Chianti Classico Collection 2024: vi racconto tutto sull'ultima annata in commercio tra aspettative e delusioni


Con un’edizione speciale che inaugura l’anno del centesimo anniversario del Consorzio più antico d’Italia, la Chianti Classico Collection 2024 si è conclusa da poco con numeri davvero significativi: 211 le aziende partecipanti, 773 i vini in degustazione, 2000 gli operatori di settore e 350 i rappresentanti della stampa nazionale ed internazionale accreditati, cui quest’anno si sono aggiunti anche 460 appassionati ai quali la manifestazione ha aperto le porte il 16 febbraio con l’obiettivo di presentare le nuove annate in commercio, ovvero la 2022 e la Riserva e Gran Selezione 2021.


Un Consorzio, quello del Gallo Nero, che con i suoi 100 anni “deve essere un esempio per tutte le altre realtà italiane” come ha commentato il Presidente della Commissione Agricoltura della Camera, Mirco Carloni, ospite della manifestazione. 


Nel 1924, infatti, furono 33 lungimiranti viticoltori a decidere di crearlo: la loro visione fu quella di credere nell’unità di intenti, nella forza della collettività, di investire nell’aggregazione uscendo dalla miopia del singolo interesse privato, perché solo così si poteva gestire una produzione che potesse parlare di un intero territorio. A distanza di un secolo, i soci del Consorzio sono diventati 500, ma gli obiettivi che ci accomunano sono gli stessi del 1924. Proteggere il vino che nasce da un territorio altamente vocato e di rara bellezza e accompagnare i viticoltori nell’affrontare i mercati di tutto il mondo sotto l’insegna comune del Gallo Nero.

Giovanni Manetti

E’ il territorio che fa la differenza - ha dichiarato il Presidente Giovanni Manetti, nel corso del suo saluto alla stampa – ma fondamentale è anche il rapporto fra i fattori naturali e le persone, uomini e donne, che sono riusciti a mettere a frutto il dono offerto loro da madre natura. Questo è quel quid in più, l’intreccio magico fra natura e uomo, che ci permette di produrre vini unici al mondo. Quello che il grande Luigi Veronelli chiamava “l’anima del vino”. L’auspicio – ha concluso Manetti - è che i vini Chianti Classico possano esprimere sempre più territorio ma anche sempre più anima.”


Come sempre, ogni volta che partecipo ad una Anteprima, mi dedico, anche solo per questioni di tempo, a valutare l’ultima annata in commercio ovvero, come in questo caso, la (difficile) 2022. Già, infatti due anni fa, come riporta il Laboratorio di monitoraggio e modellistica ambientale della Regione Toscana*, il 2022 è stato l’anno più caldo con riferimento al periodo 1991-2020 (+ 1,3° sopra la media del periodo) caratterizzato sostanzialmente da un’estate calda e torrida, seconda solo alla 2003, e da una importante scarsità di piogge (-13%) con lunghe fasi siccitose (gennaio-marzo e maggio-luglio), interrotte da brevi parentesi eccezionalmente piovose (settembre, novembre e dicembre) che hanno messo ovviamente a dura prova lo sviluppo regolare dei ritmi vegetativi delle piante e la regolare maturazione, sia tecnologica che fenolica.


In Chianti Classico, pertanto, l'annata 2022 è stata tutto fuorché eccezionale, i vini da me degustati, con le eccezioni che andrò a segnalare successivamente, erano corretti, relativamente monocorde a livello aromatico dove ritroviamo tanta frutta rossa succosa, grado alcolico a volte fuori scala, e poco altro. Anche al gusto sono vini piacevoli ma manca quel guizzo di personalità e di lunghezza che potrebbe renderli altamente godibili. Volendo fare un paragone con le annate precedenti, questi 2022, mediamente, peccano di profondità e, consentitemi il termine, di tridimensionalità che avevo ritrovato spesso e volentieri nella 2019 che, ad oggi, rappresenta l’ultima grande annata in Chianti Classico.
Fortunatamente, non mancano Chianti Classico 2022 di grande godimento ed equilibrio, figli di territori di produzione più freschi grazie ad una altitudine media dei vigneti e\o di una loro esposizione che ha permesso alla vite di “salvarsi” dalle condizioni climatiche estreme dell’annata che, comunque, anche in queste zone, era difficilissima da gestire e i risultati nel bicchiere, purtroppo, lo hanno confermato.


