un volto differente dello stesso territorio. 

Di seguito, con delle brevi note di degustazione, i miei dieci migliori assaggi:

Tiezzi – Brunello di Montalcino Vigna Soccorso 2021: nel calice si apre come un paesaggio dopo la pioggia: profumi nitidi, stratificati, dove la pietra umida dialoga con agrumi scuri e un frutto maturo che sembra scolpito nella luce del colle. Il sorso avanza con passo saldo, naturale, animato da sfumature erbacee eleganti e da una vibrazione gustativa che ne prolunga il respiro. È un Vigna Soccorso che brilla per autenticità, un racconto fedele del suo luogo: tra le interpretazioni più memorabili degli ultimi anni.

Le Potazzine – Brunello di Montalcino 2021: un profilo delicato che unisce profumi floreali chiari a piccoli frutti croccanti e sfumature vegetali tipiche delle zone più alte. Emergono sentori sottili di petali chiari, bacche acidule e note aromatiche che ricordano il sottobosco e spezie morbide. Il sorso avanza con passo deciso ma composto, mostrando un’energia misurata e una qualità tannica cesellata. L’allungo è nitido, arioso, con richiami floreali e sensazioni fresche che ne ampliano la persistenza con grande naturalezza.

Val di Suga – Brunello di Montalcino Vigna del Lago 2021: profilo aromatico luminoso, costruito su sfumature floreali leggere e una speziatura delicata che dà ritmo al naso. Il gusto è immediato e vibrante, con richiami fruttati nitidi e un tocco balsamico che dona profondità senza appesantire. La trama tannica, sottile e precisa, accompagna un finale armonico e gustoso, tra i più equilibrati e coinvolgenti dell’annata.

Sesta di Sopra – Brunello di Montalcino 2021: si apre con un respiro intenso, pieno di luce, dove profumi di fiori chiari, erbe resinose e accenni scuri si rincorrono con naturalezza. Il frutto emerge con tono caldo e avvolgente, ricordando un ricordo antico più che una semplice nota aromatica. Al palato il vino corre agile, saporito, con una vena salina che scolpisce il finale e una materia pulsante, quasi “terrosa” nella sua energia. Una versione autentica, vibrante, che lascia il segno.

Fattoi – Brunello di Montalcino 2021: il vino si presenta con una tensione viva, quasi come una corda pronta a vibrare: il frutto spinge con immediatezza e slancio, mentre la materia è compatta e serrata, richiedendo tempo per aprirsi. Al naso fioriture delicate si alternano a richiami succosi che trascinano il sorso, il quale rivela una trama austera ma misurata, capace di sostenere lo slancio giovanile senza perdere grazia. C’è qui un carattere deciso che non maschera la promessa di crescita: merita attenzione e pazienza, perché col tempo la sua precisione tenderà a dispiegarsi con eleganza.

Giodo – Brunello di Montalcino 2021: un Brunello che porta nel bicchiere la luce calda del versante meridionale, ma con un passo sorprendentemente lieve, quasi sospeso. Il profilo aromatico è mutevole come un riflesso d’acqua: piccoli frutti luminosi, tocchi speziati non invadenti, accenni di terra umida e una vibrazione floreale che affiora pian piano. In bocca procede con slancio naturale, pieno di sapore e vitalità, ma senza alcun senso di pesantezza. La tessitura tannica è soffice e ordinata, come un tessuto fine che accompagna il vino senza mai imprigionarlo. È un vino che conquista senza sforzo, difficile davvero non lasciarsi prendere.

Pietroso – Brunello di Montalcino 2021: profilo olfattivo combina frutti scuri limpidi, fiori minuti e richiami alle erbe di collina, componendo un quadro essenziale ma ricco di sfumature. Il sorso avanza deciso, compatto, sostenuto da una grana tannica vibrante che trova appoggio in una spinta saporita e in un’energia minerale che allunga la coda del vino. È ancora in piena maturazione, ma la chiarezza dell’impianto e la coerenza interna lo collocano già tra le interpretazioni più riuscite del suo versante: un Brunello che unisce rigore e anima, senza mai forzare il passo.

Castello Tricerchi – A.D. 1441 – Brunello di Montalcino 2021: fin dal primo impatto si percepisce che questo vino gioca in un’altra categoria: più arioso, più sottile, quasi sospeso. Il profilo è delicatamente fruttato, attraversato da vibrazioni fresche e da un respiro minerale che ne accentua la nitidezza. In bocca procede con passo trattenuto, come se volesse rivelarsi poco a poco, poi improvvisamente accelera: la struttura si compatta, la profondità emerge e la trama tannica—fine e scolpita con precisione—accompagna un allungo deciso e pulito. Un Brunello di grande compostezza, che affascina per misura e tensione, e che mostra chiaramente quanto potrà crescere con il tempo.

Il Paradiso di Manfredi – Brunello di Montalcino 2021: colpisce subito per un respiro profondo, quasi meditativo, da cui affiorano aromi pieni e ben fusi, tra fragranze scure, tocchi erbacei eleganti e una terra viva che parla di radici. Il frutto emerge con naturalezza, senza mai alzare la voce, sostenuto da un insieme aromatico ricco ma sempre composto. Il sorso scorre con grazia, misurato, con tannini leggeri come pulviscolo e una progressione che unisce delicatezza e forza interna. La chiusura è luminosa, distesa, capace di lasciare un’eco lunga e pulita. Un Brunello di straordinaria finezza espressiva: spontaneo, profondo, irresistibilmente armonico.

Fuligni – Brunello di Montalcino 2021: all’inizio si presenta raccolto, con un profilo serio, costruito su toni di frutto maturo e accenni boschivi, poi lentamente si apre e lascia emergere un soffio più luminoso che ne dilata il respiro. La trama aromatica è ampia, stratificata, e accompagna un sorso energico ma composto, dove la materia è autorevole senza mai risultare pesante. I tannini, finissimi e perfettamente modellati, guidano una progressione profonda, che cresce a ogni assaggio e suggerisce un futuro molto lungo. Un Fuligni solido, aristocratico, che si rivela con calma e promette anni di splendida evoluzione.

Altri ottimi Brunello di Montalcino 2021

San Lorenzo
Canalicchio di Sopra – Vigna Montosoli
Poggio di Sotto
Caprili
Castello Romitorio – Filo di Seta
Rabissi
Sesta di Sopra - Magistra