InvecchiatIGP: Poggio di Sotto - Rosso di Montalcino 2009


di Stefano Tesi

Per fortuna non sono il solo a scoprire di avere in cantina roba di cui nemmeno immaginavo l’esistenza. Ed è consolante scoprire che, esattamente come succede a te, nemmeno l’amico che ti invita a cena abbia la più pallida idea delle vie attraverso le quali quella bottiglia sia capitata nella sua, ma solo vaghissimi e sfrangiati ricordi di circostanze molto dilatate, probabilmente inattendibili. La cosa divertente allora – a parte bersela, si capisce – è provare in due o tre commensali con parecchio passato in comune a ricostruire il perché e il percome di quella presenza, risalendo nel tempo a storie, aneddoti, fatti e persone, degustazioni sparse, cesti natalizi e la colpevole sinecura di chi, sguazzando spesso tra troppe etichette, a volte si perde, o sottovaluta o semplicemente dimentica ciò che ha in mano.


Nelle more di questi amarcord potatorii, ovviamente, il vino cala nei bicchieri e suscita le più svariate impressioni. Questo Rosso di Montalcino 2009 di Poggio di Sotto è passato esattamente sotto le forche caudine or ora descritte. Non sto a raccontare l’arcinota storia dell’azienda, una delle più celebri e celebrate di Montalcino. Mi limito a dire che la bottiglia in parola nacque sotto l’egida del compianto e “gambelliano” Piero Palmucci, due anni prima che la cedesse a Collemassari di Claudio Tipa.


La domanda fondamentale che molti si pongono davanti a un Rosso di Montalcino di sedici anni è: avrà retto il tempo? E sarà nato per reggerlo? Io non ho risposte certe, so solo, per un briciolo di esperienza e di assaggi che, sì, la vera o presunta “spalla” del Brunello (per carità non entriamo nel dibattito dei rossi a volte più brunelliani dei brunelli) è in grado eccome di scavalcare i decenni. E che comunque è quel tipo di vino capace di dare le classiche sorprese da longevità inattesa.


Non ho assistito personalmente allo stappamento della bottiglia, ma il mio ospite – degustatore di lungo corso – mi ha assicurato tappo integro, adeguato anticipo e giusta ossigenazione.


L’assaggio gli ha dato ragione: se il colore è un rubino di media intensità, con prevedibile unghia aranciata, il naso ci ha sorpreso per pienezza e pulizia, un’asciuttezza penetrante e una tipicità di Sangiovese del tutto inconfondibile, senza deviazioni o tracce di decadimento. Stesse sensazioni al palato: pienezza, pulizia, freschezza e una profondità quasi neghittosa che mescola ampiezza e agilità, in sostanza invogliando alla ribevuta. Infatti ne abbiamo ribevuto tanto. Peccato non ci sia servito a ricostruire la storia della bottiglia, ma ce ne siamo fatti una ragione.

Nicola Biasi - Renitens 2022


di Stefano Tesi

Anche al di là del progetto in sé (assemblaggio di 6 vini diversi da 6 uve piwi diverse di 6 viticoltori diversi), difficile non cogliere il fascino di questo bianco che al naso sa di pesca sbucciata e frutti tropicali.


In bocca è ricco, denso, con acidità pungente, vena salina e finale amarognolo.

Il Bistrot di Agricola Toscana: a Firenze non troviamo solo "mangifici" per turisti!


di Stefano Tesi

Stefano Frassineti da Rufina (FI) è uno chef di lungo corso e solida esperienza, che da un po’ è divenuto carsico, nel senso che tende ad apparire e scomparire con ciclica facilità. Croce e delizia dei sostenitori della sua cucina di sostanza, profondamente toscana ma sempre ricca di inventiva, esuberante, a tratti allegramente entusiasta, dove i piatti – anche i meno riusciti, pochi in verità – rispecchiano uno stile sì generoso ma mai caricaturale. Un rischio, quest’ultimo, da cui il nostro è (lo conosciamo da parecchio) per natura immune, ma altissimo in una regione ad elevato tasso di oleografia gastronomica. E, a maggior ragione, nel suo dichiarato epicentro: Firenze.


Sparito per qualche tempo dai radar della ristorazione e dedicatosi alla ricerca di una nuova dimensione, Frassineti riappare ora ai fornelli di Agricola Toscana Il Bistrot (uno spin-off dell’omonimo ristorante di via del Corso), spuntato senza preavviso in Borgo Ognissanti, ossia nel cuore del mangificio fiorentino.


La sorpresa è tripla: per l’epifania del cuoco scomparso, per il nuovo locale che a tempo di record ha sostituito il precedente, di tutt’altro stile e, soprattutto, perché il Bistrot – diretto dal patron, il giovane e intraprendente Simone Angerame - sembra appunto volersi discostare con decisione dal mainstream turistico che ormai ha strangolato o quasi (ma, si sa, è la domanda che genera l’offerta, quindi nulla di cui meravigliarsi in una delle patrie nazionali dell’overtourism) la città.

