InvecchiatIGP: Colli di Lapio - Taurasi Vigna Andrea 2007


di Roberto Giuliani

Non vi preoccupate se nella retroetichetta è stampato 2006 e il produttore l’ha sovrascritta a penna con 2007, non era una bottiglia in vendita ma una “donazione” affinché la potessi degustare. Essendo due campioni, uno l’ho conservato in cantina e oggi ho deciso di stapparlo. La fama di Clelia Romano è tale che non mi metterò qui a raccontare la storia dell’azienda nata nel 1994, preferisco immergermi in questo Taurasi di 17 anni, un tempo non lunghissimo ma più che valido per verificare le sue condizioni di salute.


Alla vista non sembra già sulla via del declino, conserva una bella tinta granata con unghia appena velata di arancio; al naso ha indubbiamente un carattere da vino invecchiato, con note di fumo, prugna, legno di cedro, cuoio, ma sono sensazioni che emergono appena versato nel calice. Tempo di prendere un po’ d’aria e già certi slanci terziari vedono sparire la sfumatura ossidativa, restituendo una percezione più sobria e ancora vitale.


Al palato conferma comunque una condizione leggermente in discesa, nei toni di caffè e caramella d’orzo, tabacco da pipa, torba. Vino ancora molto piacevole, con una buona vena acida, ma sicuramente destinato ad essere bevuto ora, non è in grado di reggere ulteriormente.

Fratelli Alessandria - Verduno Pelaverga Speziale 2023


di Roberto Giuliani

Uno spaziale Speziale il Pelaverga dei Fratelli Alessandria di Verduno, un prezioso compagno a tavola in grado di rallegrare l'intera compagnia con i suoi profumi di ciliegia, lampone e pepe. 


Sorso vibrante, che ti riporta le spezie al retrolfatto lasciando una sensazione di assoluto godimento.

L’Amaro Camatti compie 100 anni e noi ce lo beviamo


di Roberto Giuliani

A 99 anni vince il concorso internazionale World Liquers Awars, segno che ancora oggi quella ricetta ideata dal chimico livornese Umberto Briganti, tutt’ora parzialmente segreta, continua a piacere. Tutto ha avuto inizio nel 1924 a Recco, ridente cittadina in provincia di Genova, quando Umberto, con il contributo del fratello Cesare, realizza il liquore dedicato alla moglie, che di cognome faceva Camatti.


La prima fase era la creazione della giusta miscela di ingredienti, selezionando fiori, erbe e radici aromatiche da porre in infusione seguendo una ricetta segreta che viene tramandata da generazioni. Di questa si conoscono solo alcune componenti, come la genziana, il mandorlo, la cinchona officinalis (pianta della china), la menta piperita e l’arancio amaro. Ognuno degli ingredienti viene macerato in base alle caratteristiche botaniche, poi uniti e posti in infusione e il liquido ottenuto viene lasciato decantare in legno o in fusti di acciaio inox.


Dopo il processo di filtrazione, necessario a eliminare le impurità, viene aggiunto uno sciroppo di acqua e zucchero, infine il prodotto viene imbottigliato. La gradazione è contenuta, solo 20% vol. Nel 1935 la ditta guidata da Umberto Briganti viene riconosciuta quale "Fornitore della casa di Sua Altezza Reale il Principe di Piemonte" con la concessione di tenere innalzato sull'insegna dello stabilimento lo Stemma Principesco. Durante la Seconda Guerra Mondiale lo stabilimento di Recco viene requisito dagli Alpini della Monterosa e dai soldati della Wehrmacht, ma appena terminata Umberto Briganti riprende immediatamente l’attività con sempre crescente successo. Muore nel 1964, lasciando il compito di portare avanti l’Amaro Camatti al figlio Cesare.
Nel 1989 il marchio e la ricetta dell’amaro vengono ceduti alla Sangallo Distilleria Cinque Terre di Giovanni Bergamino, che aveva iniziato a lavorare nell’opificio Ballerini di Lavagna, dove si producevano liquori artigianali. Oggi la produzione continua con il figlio Stefano e Marco De Marchi che ne preservano la ricetta segreta. La sede produttiva della Sangallo è a San Colombano Certenoli (GE).

LA PROVA DEL NOVE

Premetto che sono di parte, perché non mi piacciono gli amari che sono troppo morbidi, dolci, per me l’amaro deve essere degno del suo nome e fare davvero da digestivo, più zuccheri contiene e più il suo compito è destinato a fallire. D’altronde ogni ditta deve fare dei compromessi per vendere un prodotto apprezzabile da più gente possibile, la bravura, quindi, è nel dosare le componenti in modo da non far prevalere la nota dolce.


Nel calice vediamo un bel colore ambrato-affumicato, i profumi sono intensi e richiamano subito le note amare di china e genziana, accompagnate da arancia amara, menta, sensazioni tostate, fumo da pipa, noce.
Al palato si fa apprezzare per equilibrio dei sapori, la nota cremosa dello sciroppo non sovraccarica il sorso lasciando percepire gli aromi di radici ed erbe in un contesto piacevole e persistente. Si sente l’ottima qualità della materia, io lo avrei preferito un po’ più aggressivo, amaro, ma non posso negare che ha un certo fascino e si beve davvero con gusto.

InvecchiatIGP: Tasca d’Almerita – Contea di Scaflani DOC “Rosso del Conte 2014”


Nata nel 1830 con l'acquisto della Tenuta Regaleali, Tasca d'Almerita è oggi un'icona dell'enologia siciliana, un'azienda che ha saputo, in tempi non sospetti, “guardare oltre” esprimendo al meglio l'anima di un'isola ricca di cultura e di contrasti. La sua storia è un racconto affascinante, intrecciato con quello del territorio e della famiglia che, per generazioni, ha dedicato la propria vita alla viticoltura. Tutto ha inizio con i fratelli Don Lucio e Don Carmelo Mastrogiovanni Tasca che, in tempi non sospetti, intuiscono il potenziale enologico della Tenuta dotata di caratteristiche uniche e situata sulle colline tra Palermo e Caltanissetta. Questi terreni, ricchi di calcare e argilla, sono infatti l'habitat ideale per i vitigni autoctoni siciliani, come il Nero d'Avola e il Perricone, che diventeranno i protagonisti indiscussi della produzione enologica aziendale dove spicca il blasone del Rosso del Conte, non solo un vino ma un vero e proprio simbolo.