Tra i 57 Chianti Classico 2022 presentati alla stampa, dato che conferma tutte le difficoltà esposte in precedenza, i territori o, meglio, le UGA dove ho trovato picchi di eccellenza sono state sicuramente Radda in Chianti e Lamole. Nel primo caso il Chianti Classico annata di Istine, prodotto dalla bravissima Angela Fronti, è quello che probabilmente mi è piaciuto maggiormente perché al frutto rosso croccante associa al palato leggiadria e sapidità rendendo il sorso scorrevolissimo ma al tempo stesso non rinunciando alla territorialità, Stessa cosa a Radda in Chianti, forse con meno impatto immediato, lo ha prodotto Michele Braganti di Monteraponi che ha presentato un Chianti Classico 2022 di equilibrio sopraffino nonostante una generosità palatale inconsueta figlia di una annata che anche a Radda si è fatta sentire.


Di Lamole, una delle UGA che amo di più, è stata presentato solo un 2022, quello di Castellinuzza e Piuca, che ha confermato come questo territorio, costellato da boschi, piante di iris e vigneti con quote superiore a 500 metri s.l.m., sia tra quelli più performanti quando si tratta di “gestire” il sangiovese durante le annate calde e siccitose. Il Chianti Classico di questa piccola azienda famigliare mi ha stregato per un profilo aromatico arioso di rara eleganza floreale e per un sorso agile e disteso che emoziona con la semplicità e la bellezza delle piccole cose.

Vigneti di Castellinuzza e Piuca

Gaiole, unica UGA del Chianti Classico il cui capoluogo non si trova in cima a un colle o a un crinale bensì al centro di una conca, subito ai piedi dei Monti del Chianti, è per questo motivo una delle zone più fresche dell’intera denominazione e da questo storico territorio arriva il Chianti Classico 2022 di Castello di Ama dalla veemente luminosità gusto-olfattiva pur mantenendo inalterata la sua spina dorsale di spiccata chiantigianità.


Da Gaiole in Chianti arriva anche l’ottimo Chianti Classico “base” di Riecine, forse meno rarefatto del solito, ma comunque elegantissimo, tenace, avvolgente e denso di sapore come si confà ai migliori sangiovese in purezza della denominazione. 


Least but not the last il Chianti Classico 2022 di Cigliano di Sopra, anche questo un sangiovese di razza che, in un territorio non facile con climi estremi come San Casciano, ha saputo mantenere carattere, integrità ed armonia di beva che solo chi conosce perfettamente la sua Terra può preservare ed esaltare nelle evidenti difficoltà. Bravi!

InvecchiatIGP: Scavino - Barolo Bric dël Fiasc 1996


di Roberto Giuliani

Meno di due anni fa, proprio per la nostra rubrica “Invecchiato IGP”, vi raccontai di uno splendido Barolo Rocche dell’Annunziata 1990, ma lo scorso 25 febbraio Enrico Scavino ci ha lasciato all’età di 82 anni per complicanze dovute a un intervento chirurgico. Ho sentito naturale ricordarlo con un altro suo grande vino, questa volta classe ’96; potevo scegliere anche il ’95 o il ’94, ma quest’annata ha sempre avuto molte più frecce al suo arco, nonostante i primi anni fosse estremamente chiusa, austera e poco incline a compiacere i nostri palati.

Enrico Scavino - Credit: baroloeco.it

Enrico, come certamente saprete, è stato uno dei principali esponenti dei “Barolo Boys”, quel drappello di vignaioli langhetti che decisero di rivoluzionare il modo di fare vino e che, tra apprezzamenti e critiche, di fatto hanno permesso al Barolo di conquistare una fama assoluta negli States e in molti altri Paesi esteri. L’azienda Scavino nasce nel 1921 ad opera del nonno Lorenzo e del padre Paolo (da cui ha poi preso il nome), ma Enrico già negli anni ’50 era entrato a farne parte, a soli 10 anni, tanto da poter vantare ben 72 vendemmie.