Stefano Frassineti

Il proclama è esplicito: “cucina toscana contemporanea” (aggettivo abusato da cui però prendo le distanze) capace di discostarsi dalla cucina cartolinesca delle bistecche in vetrina e della carbonara col tartufo e proporre i piatti di una toscanità riconoscibile, dedicata prima di tutto ai corregionali e ai fiorentini, gentile e verace, affidabile, gustosa, sostanziosa ma non becera, né scontata.

Naturalmente, alle parole devono seguire i fatti. E noi siamo andati a verificarli.

I risultati sono stati confortanti. A cominciare dall’incontro sul posto con una clientela di placidi e garruli residenti che non è più tanto facile intravedere in certi contesti. L’ambiente è sobrio e luminoso, il servizio amichevole e collaborativo, con molta cortesia e poca ruffianeria.

Poi si passa alla cucina, che è quello che conta davvero.

Cominciamo da ciò che, a modesto parere di chi scrive, è destinato a diventare il piatto-simbolo (direi iconico, se non aborrissi anche quest’aggettivo) del locale: il risotto al piccione, frutto di un lavoro paziente e certosino che prevede la dissossatura, l’utilizzo delle ossa per fare il fondo, la mantecatura con burro acido. Pietanza di gran gusto, consistenza e sostanza quasi irresistibili che riportano il palato a stili e gusti antichi. L’unico suggerimento è di prenderlo in due, perché la preparazione della portata è abbondantissima e sprecarne metà lasciandola in cucina sarebbe un oltraggio.

Risotto al piccione

Più che buono, direi anzi proprio appetitoso, anche l’antipasto di porchetta croccante, tagliata sottile, accompagnato da un sapido segato di verdure altrettanto croccanti. Molto tradizionale e consistente, ma senza le graveolenze domestiche della cucina della nonna, il classico pollo alla cacciatora che, più in là con la stagione, resterà ruspante ma si accompagnerà a una primaverile e fresca salsa allo yogurt. Il menu di primavera preannuncia anche la lingua alla piastra con doppia salsa, il crostino di fegatini battuto al coltello (“…e non frullato!”, precisa lo chef), una parmigiana di melanzane cotta della melanzana medesima e varie altre tentazioni. Garantita l’assenza dal menu, conclude il cuoco, di qualsiasi tipo di burrata…una scelta ineccepibile.

Porchetta croccante

Due parole, infine, sulla carta dei vini, che oltre al servizio al bicchiere propone una buona scelta di etichette sia toscane che italiane, con alcune referenze fuori passo piacevolmente inusuali a queste latitudini. Come il Valpolicella 2020 di Illatium, bevuta tanto gentile quanto solida che mi ha ben accompagnato sul risotto e tutto il resto. Spesa sui 60 euro.

Agricola Toscana – Il Bistrot

Borgo Ognissanti,25r, Firenze FI

Telefono: 055 388 0177

www.agricolatoscana.com


InvecchiatIGP: Agnanum - Falanghina dei Campi Flegrei Doc 2008


di Luciano Pignataro

Come tutti sappiamo, non è certo un buon momento per i Campi Flegrei ma siamo fiduciosi sui tempi lunghi dell’agricoltura che, sicuramente, sopravvive alle scosse meglio dei palazzi spesso costruiti con cemento di scarsa qualità e senza alcun costruiti criterio antisismico. 
Mi è venuta in mente una bella verticale fatta al San Pietro Bistrot di Torre del Greco, patria della cucina di mare, di cuochi e di marinai, con le bottiglie raccolte dall’amico Maurizio Cortese nel corso degli anni. Una verticale fatta nel migliore dei modi possibili, a bordo acqua, godendo della cucina semplice ed efficace voluta dal patron Mariano Panariello e dei vini di Raffaele Moccia, contadino flegreo che ad Agnano, dentro l’area amministrativa del comune di Napoli e ai bordi di quello di Pozzuoli, anno dopo anno ha messo a posto l’intera collina del versante meridionale degli Astroni, uno dei tanti vulcani della zona, per fortuna spento, nel cui cratere, circondato da un muro aragonese e borbonico, sopravvive uno degli ultimi esempi di antica foresta europea.


Raffaele ha continuato a coltivare la vigna, una resilienza su suolo sabbioso di fronte all’assedio del cemento che però ha risparmiato questo terreno agricolo che si raggiunge attraverso un sentiero sterrato proprio all’uscita Agnano della Tangenziale di Napoli. Nel corso di questo vent’anni e passa i vini di Raffaele, realizzati con semplicità e pulizia, non hanno mai smesso di crescere. E così ci godiamo le annate 2008, 2009, 2010, 2011, 2012 e una Vigna del Pino 2006, ossia falanghina con un leggero passaggio in legno grande all’epoca voluto dall’enologo Maurizio De Simone.

Raffaele Moccia - Credit: Falanghina Republic

Parliamo della 2008 perché, essendo la più vecchia della serie, riassume, annata più annata meno, tutte le caratteristiche di questo vino ottenuto da un vitigno perfettamente acclimatato sul suolo sabbioso vulcanico sempre carezzato dalla brezza marina che conserva l’uva tonica anche nei momenti di grande caldo. Del resto la Falanghina, come il Piedirosso, è sostanzialmente indifferente alle alte temperature e regge bene anche in mancanza di eccessive escursioni termiche tipiche delle zone interne della Campania.