La decisione di creare il questo rosso nasce dalla volontà di valorizzare il territorio e di produrre un vino che esprimesse l'essenza moderna della Sicilia. Negli anni '60, infatti, l'enologia italiana era ancora legata a produzioni di massa e a vini poco caratterizzati. Tasca d'Almerita, invece, aveva una visione diversa: voleva creare vini che raccontassero la loro Sicilia, che fossero un'espressione autentica delle uve e del terroir. Il Conte Giuseppe Tasca, figura carismatica e visionaria, fu il promotore di questo progetto ambizioso tanto da individuare nella vigna San Lucio, a Regaleali, il luogo ideale dove vinificare le prime uve di Nero d’Avola e Perricone destinate a diventare il Rosso del Conte. La prima annata risale al 1970 mentre quella degustata per #invecchiatIGP è la 2014, millesimo che in Sicilia risulta molto migliore rispetto ad altre zone d’Italia.


Stappando il vino, da sommelier, posso dire che il vino era ancora assolutamente perfetto, non c’erano segni di cedimento sia del colore che dell’impatto aromatico ancora giocato su intensi profumi di gelso, prugna, viola, tabacco ed erbe mediterranee. Al sorso mantiene tutte le promesse, il bellissimo equilibrio tra ricchezza di frutto, tannini setosi e vibrante freschezza garantisce una bevibilità pazzesca disegnando un potenziale di invecchiamento degno di un grande vino rosso mondiale. Dalle serie #invecchiatopernullaigp!!!

Henry Fuchs - Crémant d'Alsace AOP Extra Brut


Non c’è bisogno di andare sempre in Champagne per bere delle ottime bollicine francesi, prova ne è questo Crémant prodotto in Alsazia dalla famiglia Fuchs che elabora questo metodo classico (uve bio auxerrois e pinot noir) elegante, saporito, dinamico e dall’ottimo rapporto q\p. 


W le bollicine alternative!!

Il Monastero di Cortona è il lusso che tutti ci meritiamo!


Cortona, affascinante borgo arroccato su una collina che domina la Val di Chiana, è una meta imperdibile per chi desidera immergersi nella storia e nella bellezza della Toscana. Il suo centro storico, un labirinto di vicoli e piazze, è un vero e proprio museo a cielo aperto, ricco di palazzi medievali, chiese romaniche e rinascimentali. Perdendosi in questa bellezza, non è difficile imbattersi nel Monastero di Cortona, risalente al XV secolo, che recentemente la famiglia Poli ha coraggiosamente recuperato e trasformato in un moderno hotel a 5 stelle mantenendo intatto il suo fascino originale. 


In questo luogo incantato, poche settimane fa, mi sono concesso un meritato weekend e, devo ammettere, che varcare la soglia del Monastero di Cortona è stato come fare un viaggio nel tempo. Gli ambienti sono davvero incantevoli e, anche se rinnovati, hanno mantenuto l’antica disposizione della struttura conventuale: soffitti a travi o a volta, imponenti corridoi, loggiati e i magnifici affreschi, alcuni dei quali emersi durante i lavori e riportati alla luce, andando ad arricchire ulteriormente la bellezza del luogo. 


L’hotel attualmente dispone di 36 Camere e Suites, ricavate dalle antiche celle, e per chi desidera concedersi un momento di puro relax, la spa del Monastero di Cortona, situata all’interno di una antica cisterna romana, è il luogo ideale per concedersi, così come ho fatto io, una sauna o un idromassaggio dopo aver percorsi decine di chilometri tra i vigneti di Syrah di Cortona.


Visto che non siamo su una rivista di viaggi ma all’interno delle pagine di Garantito IGP, vorrei sottolineare, cosa non scontata, che il Monastero di Cortona dispone anche di un ottimo ristorante chiamato “Gli Affreschi” dato che in questo ambiente, durante la ristrutturazione, sono stati scoperti sotto l’intonaco affreschi che alcuni esperti dicono riferirsi alla battaglia di Montaperti del 1260 tra Guelfi e Ghibellini. 


La sala, intima e raffinata, conta appena 18 coperti, per seguire al meglio l’ospite. Alla guida della brigata di cucina c’è lo chef Michele Ricci, originario di San Sepolcro, sempre nella provincia di Arezzo. La sua è una passione che nasce in famiglia, poi portata avanti con la scuola alberghiera, con maestri importanti, tra cui Gualtiero Marchesi, Luigi Sartini e Paolo Lopriore, e con esperienze anche in ristoranti stellati.

Chef Michele Ricci

Agli Affreschi porta la sua idea di cucina, ovviamente legata alla stagionalità e al ritmo della natura, fatta di pochi ingredienti nel piatto che vanno a raccontare la tradizione toscana, rivisitata e alleggerita con tecniche moderne con l’obiettivo primario di esaltare la materia prima. Pulizia, freschezza, sincerità: sono queste le parole chiave che descrivono la cucina dello chef Ricci. Aperto tutti i giorni, offre oltre alla Carta due menu degustazione di quattro portate: uno di terra “Sapori Toscani” e uno di pesce “Dal Mare”. Il percorso di pesce, sebbene più insolito per l’entroterra toscano, riscuote il consenso degli ospiti, consolidando piatti come il Calamaro arrosto su crema di piselli e il suo inchiostro.



