di Carlo Macchi
La Panda sembra un velocissimo serpentello che scivola tra muretti a secco, vigneti e pezzi di bosco, seguendo sentieri in discesa che fanno sembrare i caruggi liguri delle autostrade. Alla guida un rilassato (lui!) Bruno Pollero di Tenuta Maffone, ci presenta al volo i piccoli vigneti che compongono la proprietà come se fossero familiari a cui dover stringere la mano, pardon, il grappolo. Siamo a Acquetico, frazione di Pieve di Teco, in Alta Valle Arroscia, una delle mete del tour nella Riviera di Ponente, grazie a Vite in Riviera.
Vite in Riviera è un associazione nata tra una trentina di produttori di vino (due solo di olio per la precisione) che sta cercando di togliere la fitta coltre nebbiosa di conoscenza che stagna sul Ponente Ligure enoico, in quel lungo tratto di costa a ridosso dei monti (o di monti a ridosso del mare, fate voi) che parte quasi da Genova e arriva fino all’oramai conosciutissima e apprezzata Dolceacqua.
In effetti dal punto di vista della stampa enoica sembra che tra Genova e Dolceacqua sia crollato un gigantesco ponte Morandi e con esso la voglia di conoscere queste terre, che vedono piccoli e piccolissimi produttori lavorare diversi fazzoletti di terra spesso strappati al bosco. Bisogna anche dire che fino a 5-10 anni fa la situazione non era interessantissima, fossilizzata tra nomi storici e un modo di fare vino che serviva giusto per smerciarlo sulla costa durante l’estate. Poi, come mi ha detto una produttrice “Le cose sono cambiate grazie anche a dei giovani meno legati alle convenzioni e più aperti al confronto e alla conoscenza: hanno investito e oggi tira un’aria nuova.”
Un’aria che, dal punto di vista viticolo punta su pigato e vermentino tra i bianchi e granaccia, rossese e ormeasco tra i rossi. Il nostro tour mi ha visto, assieme a Gianpaolo Giacomelli e Fosca Tortotrelli, impegnato sia sul fronte della degustazione bendata (con quasi cinquanta vini in degustazione) che su quello delle visite in cantina. La degustazione bendata, i suoi risultati e i commenti troveranno spazio sulla nostra guida. In queste righe invece parlerò degli incontri e delle impressioni che ne ho tratto.
Prima però vorrei fare un salto nel passato e ricordare che il grande Luigi Veronelli amava molto i vini di queste terre come (cit.) “la Granaccia di Quiliano, il Pigato di Albenga, il Rossese di Campochiesa, il Vermentino del Savonese e di Imperia.”
Questo breve viaggio si svilupperà quindi tra questi vini (e non solo) per provare a ricongiungere il filo che si è spezzato tra il passato e il presente.
E proprio dalla Granaccia che Lorenzo Turco produce a Quiliano iniziano il viaggio e le mie sensazioni. Lorenzo, nel ristorante annesso alla cantina propone prima la “base” 2018 e poi la selezione Cappuccini.La prima è un’esplosione di frutto e di piacevolezza, con un equilibrio al palato che tiene perfettamente conto della scarna presenza tannica, tipica del vitigno. Qui siamo di fronte a cloni di granaccia (chiamatela pure garnacha o grenache) spagnoli e lo si capisce (ci dicono) dal colore rubino molto tenue. I Cappuccini sono la selezione e, pur apprezzando il vino, lo trovo un po’ ingessato dal pur poco legno usato in affinamento.
Questo dell’uso del legno e della voglia di fare il “grande vino” è uno dei punti deboli che ho riscontrato in diverse cantine (non solo nel Ponente Ligure, in verità!). In effetti sia che si parli di Granaccia che di Pigato o Vermentino quasi sempre le cantine, dalla Cooperativa Viticultori Ingauni, a Ortovero alle piccolissime realtà come la Vecchia Cantina a Albenga e A Maccia a Ranzo, in modo più o meno marcato puntano su un prodotto passato in legno che spesso porta solo a perdere le già lievi note varietali dei vitigni sostituendole con universali sentori più o meno vanigliati. Per fortuna si tratta sempre di poche bottiglie per azienda ma quella che va cambiata è l’idea che scambia il “grosso vino” per un grande vino, cioè che privilegia l’estrazione all’eleganza, all’equilibrio e alla freschezza.
