di Stefano Tesi
Ciò che normalmente, in una qualunque azienda non necessariamente vinicola, si chiamano i tempi eroici, sono quelli degli esordi, pieni di entusiasmo, incognite, errori, aspettative e ingenuità. Ai quali, passato qualche decennio, si guarda di norma con nostalgia e qualche sorriso.
Nel caso del vino, le bottiglie dei tempi eroici svolgono invece una doppia funzione: quella di punto di riferimento per quanto riguarda il mutare degli stili e delle mani intercorsi nel frattempo e di parametro per valutare i progressi fatti nello sviluppo del “progetto” iniziale.
L’assaggio di questo Monteverro 2008, frutto della prima vendemmia della tenuta creata dal nulla nella macchia mediterranea della Maremma a cavallo tra Lazio e Toscana, anno 2005, dal bavarese Georg Weber e l’allora fidanzata Julia, mi pare assolva però anche una terza funzione: quella di restituire fedelmente, nel bicchiere, la natura selvatica dei suoli originari e lo sforzo di adattamento ad essi compiuto dalle viti messe a dimora ex abrupto laddove, per memoria condivisa, allignavano bene solo la macchia e i cinghiali. Cabernet sauvignon, Cabernet franc, Merlot e Petit verdot convivono insomma in questa bottiglia, a suo modo storica, e lì si fondono in modo quasi riottoso, come costretti a convivere dal giovane, anzi allora giovanissimo enologo francese Matthieu Taunay che, come le vigne, ha poi messo radici stabili da queste parti.
L’assaggio è affascinante: molto lontano dall’odierno Monteverro – un vino levigato, equilibrato, senza dubbio territoriale ma frutto di una lenta plasmatura e di una lunga messa a punto – questo 2008 vive invece di una toscanità maremmana, esplicita, un po’ ispida e un po’ burbera, e irradia la saggezza grave di certi anziani accigliati.
Così, all’occhio, tradisce un rubino caldo che non ti aspetti del tutto ed anche al naso toscaneggia assai, in bilico tra il maturo e l’evoluto, tra il brusco e il profondo, con accenni ipermaturi, lampi di calore, cuoio grasso, terra bagnata e un filo di resina che ricordano, chissà come, i Sangiovesi canuti e robusti. Tutta roba che si ritrova al palato, con un alcool importante, una struttura solenne, accenni dolciastri e un irresistibile richiamo ai vecchi di casa nostra. A me è parsa una bevuta intrigante, fuori passo. E mi è piaciuto moltissimo col sontuoso piccione alla brace laccato alle more fermentate ed aglio nero ammannitoci dalla sempre sorprendente Valeria Piccini di Caino, una che di Maremma se ne intende.
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