Ma i cavalli di battaglia dello Chef hanno i sapori delle sue terre, come la pappa al pomodoro servita sia come amuse-bouche che racchiusa all’interno dei plin o i pici (tipica pasta toscana) tirati a mano, o la cacio e pepe su vellutata di zafferano di Cortona e aria di pepe. Ancora sapori regionali nel Patè di fegatini di pollo, albicocche, gel di Vermouth di Cortona e cantuccio salato. Tra i piatti più richiesti, il Controfiletto di manzo con millefoglie di patate e cenere alle erbe, che richiama le vecchie braci; e il Filetto di cervo, spinacino, topinambur e salsa al ginepro. Grande attenzione anche all’elemento vegetale, che oltre ad accompagnare altri ingredienti, in alcuni casi diventa protagonista assoluto: le Verdure dell’orto vengono servite infatti giocando con consistenze e colori. Menzione speciale per i dolci, tra cui spicca il classico tiramisù ma proposto in tre consistenze diverse.


La carta dei vini, recentemente premiata dalla rivista Wine Spectator con Un Calice, è curata dalla Maitre e Sommelier Tiziana Lai. Circa 300 etichette che mettono in luce il meglio di questa parte della Toscana, Cortona, Montalcino, Montepulciano, e poi oltre andando fino al Chianti Classico e Bolgheri. Ben rappresentate anche le altre Regioni di Italia con alcune chicche presenti in carta che faranno felici anche i palati più esigenti.


Verso Pasqua il Monastero di Cortona riaprirà i battenti e il mio consiglio è quello di scappare dalla città e di passare in questa struttura almeno una notte per rigenerarvi nello spirito e….nella pancia. #garantitoigp!

InvecchiatIGP: Cantina Oliena - Cannonau di Sardegna Nepente di Oliena 1998


di Lorenzo Colombo


Il termine Nepente – che nel greco antico ha il significato di “che toglie il dolore- fu coniato da Gabriele D’Annunzio, noto astemio, innamoratosi del profumo che quel vino emanava, durante il suo viaggio in Sardegna nel 1882. Nepente appare però per la prima volta nel 1909, sull’introduzione che D’Annunzio fece per l’edizione italiana del libro “Osteria, guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri”, di Hans Barth. 


Nella sua lunga introduzione, a proposito di un vino che lui unicamente annusò ma del quale i suoi due compagni di viaggio approfittarono copiosamente così scrive: “Non conoscete il Nepente d’Oliena nemmeno per fama? Ahi, lazo!” “Io non lo conosco se non all’odore; e l’odore, indicibile, bastò a inebriarmi”.
Oliena (o Nepente di Oliena) è una delle tre sottozone - le altre due sono Jerzu e Capo Ferrato - nelle quali può essere declinata la Doc Cannonau di Sardegna.
La sottozona Nepente di Oliena è limitata al solo territorio del comune di Oliena e ad una parte di quello di Orgosolo, in provincia di Nuoro.


La Cantina Oliena è stata fondata nel 1950 da un piccolo gruppo di viticoltori con lo scopo di valorizzare il Cannonau. Attualmente la produzione della cantina è suddivisa su nove etichette di vino, tre delle quali riportano in etichetta il nome Nepente: Nepente di Oliena, Nepente di Oliena Classico e Nepente di Oliena Riserva Corrasi.


Il vino degustato è prodotto con uve Cannonau in purezza provenienti da vigneti situati nel comune di Oliena, il principale sistema d’allevamento è ad Alberello e la resa massima per ettaro è di 60 q.li. Dopo un’accurata selezione delle uve viene svolta la fermentazione in vasche d’acciaio con una macerazione sulle bucce di 10-12 giorni, il vino s’affina quindi in vasche di cemento e d’acciaio. I presupposti alla degustazione di questo vino non sono stati molto favorevoli, la bottiglia presentava decisi segni di muffa sulla capsula e il livello del vino era sotto la soglia cilindrica del collo della bottiglia, segno di perdita evidente di liquido.


Tolta la parte superiore della capsula si è avuta la conferma di quanto si prevedeva, ovvero la parte superiore del tappo era per quasi la metà incrostata. Il tappo è però uscito senza sforzo alcuno anche se si presentava completamente intriso di vino e annusandolo dava segni di evidente evoluzione.


Versato però un piccolo quantitativo di vino nel bicchiere non abbiamo riscontrato anomalie particolari, se non un’iniziale chiusura ed un colore decisamente evoluto, tendente al mattonato non molto intenso ed alla prugna cotta, con un’unghia ormai aranciata. Decantato il vino, temendo notevoli residui, che in realtà non ci sono stati, si è notato all’interno della bottiglia ormai vuota il colore depositato nella parte inferiore della stessa (la bottiglia è rimasta per tutti questi anni in posizione orizzontale).

Ma passiamo all’assaggio.

Del colore abbiamo già scritto, per il resto il vino si presentava limpido. Discreta la sua intensità olfattiva, ovviamente i sentori percepiti sono di natura terziaria, sottobosco con foglie umide, radici, prugna in confettura, spezie dolci, fighi secchi, accenni di polvere di caffè. Mediamente strutturato, ancora fresco (buona la sua vena acida) e sapido, sentori di radici, china, chiodi di garofano, prugne secche, leggeri accenni piccanti e note di frutta dolce, lunghissima infine la sua persistenza.

Feliciana - Lugana Doc Riserva “Sercè” 2021


di Lorenzo Colombo

Dodici camere, sette suites, un ristorante con 160 coperti e 12 etichette di vino prodotte. 


Questo è l’Agriturismo Feliciana, azienda situata a Pozzolengo della quale abbiamo apprezzato il Sercè, un Lugana Riserva prodotto con uve leggermente appassite ed affinato parte in acciaio e parte in barrique.


I vitigni autoctoni dell’Italia meno conosciuta


di Lorenzo Colombo

Oltre 200 le aziende presenti alla seconda edizione della Fiera dei Vini svoltasi a Piacenza da sabato 16 a lunedì 18 novembre, evento nell’ambito del quale erano previste anche quattro masterclass dedicate al vino ed una all’olio. Noi ci siamo stati sabato pomeriggio ed abbiamo partecipato a quella dedicata ai vini prodotti da vitigni autoctoni a bacca rossa, degustazione assai interessante durante la quale si sono potuti assaggiare vini prodotti da vitigni rari e spesso difficilmente reperibili.


Sette i vini degustati, eccoli in ordine di servizio con nostri sintetici commenti.