Di questo 2008 ci ha colpito anzitutto la freschezza, la tonicità, assolutamente straordinarie per un vito non pensato per un con sumo così lontano nel tempo. I sentori di frutta agrumata che ancora resistono sono esaltati da una nota di idrocarburi tipica dei vini vulcanici, poi vivono ancora piacevoli note balsamiche e di miele. Al palato è scattante, tonica, la freschezza è ancora intatta e regge la beva in maniera magnifica sino al finale lungo e preciso, appagante che invoglia a ripetere il sorso. 


Le altre annate mantengono queste caratteristiche, anche la 2011 che è stata la più calda di tutte con 40 giorni di afa pura a partire dal Ferragosto dopo una estate fresca. Solenni e perfette la 2010 e la 2012 mentre la 2009, abbastanza piovosa nel finale di vendemmia, appare in forma seppur leggermente diluiti rispetto alle altre. Piccolo grande capolavoro di un bravo vigneron nel senso letterale del termine, ancora oggi stupito dal clamore mediatico che lo circonda.

Cantine Menhir - Filo Doc Terra d'Otranto Negroamaro Riserva 2021


di Luciano Pignataro

Una nuova visione di negroamaro in purezza: più bevibile, più fresco, più fruttato provato da Osteria Origano a Minervino di Lecce. 


Menhir rilancia con orgoglio la doc Terre D’Otranto e rilegge l’uva tipica del Salento alleggerendo l’impatto rispetto ai grandi classici del passato. Sull’agnello al forno.

La Cadalora - Majere Casetta Vallagarina IGT 2021


di Luciano Pignataro

Questa bottiglia ha fatto un viaggio di mille chilometri e si è fermata ad Eboli con Gesù perché ha trovato un oste colto, Carmelo Vignes che nell'antro scavato nella pietra, Vico Rua, raccoglie con gusto rarità da bere e conserva piatti in via di estinzione tipico, a cominciare da una pizza realizzata con semola, salsa cotta di pomodoro e pecorino cilentano irrorato come se nevicasse.
Apriamo questa bottiglia, il vitigno si chiama casetta ed è una varietà tipica delle zone collinari della Val Lagarina ad Ala in Trentino e a Dolcé in provincia di Verona.


Questa storica azienda, La Cadalora, ha deciso di vinificarlo in purezza invece di usarlo come uva da taglio curando il vigneto Majere che dà il nome al vino dove il casetta è presente sin dagli anni ’70. Il toponimo ci riporta ad un altro vitigno, stavolta casertano, il casavecchia e ci lascia la curiosità di scoprire la ragione di questo nome che riscalda il cuore. Attenzione, non va confuso con il lambrusco! Ce lo spiega la Fondazione Slow Food: "questo vitigno deriva dalla domesticazione della Vitis vinifera silvestris, varietà d’uva selvatica nata da un incrocio spontaneo. Questa varietà a bacca rossa è nota anche col nome di lambrusco a foglia tonda ma nulla ha in comune con le grandi famiglie di uve Lambrusco. Il suo aspetto è caratterizzato da una foglia tonda, da qui anche il nome dialettale foja tonda; il grappolo è conico e di dimensioni medie, con acino medio-grande mentre la buccia è di norma sottile, di colore scuro, quasi un blu-nero, abbastanza resistente ai freddi sebbene molto sensibile alle gelate invernali. Si adatta bene a terreni calcarei e collinari con una buona esposizione e ventilazione, ad altezze che non superino i quattrocento metri di altitudine”.


La casetta viene lavorata prima in acciaio e poi lasciata per un anno ad affinare in barrique. Il risultato è davvero interessante: non ha grandi profumi ma è molto efficace quando si abbina a piatti robusti. Bevibile grazie a tannini ben risolti, fresca, di buon corpo, assolutamente in forma dopo quattro anni dalla vendemmia, il che lascia supporre una buona longevità, la spendiamo su involtini di trippa di agnello tipici dell’Appennino Meridionale, soffritto di interiora di vitello, stinco di maiale in salsa di cipolle e un bel piatto di trippa con patate. 


Roba da Aglianico, insomma, anche perché tutti piatti pomodorosi. La Casetta, a dispetto del nome delicato e avvolgente, svolge il suo ruolo in modo perfetto nell’abbinamento con questo cibo e non ci siamo sbagliati perché leggendo la scheda per preparare questo articolo leggiamo che è consigliata proprio con piatti robusti. Poco meno di 20 euro, l’ennesima conferma di quanto sia ricca la nostra bella Italia. Diversità, inclusione e movimento costituiscono la ricetta che l’ha fatta grande. E niente di meno potrebbe esser e valido in questo pontile piantato in mezzo al Mediterraneo.