Oggi sono le figlie Enrica ed Elisa a portare avanti l’azienda, ma il Bric dël Fiasc 1996 è tutto opera del papà Enrico. Ho avuto il piacere di conoscerlo nel 2003, ricordo i suoi occhi, il suo sguardo timido e riservato, era certamente un uomo d’altri tempi ma con una sensibilità spiccata, dalle sue parole trapelava chiaro il suo amore per la vigna e la sua terra.

Credit: iobevotanto.i

Devo dire che tra gli anni ’90 e il successivo decennio, ho assaggiato di frequente i Barolo di Elio Altare (l’ideatore del gruppo), Roberto Voerzio, Elio Grasso, Giorgio Rivetti, Lorenzo Accomasso, Chiara Boschis e gli altri che poco alla volta hanno abbracciato la visione dei Barolo Boys, ma raramente mi sono emozionato; continuavo a sentire una naturale preferenza per i colori scarichi, i legni non invasivi, una tannicità sincera, tratti distintivi del nebbiolo di Langa, mentre non condividevo la scelta di rendere il Barolo un vino più “addomesticato”, più pronto al consumo per palati che non erano in grado di comprendere un vino inizialmente “ostile”.

Credit: iobevotanto.i

C’è da dire, però, che non tutti spingevano allo stesso modo in quella direzione, certo la barrique, certo le rese basse, certo la ricerca di una maggiore concentrazione del colore e dei sapori (con appositi concentratori), ma la mano era diversa da produttore a produttore. Inoltre, l’esperienza acquisita con le prime vendemmie e vinificazioni, ha permesso ai più di trovare un maggiore equilibrio nel tempo, sia nell’uso dei legni che nella concentrazione e struttura dei vini. Così, già dalla metà degli anni ’90, si poteva cominciare a notare una mano più felice e consapevole.


Il Bric dël Fiasc 1996 ha queste caratteristiche, oltre al vantaggio di venire da una vigna prestigiosa che dimora nel comune di Castiglione Falletto (oggi MGA Fiasco), il cui suolo è caratterizzato dalle famose Marne di Sant’Agata Fossili, qui composte in prevalenza da limo e argilla (tipiche). Il lavoro di estrazione del colore fatto in quel periodo ha consentito oggi di avere di fronte una tinta tutt’altro che scarica e stanca, siamo ancora sul granato pieno e di buona profondità, c’è luminosità nel calice, segno che il vino non se la passa affatto male.


E infatti i profumi sono sorprendenti, trovare qualcosa di evoluto è impresa fallimentare, si percepisce ancora uno straordinario frutto, vivo, maturo ma senza alcun cedimento ossidativo; aleggiano menta, cacao e liquirizia, un alito di humus, leggerissimo chiodo di garofano. Ma è all’assaggio che lascia davvero sorpresi: c’è una materia ricca, intensa, con una speziatura finissima e un’eleganza che sa tanto di Castiglione Falletto, grande nerbo e una freschezza esemplare, un vino privo di qualsiasi stanchezza, vivissimo e di grande carattere, arioso e austero allo stesso tempo, lunghissimo e sapido nel finale. Era l’ultima bottiglia a mia disposizione, purtroppo…

Credit: iobevotanto.i

Chiudo contento di avere scelto la bottiglia giusta per onorare Enrico; spero, attraverso il racconto di questo vino, di avere lasciato ad Enrica ed Elisa un bel ricordo del loro caro papà.

Castello Poggiarello - IGT Toscana "Sic et Simpliciter" 2021


di Roberto Giuliani

Sovicille (SI): prima annata 2018. Cabernet Sauvignon e franc, merlot, fermentazione spontanea e maturazione in anfora separatamente per 8 mesi, poi altri 4 mesi insieme, affinamento di almeno 6 mesi in bottiglia. 


Un vino che strappa l’applauso: ribes, ciliegia, mora, grafite e una beva strepitosa.

Le Furie - Faro Doc "Cicarra" 2021


di Roberto Giuliani

Da un po’ di anni, quando si parla di vino siciliano si pensa subito all’Etna, questo fantastico vulcano che con la sua lava ha creato in migliaia di anni un paesaggio unico, dove oggi stanno riscuotendo grande notorietà i vini che vi vengono prodotti. Ma il territorio isolano custodisce altre perle, di cui si dovrebbe parlare di più, come la Doc Faro, una piccola denominazione che coinvolge esclusivamente la provincia di Messina e che ha rischiato di scomparire una ventina d’anni fa. Oggi, fortunatamente, ne conservano la storia un drappello di vignaioli che, con i loro diversi stili, continuano a raccontare il fascino di una terra baciata dal sole e accarezzata dal mare. Quando ho conosciuto Alessandro, ancora non aveva imbottigliato il suo primo Faro Doc, ma me ne aveva parlato, riponeva in esso molte aspettative.