Calosso Gamba di Pernice Doc 2022 – Cascina Comina

Sono tre i comuni del basso astigiano dove sussiste questa minuscola e recente denominazione nata nel 2011: Calosso che le dà il nome, Costigliole d’Asti e Castagnole delle Lanze, il disciplinare di produzione, approvato nel 2011, prevede tre tipologie di vino: Calosso, Calosso Riserva (anche con la menzione di Vigna) e Calosso Passarà (da uve appassite), dove il vitigno Gamba Rossa dev’essere presente per almeno il 90%. Gli ettolitri imbottigliati nel 2020 sono stati 295, ovvero meno di 40.000 bottiglie. L’utilizzo del vitigno, registrato col nome di Gamba Rossa (o Imperatrice della Gamba Rossa), ha un’estensione vitata limitatissima -si parla di 15 ettari suddivisi tra 14 produttori- ed è autorizzato unicamente nella Doc Calosso.


Vinificazione in vasche d’acciaio ed affinamento in botti per 20 mesi. Color rubino di media intensità. Intenso al naso dove cogliamo un sentore di ciliegia selvatica e leggere note floreali, note balsamiche e speziate, cannella, leggeri sentori di legno.
Mediamente strutturato, succoso, sapido, con bella vena acida, sentori piccanti di pepe bianco, lunga la sua persistenza. Un vino curioso, interessante e decisamente particolare. Ci è piaciuto assai.

Sardegna Alghero Cagnulari Doc “Ultimastella” 2022 – Gavino Delogu

Il Cagnulari è un vitigno presente soprattutto in una ristretta area sitata a Nord-Ovest della provincia di Sassari, predilige i terreni calcareo-argillosi, sciolti e ben soleggiati dove è spesso allevato ad alberello sardo o con basse controspalliere.
E’ uno dei vini da monovitigno della Doc Alghero e può inoltre essere utilizzato in una quindicina di vini ad Igt sardi. Nel 2022 se ne contavano 384 ettari, 363 dei quali in provincia di Sassari.


Le uve provengono da un singolo vigneto situato ad Usini esposto a Sud su suoli argillosi. Fermentazione ed affinamento si svolgono in vasche d’acciaio dove il vino sosta per sei mesi. Rubino profondissimo e luminoso il colore. Intenso al naso dove spiccano sentori di frutta rossa matura, nota alcolica importante, accenni di spezie leggermente pungenti. Strutturato, asciutto, piccante (pepe e peperoncino), frutta a bacca scura, trama tannica decisa ma ben fusa nell’insieme, buona la vena acida e lunga la persistenza. Altro vino decisamente interessante.

Toscana Igt Rosso “Le Voliere” 2022 – Tenuta di Forci

L’azienda, situata a Lucca, dispone di quattro ettari di vigne - condotte secondo i dettami della biodinamica - che presto diventeranno sette.


Blend di vitigni classici toscani, ovvero 80% Sangiovese, 10% Canaiolo e 10% Colorino, allevati su suoli ricchi d’argilla ma con presenza di sassi, limo e sabbia.
La pigiatura avviene con i piedi e la fermentazione s’effettua in piccole vasche, l’affinamento del vino si svolge per l’80% della massa in vasche d’acciaio e per la parte rimanente in piccole botti di rovere usate dove sosta per 10 mesi, dopo l’assemblaggio viene imbottigliato senz’alcuna filtrazione. Granato di discreta intensità. Bel naso, fresco, floreale, speziato, buon frutto rosso, balsamico ed elegante. Discretamente strutturato, fresco, asciutto e sapido, bel frutto, bella trama tannica e buona persistenza.

Sannio Dop Sciascinoso “Voscu” 2021 – Fosso degli Angeli

Lo Sciascinoso è un vitigno coltivato soprattutto in Campania ed in parte del Lazio, viene utilizzato nella produzione di cinque Doc campane ed in 13 vini ad Igt delle due sopracitate regioni. La sua superficie vitata s’è drasticamente ridotta negli anni, dal censimento agricolo del 1970 ne risultavano 2.600 ettari che quarant’anni dopo erano diventati unicamente 50.


Il vigneto, messo a dimora nel 2014, è situato a Castelvenere, a 200 metri d’altitudine su suolo argilloso calcareo, l’esposizione è Sud-Est, condotto a Guyot con densità di 3.500 ceppi/ha dà una resa di 60 q.li/ha. Sia la fermentazione-con lieviti indigeni- che l’affinamento si svolgono in vasche d’acciaio dove il vino sosta per circa sei mesi ai quali ne seguono altrettanti di riposo in bottiglia.
Sono circa 1.300 le bottiglie prodotte annualmente. Color ciliegia luminoso di media intensità. Discreta la sua intensità olfattiva, pulito, presenta sentori d’erbe aromatiche, timo essiccato, note floreali ed accenni balsamici. Fresco, asciutto, sapido, verticale, di media struttura, con buona trama tannica e bella vena acida, buona la sua persistenza.

Igt Toscana Mammolo “Il Legato” 2020 – Cincinelli Marco

Il Mammolo è un vitigno che non ha mai vissuto una grande diffusione -anche se viene citato sin dal 1622 dal Soderini-, la sua massima superficie vitata (147 ettari) è stata riscontrata nel censimento agricolo del 2000, ma già in quello successivo (2010) gli ettari vitati erano scesi a 52. Viene utilizzato in una decina di vini ad Igt tra Toscana e Umbria praticamente mai in purezza, è inoltre a volte impiegato, in piccole percentuali nella composizione del Vino Nobile di Montepulciano.


Le uve provengono da un vigneto di un ettaro d’estensione con età media di 15 anni, dopo la fermentazione il vino s’affina in botti grandi ed in barrique usate. Color granato poco intenso. Buona l’intensità olfattiva, note balsamiche e accenni floreali.
Fresco, succoso e asciutto, mediamente strutturato, sentori di radici, bella trama tannica e discreta persistenza.