InvecchiatIGP: La Perla - Valtellina Superiore La Mossa 2011


di Carlo Macchi

Dal 2009, con la creazione de La Perla, Marco Triacca e suo padre si sono “messi in proprio” ritagliandosi un’azienda su misura, completamente staccata dal famoso marchio che porta il loro cognome. Siamo in Valtellina, tra Sondrio e Tirano e questa piccola perla produce poche tipologie di vini: un solo Superiore, una Riserva, uno Sforzato e uno spumante classico non da Chiavennasca ma da pignola, uva autoctona pochissimo conosciuta. Marco segue tutto, dalla vigna alla cantina, con un impegno veramente lodevole perché qui portare avanti anche pochi ettari di vigneto non è facile. Inoltre, non lascia niente al caso e ha anzi inserito in vigna alcune interessanti innovazioni che hanno bisogno di tempo e attenzione.


I risultati però di vedono sia nei vini più recenti (premiati anche quest’anno da Winesurf) che in prodotti che potrebbero iniziare a mostrare qualche ruga, come nel Valtellina Superiore La Mossa nato in un’annata non certo “dietro l’angolo” come la 2011. Il nome del vino viene dalla passione di Marco per il Palio di Siena e ce lo ha proposto proprio per dimostrare come la chiavennasca (alias nebbiolo) possa maturare bene e migliorare col tempo anche per vini non fatti per il lungo invecchiamento.

Domenico e Marco Triacca - Credit: Repubblica

Il colore è un rubino chiaro ma ancora molto brillante e il naso, all’inizio incerto, si è aperto su note balsamiche e speziate. Ma è in bocca che ci ha stupito, con una tannicità viva e ferma, un corpo dove la freschezza non è mai fuori quadro e dona da una parte giovinezza e dall’altra l’equilibrio che serve ai vini per durare nel tempo.


Lo abbiamo assaggiato, riassaggiato e poi abbinato ad un ottimo spezzatino con polenta, perché il bello dei vini valtellinesi, e in particolare di quelli di Marco, è che su piatti importanti della nostra tradizione vanno a nozze. E’ scontato dire che l’apertura di questa bottiglia è stata una “buona Mossa”!

Damiano Ciolli - Olevano Romano Cesanese DOC Silene 2023


di Carlo Macchi


L’annata 2023 di Damiano Ciolli, innovatore principe del Cesanese, dal punto di vista quantitativo è stata tragica. 


La peronospora ha distrutto quasi tutto e così questa bottiglia è quasi un unicum. Grandi profumi di spezie e fiori, tannicità viva, dinamicità gustosa e vibrante freschezza. Da provare!

Da Sora Maria e Arcangelo: dove si mangia benissimo perché… è spesso chiuso


di Carlo Macchi

Pensandoci bene da cosa si capisce il successo di un ristorante? Dai guadagni? Dal fatto che è sempre pieno a pranzo e a cena? Forse si, ma da cosa si capisce che quel successo sia dovuto ad una qualità alta sempre costante e che lo rimarrà per sempre? Qui il discorso si fa più complesso ma alla fine, grazie a Sora Maria e Arcangelo a Olevano Romano, l’ho capito.

Giovanni Milana e la sora Maria (sua mamma)

Dipende da quanto stai chiuso! Da quanto tempo il ristoratore (e il personale) dedica a se stesso e alla ricerca sia delle materie prime che alla loro trasformazione. Più “tempo libero” ti ritagli, più sei in forma per preparare grandi piatti, per ricercare, trovare e provare materie prime di altissimo profilo. Magari guadagnerai meno ma guadagnerai meglio e soprattutto farai stare sempre bene chi viene a mangiare da te.


Giovanni Milana, chef e anima di questo locale dove si mangia meglio di bene, sta aperto solo per 7 servizi alla settimana (su 14 possibili pranzi e cene!) e va in ferie due volte all’anno per almeno 15 giorni. Questo può farlo non solo perché forse si può permettere di guadagnare meno ma soprattutto perché così può avere il tempo per provare e presentare una serie di piatti che uniscono materie prime di alto profilo a tradizione, innovazione e grande bravura ai fornelli. Sta aperto solo per 7 servizi ma presenta un menu di quasi 40 piatti (tra quelli presenti nel menù stagionale e le proposte del mese), quindi con possibilità di spaziare avendo però la sicurezza che tutto è fresco e preparato a dovere.



Ma da Sora Maria e Arcangelo non si va “solo” per mangiare benissimo, ma anche per essere coccolati e l’ambiente, con molte salette piccole e accoglienti, è perfetto per evitare i troppi rumori che spesso si “accatastano” nelle grandi sale di ristorante.

Abbuoto di abbacchio alla brace

Ma adesso veniamo al sodo, cioè ai piatti che posso consigliare sia perché li ho gustati di persona sia perché ho potuto “annusarli” dagli altri commensali. Tra gli antipasti Inizio con la picagna di angus ciociaro marinata e affumicata al legno di ciliegio, crudo di carciofi e salsa alla senape e miele dove l’affumicatura importante ma equilibrata porta un giusto contrasto alla dolcezza delle carni e con l’abbuoto di abbacchio alla brace (i pugliesi potrebbero chiamarlo gnumarreddi) con carota bruciata e broccoletti scottati, che si scioglie letteralmente in bocca, per arrivare ai sontuosi fegatelli di maiale, mele annurche e mosto cotto di cesanese, piatto strabiliante per equilibrio e pienezza gustativa.