Nel frattempo ho assaggiato tutti gli altri suoi vini e mi sono fatto una chiara idea della qualità di questa piccola realtà frutto dell’impegno suo e di Michele, Claudio e Yankuba, in Contrada Cicarra nel comune di Castanea delle Furie (ME).


La loro filosofia è improntata al massimo rispetto delle materie prime e a un lavoro che favorisca le migliori condizioni per lo sviluppo di un ecosistema che garantisca l’equilibrio e la sanità di questo piccolo territorio. Così, insieme alla vite, dimorano agrumi, ulivi, mandorli, noci, avocadi (e già, ormai si possono fare anche in Sicilia), ciliegi, peri, susini, meli, albicocchi, cipressi, carrubi, pini, pioppi, piante d’alloro ed eucalipto, e come se non bastasse, anche un’arnia e un pollaio. Nel bosco limitrofo, cinghiali, ricci e colombacci vivono la loro vita senza invadere i vigneti. In vigna, è bene ribadirlo, sono banditi erbicidi e prodotti di sintesi, solo rari interventi con rame e zolfo, ma l’obiettivo futuro è di non usare neanche quelli.


Il Faro Cicarra 21, millesimo 2021, è ottenuto da Nerello Mascalese per il 60%, Nerello Cappuccio per il 20% e Nocera per la restante parte. Nelle prossime annate avrà anche una piccola quota di gaglioppo, consentita dal disciplinare, avendo a disposizione circa 200 piante. Pigia-diraspatura, lieviti indigeni, niente solforosa, macerazione in tino aperto in plastica alimentare senza controllo di temperatura; follatura manuale una volta al giorno, tranne sabato e domenica (la scuola agraria è chiusa). 


A fine fermentazione alcolica (8 giorni, zuccheri a zero) pressa soffice e acciaio, senza travasi per 10 mesi circa. A fine malolattica, aggiunta di solforosa. In genere in maggio, passaggio per altri 8/10 mesi in un tonneaux da 500 l. e una barrique, ambedue esausti. Leggera solforosa prima dell’imbottigliamento. Affinamento in bottiglia per 8/10 mesi. Gradazione? 12,5%, senza trucchi, in Sicilia! E poi dicono che non si può per via del mutamento climatico. Ma qui si lavora con l’alberello! E poi c’è il mare, la brezza, l’escursione termica… Il prezzo? Lo stesso di tutti gli altri vini, come dice Alessandro “nessuna differenza per i nostri figli”, ovvero 15 euro al privato.


Roba da non crederci, ve lo dico sinceramente, perché questo Faro mette in riga parecchi vini ben più costosi, ha una trama incantevole, i profumi richiamano il fico rosso appena colto, l’arancia, le erbe aromatiche, toni salmastri, il tutto in un ambito di estrema purezza espressiva. All’assaggio senti subito la freschezza, non c’è potenza ma una materia fine ed equilibrata, il tannino è quasi docile, il frutto croccante, la beva strappa l’applauso, grazie anche a un’alcolicità quasi impercettibile. Un’energia che irradia luce, con estrema grazia, un Faro che illumina rubino, finché ce n’è ancora in bottiglia...

InvecchiatIGP: Pomario – Umbria Bianco IGT “Arale” 2010

 

«I vini buoni sono tantissimi. Noi cerchiamo di dare ai nostri vini personalità, legando la produzione ad un filo conduttore che parla di questo territorio. Amiamo questo posto e vogliamo che i nostri prodotti trasmettano l’amore per questa terra».
Con queste parole, durante una mattinata uggiosa di autunno, ci accoglie Giangiacomo Spalletti Trivelli che, assieme a sua moglie Susanna D’Inzeo, si innamorarono anni fa della struggente bellezza della campagna umbra e di un vecchio casale sito in località Pomario, nel comune di Piegaro, che era pronto a riprendere vita per fornire loro un “Buen Retiro” per scappare dal caos di Roma.


