di Angelo Peretti
Al portone della cantina di Clos Naudin ci sono arrivato che era una caldissima giornata dell’agosto dell’anno scorso. Dire calda, in realtà, e un eufemismo. Lì fuori, di mattina, c’erano 36 gradi. Un forno.
Philippe Foreau |
Philippe Foreau è arrivato col suo furgone. Mi ha chiesto se avessi un maglione. Subito non ho capito. Però vedendo che lui si infilava un cardigan, ho preso dalla macchina un giubbino e l’ho seguito. Entrati, un altro portone, e poi, di là, le gallerie, scavate nella roccia, e il freddo. Ci sono 14 gradi naturali, estate e inverno, là dentro. Naturali, ribadisco. Bastano due portoni di legno a far da isolamento. C’è poi un’umidità enorme (mi pare mia abbia detto che arriva intorno al 95%), perfetta per conservare il vino, terribile per le etichette, invece. Tant’è che lì dentro, in quel caveau, le bottiglie non sono etichettate. L’etichetta ce la mettono al momento, a mano, prima della spedizione.
Credo che il nome di Foreau sia notissimo tra gli appassionati dei grandi bianchi. Lui è uno di quei personaggi che appartengono alla leggenda del vino. Una divinità superiore. Che dalle uve dello chenin blanc e dal terroir di Vouvray, lassù nella Loira, tira fuori dei capolavori. Non è un’esagerazione. Capolavori è la definizione corretta. Certo, poi si finisce magari per dare un punteggio a ciascuna bottiglia, giusto per avere un riferimento, ma non è il rating che conta, è l’appartenenza a un’idea, e l’aspetto identitario, qui, è sempre nell’assoluto.
Lui si schermisce e sostiene che basta rispettare la natura. Del resto, la sua è la terza generazione che fa vino a Clos Naudin e non hanno mai usato la chimica in vigna. “Lavoriamo la terra all’antica”, spiega.
Dopo la vendemmia, gli interventi sono vicini allo zero. Fermentazione in piccola botte, ogni anno se ne cambia un cinque per cento al massimo, qualcheduna ha anche trent’anni, perché le barrique “non devono dare sapore di legno”. Il vino va in bottiglia prima dell’estate, e incomincia l’attesa. Per anni, anche tanti. Bianchi dall’incredibile potenziale d’invecchiamento.
“Il terroir è la colonna vertebrale del vino. Il terroir non è copiabile”, mi ha detto, mentre stappava alcune bottiglie, là sotto, nelle gallerie. Bisognerebbe scriverla grande in ogni cantina, quella doppia definizione.
Ma da scolpire nella pietra è anche l’altra regola di Philippe Foreau: “Il vino deve essere molto digeribile”. Ha ragione, perbacco, ha ragione. Così come è perfettamente nel giusto quando insiste sull’abbinabilità. Perché lui, gastronomo raffinatissimo, il vino lo vede sulla tavola, compagno della cucina. Esattamente.
Giusto per far ingolosire (e magari anche ingelosire), ecco, in breve, quel che ho assaggiato in cantina. Ripetendo che il punteggio è solo indicativo, per dire quali vini riberrei d’un fiato prima degli altri.
Vouvray Brut 2011. Giovanissimo, verde, teso. (88/100)
Vouvray Brut 2005. Miele d’acacia, materia, equilibrio. (90/100)
Vouvray Sec 2014. Agrumi e freschezza, erbe officinali. (89/100)
Vouvray Sec 2015. Très minéral, dice Foreau. Salato. (91/100)
Vouvray Sec 2007. Affumicato, speziato, opulente, classico. (88/100)
Vouvray Demi Sec 2015. Pepe, litchie, sale, agrumi. Energico. (92/100)
Vouvray Moelleux 2002. Tartufo bianco, verbena. Equilibrio. Eleganza. (94/100)
Vouvray Moelleux 2015. La complessità fruttata. “C’est magic!”, esclama. (98/100)
Vouvray Moelleux 2005. Un mercato di spezie. Vibrante d’eterna giovinezza. (92/100)
Vouvray Moelleux 1989. L’eleganza floreale. Créme brulée, lavanda. Frutti. (94/100)
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