Mafaldoni al ragout di pecora

Tra i primi vi consigliamo i mafaldoni con ragout di pecora al profumo di coriandolo, con leggera besciamella alla toma di capra e le fettuccine con carciofi alla romana, pancetta di maiale nero, pecorino e mentuccia. Se pensate che i nomi di queste ricette siano lunghi dovreste leggerli per intero perché Giovanni in ogni piatto evidenzia il produttore o l’artigiano che ha fornito la materia prima e inoltre riporta sempre in calce tutti quelli da cui prende materie prime. Permettetemi di dire che il territorio si difende e si sviluppa soprattutto così.

Fegatelli di maiale

Ma se volete sviluppare anche il girovita non perdetevi il profumatissimo ossobuco di vitella al tegame con salsa gremolada e asparagi al burro, nonché la faraona in fricassea o il piccione al tegame farcito al pasticcio di vitellone al tartufo nero, lenticchie al tegame e polenta.

La carta dei vini  è onnicomprensiva  per quando riguarda il territorio del Cesanese  ma ha anche le giuste etichette italiane e un accorto occhio sull’estero, specie sulla Francia e sullo Champagne. Insomma, tutto funziona in questo locale, anche il prezzo perché il menù degustazione con quattro portate costa 55 Euro e se ci abbini quattro calici di vini locali arrivi a 65.

Vale il viaggio, anche a piedi!


Sora Maria e Arcangelo
Via Roma 42 - Olevano Romano (Rm)
Tel. 06 9564043

InvecchiatIGP: Giuseppe Cortese - Barbaresco Rabajà 2005


di Roberto Giuliani

Sono passati vent’anni da quando sono stato la prima volta in cantina da Giuseppe e Pier Carlo, ero già innamorato dei loro vini ma avevo bisogno di capire meglio chi era a farli e di osservare quell’anfiteatro di vigneti dove confluiscono molte tra le migliori aziende produttrici di Barbaresco. Chi l’avrebbe mai detto che un romano (anche se non di famiglia) sarebbe stato conquistato dal popolo langhetto e dalle sue terre! Merito prima di tutto del nebbiolo, vitigno che più di ogni altro riesce a mandarmi in sollucchero, a sciogliermi come un cioccolatino, a farmi fusare come un gatto…


Persino un’annata assai poco celebrata come la 2005, a mio avviso molto classica, certamente non facile – tanto che sul sito della famiglia Cortese è valutata tre stelle su cinque – è riuscita a conquistare il mio cuore. Da subito. E ne ho assaggiate tante, anche di Barolo, Roero e delle altre zone dove il nebbiolo è di casa, come la Valtellina, l’Alto Piemonte e la Valle d’Aosta. Raramente sono rimasto deluso. Annata non per tutti, forse, poco incline a concedere grazia e rotondità, semmai austera, essenziale, ma proprio per questo di un’eleganza che trapela con il passare degli anni.


Il Barbaresco Rabajà 2005 è tutto questo, un vino che mette in evidenza quanto non teme il tempo a dispetto di una valutazione all’epoca non entusiastica.
Sta lì, nel calice da oltre mezz’ora, un colore granato vivo che non cede niente, ogni tanto cerco di afferrarne un velo di fragilità, ma non lo trovo. È maledettamente vivo, assertivo, più passa il tempo e più tira fuori frutto, frutto tosto, non marmellatoso, prugna e ciliegia, addirittura si possono cogliere note di viola e iris, cenni agrumati, potremmo trovarci anche sfumature di tabacco e cuoio, ma vanno davvero cercate, meglio liquirizia, radici, sassi sgretolati.

Vigna Rabajà

In bocca ci ricorda il tannino del nebbiolo, verace e generoso, ma oggi perfettamente in sintonia con la materia, mentre l’acidità ci ricorda che di strada da fare ne ha ancora tanta, intanto si fa balsamico, di erbe aromatiche e spezie finissime, e siamo già al terzo sorso…

San Marzano - Salento IGP Susumaniello Susco


di Roberto Giuliani

Siamo nel cuore del Primitivo di Manduria, ma è il poco produttivo Susumaniello che si erge autore in questo vino di Cantine San Marzano. 


Mi ha colpito per gli accenti floreali, per il perfetto controllo del legno americano, per la beva trascinante, ti riempie la bocca di frutto, succoso, esaltante.

Essenza Trattoria Moderna, pesce e carne di qualità a due passi da Roma


di Roberto Giuliani

C’è chi ha la fortuna di aprire la propria attività di ristorazione in punti ideali per avere un’affluenza più o meno regolare, per garantirsi la pagnotta e poter pagare il personale, non solo, magari non ha neanche il problema di dover far capire ai clienti che il cibo di qualità, una tavola ben apparecchiata, una sala curata, un personale all’altezza, hanno dei costi e non puoi pretendere di mangiare un antipasto, un primo e un secondo, magari anche il dolce, più acqua, caffè, amaro con 25 euro.