Vallée d’Aoste Dop Cornalin 2018 – La Source

Vitigno raro il Cornalin, diffuso unicamente in Valle d’Aosta -nel Vallese svizzero è conosciuto come Humagne Rouge- dove nel 2010 se ne contavano unicamente 11 ettari. Il vitigno, che pare provenire dalla Borgogna, era molto diffuso in Valle d’Asta prima dell’avvento delle fillossera, alla fine degli anni ’80, l’Institut Agricole Régional di Aosta si è fatto promotore del recupero delle varietà autoctone minori, tra cui anche il Cornalin. Pare che attualmente in Valle gli ettari vitati siano poco meno di un trentina.


Le vigne si trovano a Saint Pierre dove Stefano Celi dispone di 6,5 ettari vitati. Vinificazione e affinamento si svolgono in vasche d’acciaio, segue quindi una sosta in bottiglia di sei mesi prima della commercializzazione. Profondo il colore, unghia violacea. Intenso al naso, balsamico, speziato, frutta a bacca scura, legno dolce, leggere note piccanti. Discretamente strutturato, asciutto, succoso, note piccanti, frutta a bacca scura, erbe aromatiche di montagna. Un vino di notevole qualità. L’azienda di Stefano Celi si trova a Saint Pierre, pochi chilometri dopo Aosta.

Provincia di Verona Igp Oseleta 2016 – Az. Agr. Zymè (non ancora in commercio)

Il vitigno, diffuso esclusivamente in provincia di Verona viene utilizzato in tre vini ad Igt del Veneto oltre ad entrare a far parte di un numero seppur limitato di vini della Valpolicella. Quasi scomparso è stato riscoperto negli anni Settanta del secolo scorso ed è stato ammesso nel Registro Nazionale delle Varietà di Uva nel 2000, se ne contavano, secondo il censimento agricolo del 2010, solamente 15 ettari.


Le uve provengono da vigneti situati nei comuni di Illasi, Lavagno e Parona allevati su suoli calcarei, argillosi e alluvionali. La fermentazione si svolge con lieviti indigeni e l’affinamento del vino viene effettuato in barrique per un periodo di sei/sette anni ai quali segue almeno un altro anno di riposo in bottiglia. Molto bello il colore, profondissimo e luminoso. Molto intenso al naso, alcolico, pulito, balsamico, prugna matura, quasi in confettura. Decisamente intenso e strutturato, con tannino importante che rimanda alla pellicina di castagne, frutta a bacca scura, note piccanti, legno percepibile, lunghissima la persistenza.

InvecchiatIGP: IGT Toscana Monteverro 2008


di Stefano Tesi

Ciò che normalmente, in una qualunque azienda non necessariamente vinicola, si chiamano i tempi eroici, sono quelli degli esordi, pieni di entusiasmo, incognite, errori, aspettative e ingenuità. Ai quali, passato qualche decennio, si guarda di norma con nostalgia e qualche sorriso.
Nel caso del vino, le bottiglie dei tempi eroici svolgono invece una doppia funzione: quella di punto di riferimento per quanto riguarda il mutare degli stili e delle mani intercorsi nel frattempo e di parametro per valutare i progressi fatti nello sviluppo del “progetto” iniziale.


L’assaggio di questo Monteverro 2008, frutto della prima vendemmia della tenuta creata dal nulla nella macchia mediterranea della Maremma a cavallo tra Lazio e Toscana, anno 2005, dal bavarese Georg Weber e l’allora fidanzata Julia, mi pare assolva però anche una terza funzione: quella di restituire fedelmente, nel bicchiere, la natura selvatica dei suoli originari e lo sforzo di adattamento ad essi compiuto dalle viti messe a dimora ex abrupto laddove, per memoria condivisa, allignavano bene solo la macchia e i cinghiali. 
Cabernet sauvignon, Cabernet franc, Merlot e Petit verdot convivono insomma in questa bottiglia, a suo modo storica, e lì si fondono in modo quasi riottoso, come costretti a convivere dal giovane, anzi allora giovanissimo enologo francese Matthieu Taunay che, come le vigne, ha poi messo radici stabili da queste parti.


L’assaggio è affascinante: molto lontano dall’odierno Monteverro – un vino levigato, equilibrato, senza dubbio territoriale ma frutto di una lenta plasmatura e di una lunga messa a punto – questo 2008 vive invece di una toscanità maremmana, esplicita, un po’ ispida e un po’ burbera, e irradia la saggezza grave di certi anziani accigliati.


Così, all’occhio, tradisce un rubino caldo che non ti aspetti del tutto ed anche al naso toscaneggia assai, in bilico tra il maturo e l’evoluto, tra il brusco e il profondo, con accenni ipermaturi, lampi di calore, cuoio grasso, terra bagnata e un filo di resina che ricordano, chissà come, i Sangiovesi canuti e robusti. Tutta roba che si ritrova al palato, con un alcool importante, una struttura solenne, accenni dolciastri e un irresistibile richiamo ai vecchi di casa nostra. 
A me è parsa una bevuta intrigante, fuori passo. E mi è piaciuto moltissimo col sontuoso piccione alla brace laccato alle more fermentate ed aglio nero ammannitoci dalla sempre sorprendente Valeria Piccini di Caino, una che di Maremma se ne intende.

Collemattoni - Brunello di Montalcino Docg 2020


di Stefano Tesi

I buoni Brunello si assaggiano anche senza andare al “Benvenuto”: questo, sentito in anteprima, è di un bel rubino fitto, ha il naso elegante e appena caldo, la nota matura e la bocca gentile e equilibrata del vino pronto.


Ideale sui sedani di pasta all’uovo col ragù di faraona che ci siamo pappati.

