di Carlo Macchi
Raboso. Una bella fetta di
enonauti avrà nominato questo vitigno forse 3-4 volte nella sua vita, ad altri
sentendo il nome verrà magari in mente una forma particolare di allevamento
come la bellussera. Altri l’avranno assaggiato e porteranno il ricordo di un
vino di grande acidità e potenza tannica, che ha bisogno di qualche anno per
esprimersi al meglio. In effetti il Raboso (pare che il
nome derivi da “rabbioso”) anche nella zona del Piave è considerato duro e
aspro, ma Giorgio Cecchetto non si è mai fatto impaurire dalla sua fama. Così
negli anni ’90 ne metteva una parte ad appassire per conferirgli un po’ di
rotondità e creandone varie versioni, anche affinandolo in legni particolari
come acacia, gelso, ciliegio e castagno.
Ma sempre di Raboso si tratta ed
è molto difficile imbrigliare la corsa di un purosangue. Meglio allora proporlo
in varie declinazioni: con una parte di appassimento per il vino forse più
famoso dell’azienda, il Gelsaia, oppure “nature” per il Raboso Piave DOC , con
150 grammi di zucchero residuo per il Raboso Passito e, scusate se è poco,
nella versione spumante metodo classico rosé : qui nasce il Rosa Bruna.
“Ora caro Giorgio, ho capito, anche girando per la tua cantina piena di
strane barriques che sei un sognatore, uno sperimentatore, ma proporre un
metodo classico da raboso in purezza mi sembra veramente un pugno al cielo.”
Questo pensavo guardando la bottiglia e ho continuato
a pensarlo quando ci ha detto “Vi farei
assaggiare il 2010: ce lo hanno rimandato anche indietro dei ristoranti perché
per loro era troppo acido, dicendoci che forse era anche difettato. Adesso è un
po’ freddo: fatelo scaldare un po’ e vedrete che profumi e che grande
freschezza”.
E io l’ho fatto scaldare ma
intanto un piccolo sorso l’ho messo in bocca ed ho capito immediatamente che
quell’austerità, quel nerbo acido che pareva avesse voglia di scardinarmi
qualche dente era non tanto figlio del vitigno ma un combinato/composto tra
temperatura bassa e raboso. Allora l’ho fatto scaldare di più e il puledro
imbizzarrito di prima è diventato un meraviglioso purosangue che non aspettava
altro che essere cavalcato.
Partiamo dal colore, un rosa brillante
che a me piace tantissimo e arriviamo ai profumi: vi garantisco che sono stato
almeno 40 minuti con il naso nel bicchiere e (in un vino del 2010!!!) e ho trovato
ogni tipo di frutta di bosco, la ciliegia matura, la rosa canina, il tutto
affiancato da lievi sensazioni di lieviti.
Un naso intenso e complesso,
giovanissimo, di cui non riuscivo a capacitarmi. Ad un certo punto, verso la
fine della bottiglia mi sono ritrovato a fare confronti con gli aromi del pinot
nero. In bocca però non c’è pinot nero
che tenga: l’acidità è viva, vibrante ma non amara o scomposta. Traccia una
direzione ma è affiancata da una bella ampiezza e la sua profondità è
inaspettata, grazie anche ad una bollicina nitida e ben fusa.
Chi se lo sarebbe aspettato dal raboso.
Il consiglio è provarla, provarla, provarla!
Per la cronaca mi sono bevuto
quasi tutta la bottiglia e una l’ho portata a casa.
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