Purtroppo c’è una notevole differenza se il tuo ristorante si trova in una città come Roma rispetto ai paesi fuori porta, anche dal punto di vista dell’attenzione. Se nasce una nuova realtà nella capitale si fa presto a darne notizia, prima o poi qualche giornalista, qualche critico esperto ci va e la racconta. Diverso è andare a cercare un locale nei tanti paesi che circondano Roma, diversa è la gente che li abita, quasi sempre chi fa qualità non viene compreso, perché alla fine vince sempre il teorema “mangio tanto e spendo poco”, non solo, ma se si fanno piatti che non rispecchiano le abitudini del posto, nessuno avrà la curiosità di provarli. L’ho verificato personalmente un sacco di volte, sono rarissimi coloro che sanno apprezzare la cucina di livello, non parlo di stellati ma semplicemente di ristoranti che hanno qualcosa da raccontare, persino di pizzerie (Amalia Costantini con il suo Mater a Fiano Romano ne è un perfetto esempio). Non mi stupisce, quindi, sentire da più locali che la clientela faticosamente conquistata non è del posto.


Essenza Trattoria Moderna
si trova a Monterotondo, da Roma ci si arriva in meno di mezz’ora facendo la Salaria, o l’autostrada e prendendo la prima uscita per Castelnuovo di Porto. Monterotondo è ormai una piccola città, con i suoi oltre 40mila abitanti, eppure trovare un locale che metta al centro la qualità è tutt'altro che semplice. Anche qui, dove opera Simone Salamone ormai da tre anni, non è stato facile farsi una clientela, e anche in questo caso è quasi tutta “forestiera”, perché? La sua non è una cucina complessa, incomprensibile, ci sono indubbiamente piatti originali, ma dai sapori chiari, equilibrati, senza inutili eccessi, pochi ingredienti ma centrati.


Simone ha fatto esperienza da Aroma con lo chef Giuseppe Di Iorio, una stella Michelin, ha lavorato con Carlo Cracco, Daniel Canzian, in ristoranti a Bruxelles, Formentera e in Svizzera. Oggi ha un suo stile, mette sempre al centro la materia prima, che sia pesce o carne, ha una carta dei vini ragionata e frutto della sua passione, etichette che abbracciano varie regioni d’Italia, piccole realtà dalla Francia e non solo, con un occhio a chi sa lavorare nel rispetto dell’ambiente. 


Fuori Roma è forse l’unico che ha in carta i vini di Patrick Uccelli, alias Tenuta Dornach, di Quintarelli o di Andrea Pilar, oltre ad avere un’ampia selezione di vini naturali, per un totale che ormai supera le 300 etichette, molte delle quali non mette neanche in carta ma riserva a quei clienti che manifestano un chiaro interesse per il buon vino.
Ci sono stato la settimana scorsa e ho intenzione di tornare per approfondire i piatti di carne, avendo scelto la cucina a base di pesce, che ho decisamente apprezzato.


La prima cosa che ho notato era la qualità dei prodotti ittici, non è mia abitudine prendere crudo di pesce, ma quel sashimi di ricciola frollata lamponi abbattuti olio al lemon grass andava provato, un piatto con pochi ingredienti ma ben abbinati, che non hanno coperto il sapore della ricciola ma l’hanno accompagnata restituendo sensazioni molto fresche e salmastre. Come andavano provate le alici marinate, passion fruit e olio aromatizzato, un piatto che quando è in carta difficilmente rinuncio a provare, trovo che le alici marinate siano immortali, l’accostamento con il passion fruit era decisamente riuscito.

Polpo Croccante

Ottimo anche il Polpo croccante, funghi alla piastra e crema di patate, tentacoli veraci e carnosi con la parte esterna croccante, funghi saporiti che con la crema di patate lo accompagnavano perfettamente. La Spigola al forno con verdure di stagione è un piatto semplice che gioca su pochi elementi, ciascuno cotto alla perfezione, il tutto in ottimo equilibrio.

Spigola al forno con verdure

Infine il dolce, che non viene messo in carta poiché cambia molto spesso: il tortino con cuore caldo di cioccolato fondente, vicino il gelato alla vaniglia, un mio punto debole, molti preferiscono il classico Tiramisù (che prima o poi proverò), ma per me il tortino con il cioccolato fondente è pura goduria e il gelato alla vaniglia esalta il contrasto caldo-freddo in un'atmosfera delicatamente dolce.

Tortino

Per me che abito a meno di 20 minuti sarà molto probabile un mio ritorno, anche perché devo provare i piatti a base di carne…

ESSENZA TRATTORIA MODERNA

Via Giuseppe Mazzini, 29 Monterotondo (RM)

Tel. 348-5860818

InvecchiatIGP: Duca di Salaparuta – Duca Enrico 1985


Duca di Salaparuta è una delle aziende più iconiche della Sicilia e, senza dubbio, il Duca Enrico è il vino più rappresentativo di questa realtà che da oltre 200 anni è impegnata nella ricerca dei migliori terroir vitivinicoli capaci di esprimere al meglio l’essenza enologica della propria isola. 