Graziano Prà vince la sfida del tappo a vite


di Stefano Tesi

La querelle sul tappo di sughero contro il tappo a vite è probabilmente destinata a non chiudersi mai. Per il vostro e il nostro divertimento visto che, alla fine, è anche o forse soprattutto una questione di scelte, gusti, filosofie personali.
Negli ultimi anni la vita di chi assaggia spesso il vino è stata costellata del resto di ricorrenti degustazioni afferenti all’una o all’altra opzione, con risultati evidenti sotto il profilo della percezione della differenza ma anch’essi fatalmente soggettivi sotto quello della qualità finale.
E’ per questo che ho partecipato volentieri alla presentazione fiorentina dei vini di Graziano Prà, dal 2010 uno dei pasdaran del tappo stelvin (non a caso affianca Franz Haas, Jermann, Pojer e Sandri e Walter Massa nell’ormai celebre gruppo degli “Svitati”), con il quale, oggi, il nostro chiude tutte le bottiglie di sua produzione sia in Soave che in Valpolicella. Con l‘eccezione, ma solo per mere ragioni di disciplinare, dell’Amarone, del Ripasso e del Passito Igt.


L’occasione era però resa ulteriormente ghiotta dal fatto che fosse previsto un assaggio parallelo di due bottiglie dell’annata 2017 del Soave Classico Doc Monte Grande (Garganega 70 % e Trebbiano di Soave), il cru aziendale prodotto a Monteforte d’Alpone: l’una chiusa col sughero e una col tappo a vite. Lo scopo era sì dimostrare le differenze evolutive determinate nel vino dalle diverse chiusure, ma anche la più generale vocazione del Soave all’invecchiamento. 

Graziano Prà

Un invecchiamento che, a giudizio del produttore, il tappo a vite rende più lineare e costante, consentendo anche in verticale l’apprezzamento del prodotto in sé, al netto di influenze potenzialmente volubili. “Lo stelvin supporta la longevità, permette al vino di evolvere correttamente e garantisce una chiusura perfetta”, ha sottolineato Prà. “Abbiamo preso questa decisione dopo tredici anni di osservazioni e degustazioni comparate di vecchie annate e oggi siamo certi che sia la scelta migliore”.

A bicchieri svuotati dobbiamo dire che, come previsto, la diversità è risultata marcata. 

Il campione “sugherato” si contraddistingue già all’occhio per un colore dorato più carico e cupo, molto intenso e un po’ tendente al rosso. Al naso, dopo un’iniziale idea di anice, rilascia note di idrocarburi, olio minerale, pietra focaia e una coda appena melata, dolciastra. In bocca è gentile, molto composto, maturo, molto elegante e certamente non deludente.

Differenze

Altra musica col campione “avvitato”: il colore è più giallo e brillante, l’olfatto è più acuto e vivo, quasi giovanile e vibrante, con la pietra focaia che emerge netta sul resto tutto con piacevoli punte di freschezza. Anche in bocca il vino è giovanile, molto gradevole, con un retrogusto cangiante e un intrigante finale amarognolo.
Difficile, tuttavia, esprimere una preferenza tra i due. Si tratta di “bevute diverse”, come si diceva tra commensali. Il tappo in sughero restituisce il Soave 2017 che ti aspetti, piuttosto evoluto ma non certo decrepito, in qualche misura rassicurante. Il tappo stelvin ti dà un Soave che, considerando il millesimo, trovi molto diverso dalle aspettative, coinvolgente, in piena forma e quasi esuberante.

Resta poi da dire degli altri vini (tutti, con le eccezioni dette, “svitati”). Assai godibile il Morandina Valpolicella doc 2023, un vino di Corvina, Corvinone, Rondinella e Oseleta coltivate a quasi 500 metri di altitudine: affinato in botti grandi, ha un bel naso fruttato, asciutto, vinoso, scalpitante ma senza esagerare, con un palato molto sapido e una sensazione dissetante.


Più a metà del proprio cammino, a nostro parere, il Morandina Valpolicella superiore doc 2020, un vino dal naso profondo, compatto, intenso, con un frutto screziati e potenti che in bocca si traducono in tannini ancora importanti e una vena acida che richiedono più tempo per essere ammansiti.


Decisamente bene l’Amarone docg 2017 la Morandina, che non rinuncia alla propria identità tipologica ma evita le facili e purtroppo ricorrenti caricature con un bouquet tipico di frutti maturi e un palato solenne, pulito, perfino beverino nella sua importanza.


La sorpresa della giornata è però stato il Passito Bianco delle Fontane 2021 Veneto Igt: una bevuta piacevolissima, leggera, ricca, senza alcuna stucchevolezza, assai fine e screziato all’olfatto, assolutamente godibile in bocca, quasi un vino da fuori pasto.


Nota di merito finale al ristorante Konnubio, che ha ospitato la degustazione: molto riuscita la mezzamanica con crema di zucca, cinta senese e nocciole tostate abbinata al Soave e assai azzeccato anche il matrimonio tra l’Amarone e il saporito peposo di manzo con cime di rapa ripassate. Bravi.

Brunello di Montalcino 2020: vizi e virtù della nuova annata del re dei vini toscani. Bonus: la mia Top 10


È terminata da qualche giorno la 33ª edizione di Benvenuto Brunello, l’anteprima dedicata al principe dei rossi toscani del Consorzio del vino Brunello di Montalcino che da giovedì 14 a lunedì 18 novembre ha presentato in anteprima a giornalisti, buyer, operatori e wine lover il Brunello 2020, la Riserva 2019, il Rosso di Montalcino 2023 e gli altri due vini della denominazione, il Moscadello e il Sant’Antimo.


Come ogni anno, appena varcata la soglia del Chiostro di Sant’Agostino, che da qualche anno ospita la manifestazione, le prime domande che noi “addetti ai lavori” ci facciamo sono sempre le solite:” Come è stata l’annata 2020 a Montalcino? Come saranno i Brunello di questo millesimo?”


Stando a quanto riportato dal Consorzio, la 2020 è stata una vendemmia a 5 stelle, una valutazione di merito, anticipata, basata su parametri meteoclimatici, di consistenza e sanità delle uve che per l’ultima volta sarà usata per stabilire la qualità dell’annata. Infatti, e questa è la grande novità, quest’anno è entrato in vigore il progetto “Brunello Forma” che tenderà a valutare l’annata non secondo canoni quantitativi (le stelle) e autoreferenziali ma qualitativi e stilistici che derivano dalla forte interazione tra vitigno, cambiamento climatico e vino, considerando anche la grande eterogeneità del territorio in termini di esposizione, altitudine e suoli. Uno studio complesso che ha visto all’opera membri del Consorzio, un team di esperti climatologi e professionisti dell’high tech farming della società Copernico e un panel di degustazione internazionale, composto da 8 Master of Wine, tra cui spiccano i nostri Gabriele Gorelli ed Andrea Lonardi. Il responso, secondo questi esperti, è stato unanime: la 2020 è stato un millesimo accattivante, brillante, succulento, che ha prodotti vini versatili e vocati all’invecchiamento.