A proposito di equilibrio: a giustificare il viaggio sarebbe bastata la certezza che il pigato non è assolutamente più quel vitigno che produce vini da bersi nell’arco di un’estate, anzi. Il suo equilibrio lo raggiunge come minimo dopo 12 mesi, prova ne sia che tutti i Pigato 2018 degustati erano nettamente meglio dei fratelli 2019.
Purtroppo il mercato richiede il vino giovane ma la strada di far maturare il Pigato “base” o magari una selezione di vigneto per almeno due-tre anni (non in legno!) è quella da intraprendere per far capire le possibilità di questo vitigno.
Vitigno che si presta bene anche alla produzione di metodo classico, anche se la strada della spumantizzazione intrapresa, per esempio, dalla Vecchia Cantina, è sicuramente difficile e tortuosa per chi produce vini fermi. Stranamente si trasforma bene in bollicine metodo classico anche l’Ormeasco, come ho scoperto da Tenuta Maffone. Del resto delle uve che crescono in vigneti tra i 450 e i 650 metri d’altezza, circondate da boschi e dai contrafforti del Colle di Nava, non possono che avere le caratteristiche di acidità e pH adatte. Ma, bollicine a parte, forse la sorpresa maggiore di questo viaggio è l’Ormeasco di Pornassio. In realtà si tratterebbe di Dolcetto ma lo ricorda alla lontana perché ha caratteristiche di finezza, freschezza e complessità completamente diverse. Me ne sono reso conto sia da Tenuta Maffone che da Cascina Nirasca grazie a vini che si declinano con una buona potenza e profondità gustativa attraverso gamme aromatiche più fini e meno intense rispetto al Dolcetto di Langa e dove il legno (quando c’è) riesce a dare il giusto tocco senza eccedere.
Sul Vermentino sospendo il giudizio, anche perché mi sembra un vino “sopportato più che supportato” dai produttori, quello che comunque va prodotto perché c’è da sempre, ma purtroppo oramai quando si parla di Vermentino si pensa ad altre zone e il confronto con Gallura, Colli di Luni e altre zone viene vissuto in negativo.
Al contrario il Pigato è il vino che unisce il territorio, che lo fa marciare assieme e gli conferisce identità; un po’ come il Rossese a Dolceacqua che, oltre ad essere indiscutibilmente il vino top del territorio è riuscito a rendere praticamente invisibili i pur buonissimi Rossese di Albenga e Rossese di Campochiesa (Veronelli docet).
Questi due vini rispetto ai Dolceacqua hanno una leggerezza aromatica solare, una piacevolezza disincantata alla beva, ma quasi non vengano presentati per “vergogna” di avere un prodotto “troppo” semplice e dal colore troppo scarico. Invece dovrebbero essere proprio questi vini rossi da bere freschi, assieme alla Granaccia, il modo per distinguersi: l’Alto Adige con le sue incredibili Schiava dovrebbe insegnare a tutti.
Mentre Gianni, il mentore factotum che ci ha accompagnato a destra e a manca nel nostro bel peregrinare, ci portava verso la stazione di Albenga passando accanto a distese di basilico e di erbe aromatiche, mi è venuto da pensare a un profumo del giorno precedente, che mi aveva lasciato a bocca (e naso) aperta. Era un misto tra la macchia mediterranea scaldata dal sole e l’odore della terra, dei pini e degli abeti di montagna, il tutto ammantato da un silenzio che, avrebbe detto Paolo Conte, descriverti non saprei.
Quel profumo, o meglio quei profumi, che ho ritrovato più nei rossi (eh sì, mi hanno proprio colpito) che nei bianchi della Riviera di Ponente li porto con me e vi consiglio di andare a cercarli in una terra enoica oramai “uscita dalla nebbia”.
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