La genesi di questo vino parte da lontano, esattamente dal 1824, anno in cui Giuseppe Alliata, Duca di Salaparuta, comprendendo il potenziale delle uve provenienti dalle sue tenute in contrada Corvo di Casteldaccia, decise di produrre due vini di stile francese, innovativi per l’epoca: Corvo Bianco e il Corvo Rosso. La conduzione famigliare dell’azienda continuò per altre quattro generazioni fino a quando nel 1961 la famiglia Alliata, in difficoltà economiche, decise di vendere l’azienda alla Regione Sicilia ovvero alla SOFIS – Ente Regionale per lo Sviluppo e Promozione Industriale e successivamente alla ESPI (Ente per lo Sviluppo e la Promozione Industriale). Nonostante il cambio di proprietà, l’azienda mantenne un forte legame con la sua storia e con la tradizione vinicola siciliana, grazie anche all’intuizione di introdurre nello staff tecnico uno degli enologi più promettenti dell'epoca: Franco Giacosa.

Franco Giacosa

Conosciuto per il suo lavoro con le cantine piemontesi, Giacosa fin da subito comprese che il Nero d’Avola, fino ad allora usato per tagliare vini dozzinali, aveva un potenziale straordinario, ma che per esprimerlo al meglio necessitava di una vinificazione più sofisticata, tramite uso di barrique, in grado di valorizzare la ricchezza e la complessità del vitigno. Nasce così, nel 1984, il Duca Enrico, Nasce così, nel 1984, il Duca Enrico, il primo Nero d’Avola in purezza imbottigliato in Sicilia che successivamente, con la consulenza di Giacomo Tachis, è divenuto un vero e proprio Cru aziendale visto che tutte le uve provengono dalla Tenuta di Suor Marchesa, nel comune di Butera.

Tenuta Suor Marchesa

Qualche tempo fa, complice una bellissima verticale storica organizzata dalla stessa azienda e presieduta da Barbara Tamburini, attuale consulente enologo, ho potuto degustare la seconda annata prodotta di Duca Enrico, la 1985. Il vino si presenta con un poco invitante color mattone e, almeno inizialmente, si apre su sensazioni odorose di dattero e povere di caffè per poi aprirsi, con l’ossigenazione, verso spunti aromatici di prugna della California, alloro, timo ed echi marini. 


Ti aspetti un sorso “stanco” ed invece la sorpresa è trovarsi alla gustativa di fronte ad un Nero d’Avola di freschezza inaspettata dove l’impatto agrumato del vino, spiccatissimo, sfocia in una persistenza sapida, quasi salmastra, davvero esaltante.
Un vino che, dopo 38 anni, è ancora perfettamente in piedi e ti racconta una Sicilia diversa dai soliti schemi. Barrique per 18 mesi.

Agricola Giacu – Mandrolisai Doc Rosso 2021


Di Andrea Petrini

Giacu è una delle cantine più rappresentative di questa denominazione di origine della Sardegna centrale. 


Questo vino, nato da una parcella di 2 ettari, sa di sale e macchia mediterranea ma, soprattutto, contiene tutte le speranze di una famiglia di vignaioli che amano profondamente il loro territorio.

Bencò, l’Osteria Calabrese che sta conquistando Roma


La Calabria, Regione dalle tradizioni millenarie, negli ultimi tempi sta finalmente ottenendo il giusto riconoscimento come cuore pulsante di una enogastronomia autentica e ricca di sapori, capace di conquistare anche i palati più esigenti. Manifestazione come, ad esempio, Beviamoci Sud Roma hanno sempre di più valorizzato il ruolo crescente del vino calabrese che, grazie soprattutto a vitigni autoctoni come il Gaglioppo, il Greco e il Magliocco, sono tornati a farsi conoscere e apprezzare per la loro unicità e per la capacità di esprimere la storia e il territorio di questa regione. Un altro elemento fondamentale della rinascita delle tradizioni culinarie locali è rappresentato dai giovani cuochi calabresi, molti dei quali hanno studiato e lavorato in prestigiosi ristoranti esteri, che sono tornati nella loro terra per reinterpretare la cucina tradizionale in chiave moderna mescolando ingredienti locali, stagionali e freschi con tecniche innovative al fine di creare piatti che raccontano la Calabria attraverso sapori intensi e sorprendenti.


Di questo è più che consapevole Manuel Bennardo che a Roma, a partire dallo scorso anno, ha rafforzato l’identità calabrese trasformando Bencò da ristorante di fine dining a vera e propria osteria calabrese dotata di circa 40 coperti (a cui si aggiungono i 25 nel dehors esterno e la saletta privata da dieci posti) dove, come sostiene lo stesso Bennardo, le ricette della nonna, quelle più veraci e con le quali è cresciuto, non sono una formula da storytelling ma una realtà culinaria autentica dove ogni vero calabrese ci si riconosce.