Andando a spulciare i dati meteo di Montalcino del 2020 si possono fare considerazioni ulteriori e più approfondite sulla qualità di questa annata e su come questa si rifletta poi nel calice. La stagione, esaminando i vari report del è stata calda, a tratti molto calda tra fine luglio e metà agosto (siamo arrivati quasi a 40° di giorno), intervallata solo raramente dalle piogge che sono scese, fortunatamente, copiose tra inizi giugno e fine settembre limitando lo stress idrico delle piante soprattutto durante il periodo della vendemmia creando, a mio giudizio, un divario importante a livello organolettico nel vino tra chi ha vendemmiato prima e chi dopo la pioggia di settembre.


Con le dovute eccezioni, che non sono poi così rare, generalmente posso anticipare che profilo del Brunello di Montalcino 2020 presenta i tratti di un vino che difficilmente tende a contenere la presenza di alcol che, in alcuni casi, specie se le uve provengono dalla zona sud, arriva a raggiungere se non oltrepassare i 15°. Se questo è vero bisogna anche sottolineare che solo pochissimi campioni da me degustati avevano un eccesso calorico fastidioso grazie ad una dotazione acida importante soprattutto per i Brunello provenienti dalla zona nord della denominazione. Infatti, e in questo caso sono assolutamente d’accordo con quanto riporta il progetto “Brunello Forma”, le note di degustazione riflettono una evidente diversità stilistica quasi sicuramente derivante dalla posizione del vigneto e dall’epoca di vendemmia che, come ho detto, risulta influenzata dalle piogge di settembre che, per chi ha raccolto dopo, hanno creato le condizioni per un miglior equilibrio in pianta. Tutto questo nel bicchiere si riflette attraverso una dicotomia tra vini misurati, floreali, dalle tonalità cromatiche scariche mentre altri, probabilmente provenienti da zone più calde, hanno profili organolettici più rotondi, voluminosi e dotati di ampia carica fruttata e graffio tannico.


A prescindere da tutte le diverse sfaccettature, la degustazione di oltre 150 campioni suddivisi tra Brunello di Montalcino “di entrata” e “selezione”, ha messo in evidenza una qualità media che anno dopo anno si fa sempre più importante per un Brunello di Montalcino che, sintetizzando, in questa annata regala al degustatore una piacevolezza immediata e di facile lettura pur mantenendo doti di complessità, profondità e territorialità che solo pochi vini al mondo possono vantare.

Di seguito, come sempre, inserisco la mia TOP 10 indicando i vini che mi hanno emozionato di più.

Castello Tricerchi – Brunello di Montalcino 2020: impronta aromatica seducente di frutta croccante, fiori essiccati e spezie orientali. Sorso inizialmente ostico poi si distende e di dota di piacevolezza e raffinata sapidità.

Col D’Orcia – Brunello di Montalcino 2020: da sempre in linea con lo stile del produttore, questo vino ha classe ed eleganza innata, non può non piacere e non può che raccontare le colline di Montalcino anche se la sua evidente dote di austerità mi ricorda che avrà tempo per svilupparsi in tutte le sue sfaccettature.

Le Chiuse – Brunello di Montalcino 2020: se la prima bottiglia bevuta non mi aveva convinto, la seconda mi ha decisamente entusiasmato grazie ad un preludio speziato, balsamico che svela solo dopo toni di frutta fresca e ginepro. La bocca è fresca e dinamica sugellata da un finale lunghissimo.

Poggio alle Forche – Brunello di Montalcino “Scarnacuoia 288” 2020: questa è stata un po’ la mia scoperta perché Giuliana e Lorenzo Turchi sono entrati a Benvenuto Brunello in punta di piedi perché ancora poco conosciuti tra gli operatori vist che per 40 anni hanno lavorato per una grande azienda locale. Solo pochi anni fa hanno deciso di riprendere in mano la terra e la storia di famiglia e iniziare a dar vita al loro Brunello di Montalcino sia “base” che “selezione” prodotto in maniera artigianale in pochissime unità. Scarnacuoia 288 è un Brunello di Montalcino da vecchie viti orientate ad ovest di stampo tradizionale, sa di viola mammola, frutta, spezie ed è dotato di una bocca ricca e graffiante. Prodotto in meno di 900 unità. Perdonate la lunghezza di questo box ma ci tenevo a raccontare questa azienda in maniera più decisa.

Salvioni La Cerbaiola - Brunello di Montalcino 2020: ci sono sempre durante le Anteprime i vini che mettono tutti d’accordo perché sono dei veri e propri totem in grado di evocare sensazioni uniche in grado di far pace una volta per tutte col Sangiovese Grosso di Montalcino. La struttura solida e complessa, la sua profondità e quel pizzico di arroganza tannica lo fanno destinare a lunga, lunghissima vita. Morirò prima io!

Sanlorenzo – Brunello di Montalcino 2020: l’altro vino che ha messo tutti d’accordo durante Benvenuto Brunello è stato quello di Luciano Ciolfi nelle cui mani il sangiovese del versante sud-ovest di Montalcino diventa pura opera d’arte liquida dove struttura e soffio alcolico sono gestiti in maniera egregia riservando al vino una raffinatezza di rara fattura.

Tenuta Buon Tempo – Brunello di Montalcino 2020: altra azienda poco blasonata ma che da tempo, grazie anche ad Attilio Pagli, tira fuori prodotti notevoli così come questo Brunello che pure provenendo dall’estremo sud dell’areale di produzione ha una armonia, una rotondità e un “succo” davvero magistrale. Non era facile ma loro ci sono riusciti. Bravi!

