di Stefano Tesi
La querelle sul tappo di sughero contro il tappo a vite è probabilmente destinata a non chiudersi mai. Per il vostro e il nostro divertimento visto che, alla fine, è anche o forse soprattutto una questione di scelte, gusti, filosofie personali.
Negli ultimi anni la vita di chi assaggia spesso il vino è stata costellata del resto di ricorrenti degustazioni afferenti all’una o all’altra opzione, con risultati evidenti sotto il profilo della percezione della differenza ma anch’essi fatalmente soggettivi sotto quello della qualità finale.
E’ per questo che ho partecipato volentieri alla presentazione fiorentina dei vini di Graziano Prà, dal 2010 uno dei pasdaran del tappo stelvin (non a caso affianca Franz Haas, Jermann, Pojer e Sandri e Walter Massa nell’ormai celebre gruppo degli “Svitati”), con il quale, oggi, il nostro chiude tutte le bottiglie di sua produzione sia in Soave che in Valpolicella. Con l‘eccezione, ma solo per mere ragioni di disciplinare, dell’Amarone, del Ripasso e del Passito Igt.
L’occasione era però resa ulteriormente ghiotta dal fatto che fosse previsto un assaggio parallelo di due bottiglie dell’annata 2017 del Soave Classico Doc Monte Grande (Garganega 70 % e Trebbiano di Soave), il cru aziendale prodotto a Monteforte d’Alpone: l’una chiusa col sughero e una col tappo a vite. Lo scopo era sì dimostrare le differenze evolutive determinate nel vino dalle diverse chiusure, ma anche la più generale vocazione del Soave all’invecchiamento.
Graziano Prà |
Un invecchiamento che, a giudizio del produttore, il tappo a vite rende più lineare e costante, consentendo anche in verticale l’apprezzamento del prodotto in sé, al netto di influenze potenzialmente volubili. “Lo stelvin supporta la longevità, permette al vino di evolvere correttamente e garantisce una chiusura perfetta”, ha sottolineato Prà. “Abbiamo preso questa decisione dopo tredici anni di osservazioni e degustazioni comparate di vecchie annate e oggi siamo certi che sia la scelta migliore”.
A bicchieri svuotati dobbiamo dire che, come previsto, la diversità è risultata marcata.
Il campione “sugherato” si contraddistingue già all’occhio per un colore dorato più carico e cupo, molto intenso e un po’ tendente al rosso. Al naso, dopo un’iniziale idea di anice, rilascia note di idrocarburi, olio minerale, pietra focaia e una coda appena melata, dolciastra. In bocca è gentile, molto composto, maturo, molto elegante e certamente non deludente.
Altra musica col campione “avvitato”: il colore è più giallo e brillante, l’olfatto è più acuto e vivo, quasi giovanile e vibrante, con la pietra focaia che emerge netta sul resto tutto con piacevoli punte di freschezza. Anche in bocca il vino è giovanile, molto gradevole, con un retrogusto cangiante e un intrigante finale amarognolo.
Difficile, tuttavia, esprimere una preferenza tra i due. Si tratta di “bevute diverse”, come si diceva tra commensali. Il tappo in sughero restituisce il Soave 2017 che ti aspetti, piuttosto evoluto ma non certo decrepito, in qualche misura rassicurante. Il tappo stelvin ti dà un Soave che, considerando il millesimo, trovi molto diverso dalle aspettative, coinvolgente, in piena forma e quasi esuberante.
Resta poi da dire degli altri vini (tutti, con le eccezioni dette, “svitati”). Assai godibile il Morandina Valpolicella doc 2023, un vino di Corvina, Corvinone, Rondinella e Oseleta coltivate a quasi 500 metri di altitudine: affinato in botti grandi, ha un bel naso fruttato, asciutto, vinoso, scalpitante ma senza esagerare, con un palato molto sapido e una sensazione dissetante.
Più a metà del proprio cammino, a nostro parere, il Morandina Valpolicella superiore doc 2020, un vino dal naso profondo, compatto, intenso, con un frutto screziati e potenti che in bocca si traducono in tannini ancora importanti e una vena acida che richiedono più tempo per essere ammansiti.
Decisamente bene l’Amarone docg 2017 la Morandina, che non rinuncia alla propria identità tipologica ma evita le facili e purtroppo ricorrenti caricature con un bouquet tipico di frutti maturi e un palato solenne, pulito, perfino beverino nella sua importanza.
La sorpresa della giornata è però stato il Passito Bianco delle Fontane 2021 Veneto Igt: una bevuta piacevolissima, leggera, ricca, senza alcuna stucchevolezza, assai fine e screziato all’olfatto, assolutamente godibile in bocca, quasi un vino da fuori pasto.
Nota di merito finale al ristorante Konnubio, che ha ospitato la degustazione: molto riuscita la mezzamanica con crema di zucca, cinta senese e nocciole tostate abbinata al Soave e assai azzeccato anche il matrimonio tra l’Amarone e il saporito peposo di manzo con cime di rapa ripassate. Bravi.
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