Manuel Bennardo

Il menù dell’osteria si basa su di una cucina semplice, immediata, che nasce da una serie di materie prime di eccellenza che sono vere ambasciatrici di un territorio. È lo stesso Manuel a ideare la proposta gastronomica, come lui stesso racconta: “sono un grande appassionato di cucina oltre che di Calabria, mi piace andare alla ricerca delle materie prime migliori e più iconiche, come la nduja di Spilinga, l’olio extra vergine d’oliva, il baccalà, i salumi di suino nero o i formaggi pecorini dei nostri altipiani. Ogni piatto prende spunto dalla cucina di casa, quella di nonna soprattutto che a modo suo è stata la mia diretta consulente. Ogni ricetta è stata messa a punto con la brigata, riadattata in chiave contemporanea, ma senza far perdere ai piatti la loro tipicità e il loro carattere. Perché è proprio il carattere di questa cucina contadina che voglio trasmettere a chi si siede qui da noi”.

Alici scattiate

Un menù di terra e di mare, dove dagli antipasti ai dolci fatti in casa si vive un vero viaggio nei sapori calabresi, dal nord al sud della regione. Non mancano le polpette di melanzane, rivisitate in formato stecco, le bruschette con la sardella crucolese servita con un giro di olio extra vergine d’oliva dei Fratelli Renzo o la nduja di Spilinga calda da spalmare sui crostini di pane. Ci sono le patate della Sila, le immancabili polpette della nonna e le tipiche alici scattiate.

Stroncatura con alici capperi e olive

Arriviamo ai primi e qui il gioco si fa serio. Da provare assolutamente è la stroncatura con alici, capperi e olive, ricetta tradizionale, che arriva dalla zona di Gioia Tauro e che riporta in vita un formato di pasta contadina, fatto alle origini con gli scarti della molitura – crusca, semola, sfarinati di segale e farro, farina di orzo. Da qui si otteneva una pasta più scura rispetto a quella di grano duro e più acida. Oggi si fa con la segale e il grano saraceno, ma il condimento è rimasto lo stesso. Un piatto dal sapore intenso e di gran carattere. Sempre per rimanere legati alla tradizione pura in menu troviamo anche lo spaghettone “alla corte d’assise” tipica ricetta di Gerace, semplicissima e a base di pomodoro, pecorino e peperoncino o lagana e ceci. C’è anche il riso, anche questo ovviamente calabrese e coltivato nella Piana di Sibari.

Il Baccalà

Tra i secondi c’è il baccalà pomodori e olive servito in un piatto di coccio tradizionale, la salsiccia di maialino nero calabrese, la costata di podolica dell’Azienda Bioagricola La Sulla. Da provare anche la versione panino calabrese con salsiccia, caciocavallo silano, fette di patate della Sila, maionese alla nduja e cipolla caramellata o quello con trancio di pesce spada pomodoro insalata e maionese al basilico. Ovviamente ci sono le celebri “patate e pipi” contorno perfetto e iconico, che conquistano il commensale al primo boccone.


Tartufo di Pizzo e Cullurielli tra i dolci in carta che meritano menzione. Il primo gelato e prodotto tipico della pasticceria calabrese nato a Pizzo Calabro, i secondi delle ciambelle fritte a base di patate e farine servite con una crema di nocciola.


Anche la carta dei vini parla calabrese. Bencò è tra i pochi ristoranti di Roma, se non l’unico, ad aver costruito una carta dei vini interamente dedicata alla Calabria con l’obiettivo di far conoscere e valorizzare l’enologia calabrese, che negli ultimi anni sta facendo parlare molto di sé ed è cresciuta in qualità. “Abbiamo voluto una carta dei vini che parlasse calabrese a 100% e rappresentasse tutte le zone di produzione della Calabria, dal Cirò che è quella più conosciuta, alla Costa degli Dei terra di Zibibbo e Magliocco Canino, passando per l’area grecanica con il suo Mantonico o il Greco di Bianco, toccando poi la zona del Savuto e l’area della doc Terra di Cosenza con il Magliocco dolce, il Pecorello” spiega Manuel Bennardo. Una carta dei vini che esplora l’intera regione, la rappresenta e la racconta in modo puntuale, dando la possibilità di bere calabrese e avvicinarsi ai vini di questa terra ancora troppo poco conosciuti. Una carta coraggiosa a Roma, che vuole essere un primo capitolo, un momento di avvicinamento a quei vignaioli che stanno crescendo in produzione e qualità. Vini suddivisi per zona, sempre diversi in base alle stagioni e al menu, in carta anche il vino del mese, una rubrica speciale, che darà occasione di ospitare i produttori e organizzare dei momenti di degustazione dedicati. Inoltre, Manuel Bennardo ha pensato di creare una piccola enoteca, dove tutti i vini in carta saranno anche presenti a scaffale per essere acquistati. “Un’idea in più per far bere sempre di più i vini di Calabria”.

Bencò, Osteria Calabrese - via Fabio Massimo 101 Roma. Tel. 06 3972 8933

Aperto tutti i giorni (eccetto il lunedì) a pranzo e a cena