Tiezzi - Brunello di Montalcino “Vigna Soccorso” 2020: i grandi saggi di Montalcino come lo è il buon Enzo Tiezzi possono sbandare quando la stagione richiede impegno ma, alla fine, tirano fuori sempre il coniglio dal cilindro. Prova ne è questo Vigna Soccorso, preferito al fin troppo giovane Poggio Cerrino, che si caratterizza per precisione e sostanza dotandosi all’assaggio di una “silhouette” di pregiata fattura e già perfettamente godibile.

Val di Suga – Brunello di Montalcino “Poggio al Granchio” 2020: la vigna Poggio al Granchio è situata in zona sud e gode di un clima continentale, abbastanza caldo, mitigato da una elevata escursione termica grazie alla vicinanza del Monte Amiata. Il risultato è un Brunello di Montalcino avvolgente, sinuoso, carnoso, morbido ma al tempo stesso elegante al gusto grazie ad una pregevolissima trama tannica ben integrata nella struttura del vino.

Le Ragnaie - Brunello di Montalcino “Passo del Lume Spento” 2020: Riccardo Campinoti vede sempre oltre e non è un caso se ha piantato da tempo un bellissimo vigneto di sangiovese sul Passo del Lume Spento, ad oltre 600 metri s.l.m., il punto di più alto, ad oggi, dove si produce Brunello di Montalcino. Non sarà un caso, perciò, che questo vino ha una freschezza fuori dal comune, colpisce soprattutto la luminosità del suo scenario aromatico tutto giocato su piccole bacche rosse, fiori appassiti, muschio e felce. Brioso e dinamico il suo iter al palato, ricco di sapidità e con un finale che si allunga prepotente con una nitida scia minerale.

Casali del Barone - Barbaresco 2015


di Luciano Pignataro

Era ora di dare un senso al viaggio di questa bottiglia: la stappiamo su una grigliata di maiale allevato alla vecchia maniera e ci regala le dovute soddisfazioni grazie ad una buona e risolta trama tannica e ad una vivace freschezza. 


Il naso di frutta rossa e conferma l'eleganza assoluta del nebbiolo quando si fa Barbaresco. Lungo, con una chiusura pulita che lascia il palato in attesa del nuovo sorso.

InvecchiatIGP: Cantine Astroni - Piedirosso Campi Flegrei DOC "Tenuta Camaldoli" Riserva 2011


di Luciano Pignataro

L’unità di misura del fascino del vino è il tempo. C’è poco da fare, per gli appassionati e per gli esperti non c’è niente di più bello che viaggiare attraverso le verticali, oppure stappare qualche bottiglia vecchia conservata per l’occasione speciale o trovata per caso in un cassetto, in cantina, dietro un armadio. Come un vecchio libro di cui ti eri dimenticato. Sul rosso il valore del tempo è abbastanza acquisito, sul bianco inizia ad essere un valore anche fra gli addetti ai lavori italiani. Il tempo è importante perché è veramente la linea di confine fra l’industriale e l’artigianale: nel primo caso si punta in ogni modo ad accelerare la produzione, nel secondo si da all’oggetto la possibilità di prendersi cura di se senza ansia di ritmi produttivi esasperati.

Credit: L'Arcante

Ma cosa succede quando per una vita hai pensato che un vino da particolare vitigno non avesse bisogno di troppi anni per essere al massimo, al nadir della sua linea evolutiva e vieni poi contraddetto da una bottiglia tirata fuori da una cassettina di legno che avevi lasciato in un angolo? Succede l’ennesimo miracolo del vino, rimanere spiazzati e imparare nuove cose, perché poi è questo il fascino vero, il socratico sapere di non sapere. La persona colta usa condizionali e congiuntivi, l’ignorante l’imperativo e punti esclamativi.


Insomma, questo Piedirosso Tenuta Camaldoli 2011 come è stato? Per i giochi misteriosi della cabala, lo avevamo provato giusto dieci anni fa con molta curiosità perché si tratta della prima annata di questa etichetta. L’idea di Gerardo Vernazzaro è stata di riprendere ciò che di positivo c’era nella vinificazione del passato coniugandolo alle conoscenze moderne: un Piedirosso importante, con vigne affacciate su Agnano, le Isole e la città di Napoli, dentro la città, su suolo tufaceo di proprietà di Cantina Astroni. 
Così scrivevo nel 2014: “Vinificato in tino di ciliegio e affinato in legno di castagno usato in passato per la Falanghina Strione, poco più di mille bottiglie, il primo Tenuta Camaldoli ha il giusto bilanciamento tra l’esigenza di preservare i profumi e quella di avere un pizzico di struttura in più per una migliore stabilizzazione nel tempo. In queste prime battute il vino sembra aver centrato l’obiettivo, ma sarà il tempo a dirci se proprio questa è la strada da seguire”.


Bene, non immaginavo di aspettare tanto tempo, ma la prova è arrivata per caso in una notte cilentana davanti ad un buon fusillo al ragù di castrato. La prima notizia è che il vino ha retto benissimo, a cominciare dal tappo perfetto, ma già in passato avevamo fatto alcune verticali che si aveva dimostrato che il Piedirosso resiste al tempo se ben conservato anche se non può essere paragonato all’Aglianico per il quale dieci anni sono il tempo normale di attesa per lo stappo equilibrato.

Gerardo Vernazzano

Il vino ha conservato sentori di frutta fresca, ciliegia soprattutto, in una cornice fumé leggermente accentuata rispetto ai Piedirosso della zona più giovani. Non avendo problemi di tannini come l’Aglianico, la beva è stata piacevole, equilibrata con un allungo finale amarognolo molto gradevole ed efficace nel ripulire il palato. Ottima la freschezza che ha regalato al bicchiere una buona tonicità. Il messaggio che possiamo lasciare nella bottiglia svuotata è che se lo dimenticate potete goderlo lo stesso acquisendo un pizzico di complessità in più. Pensato per durare quattro, cinque anni, a tredici anni dalla vendemmia si è presentato compatto ed energico.