Quel poggio luminoso, elevato a 500 metri s.l.m., ha dato il via anche ad un sogno mai sopito da parte del conte Giangiacomo di riprendere la tradizione familiare legata al vino, risalente a fine Ottocento. Venceslao Spalletti Trivelli, senatore del Regno assieme alla moglie Gabriella Rasponi, nipote di Carolina Bonaparte, decisero di comprare un’azienda in Toscana dove successivamente il figlio Cesare, nonno di Giangiacomo, iniziò la produzione di un Chianti molto rinomato. Chi lo ha bevuto, ancora si ricorda chiaramente e con molto piacere, il Chianti Spalletti, prodotto fino ai primi anni ‘70.

Giangiacomo Spalletti Trivelli e Susanna D’Inzeo

Quel desiderio, ben presto, diventò realtà. Infatti, senza esitazioni, i conti Spalletti Trivelli reimpiantarono i vigneti, ristrutturarono integralmente la tenuta e iniziarono le prime sperimentazioni in cantina, grazie all’aiuto di Federica De Santis, agronoma, e Mery Ferrara, enologa. La prima vinificazione a Pomario, nel 2009, venne fatta nella rimessa degli attrezzi: un tonneau di sangiovese e una barrique di trebbiano e malvasia: i futuri Sariano e Arale. Da questi si capì da subito le potenzialità dei vini di questo territorio, adagiato tra i colli Orvietani e il Lago Trasimeno, dove oggi, più salda che mai, troviamo l'Azienda Agricola Pomario con i suoi 230 ettari complessivi all’interno dei quali troviamo circa 9 ettari di vigneti condotti secondo i principi dell’agricoltura biologico-biodinamica al fine di mantenere inalterati gli equilibri naturali.

La verticale

L’Arale, come scritto in precedenza, è il primo bianco prodotto dall’azienda, un blend di trebbiano e malvasia che deriva il suo nome dal monte che sovrasta la vigna storica, di almeno 50 anni di età. Durante la mia ultima visita in cantina, grazie alla generosità della proprietà, ho potuto degustare una verticale storica di Arale che dall’annata 2019, ci ha portato indietro nel tempo fino alla 2010, annata che oggi vi descriverò per InvecchiatIGP vista la sua bontà.


Da un punto di vista squisitamente tecnico, il vino non ha mai subito grosse variazioni in termini di vinificazione ed affinamento. Le uve, infatti, vengono subito pressate per poi essere messe a fermentare in barriques con l’inoculo di lieviti autoctoni. La fermentazione avviene spontaneamente nelle barriques e gli unici interventi effettuati sono dei batonnage giornalieri.
La prima sfecciatura grossolana avviene solo al termine delle fermentazioni alcolica e malolattica. Si procede poi con ulteriori quattro pulizie annuali in maniera da ottenere un vino pulito e pronto per l’imbottigliamento dopo una leggerissima filtrazione.


L’annata 2010, l’ultima della batteria, colpisce e si fa apprezzare già dal colore che cede pochissimo all’ossidazione e al tempo visto che, come si può verificare dalla foto, il vino sfoggia una cromia leggermente dorata, piena e di bellissima lucentezza. L’ampio ventaglio olfattivo, che dopo oltre venti anni vira su sensazioni aromatiche che evocano i vecchi riesling tedeschi: frutta esotica matura, pesca percoca, resina di pino mugo, erba citrina e un’imponente nota di pietra focaia a cui seguono, col passare del tempo, percezioni salmastre.


Armoniosa, bilanciatissima e saporita la bocca, ben puntellata da una sapidità a tutto volume e da una freschezza paradigmatica che, in equilibrio con la massa glicerica del vino, concedono una complessità aromatica in accordo col naso. Finale di interminabile lunghezza.

Terre Di Ger – Vino Rosso “El Masut” 2020


Robert Spinazzè gestisce circa 40 ha di vigneti Piwi tra Veneto e Friuli perché da pensa che le varietà resistenti siano una soluzione al problema del cambiamento climatico. 


Questo rosso da Cabernet Eidos, Merlot Khorus e Merlot Kanthus ci piace per la sua giovialità e il suo essere irresistibilmente succoso.

La cucina del Bistrot 64 torna a risplendere come l’Araba Fenice


Gli amori, si sa, spesso risultano essere passionali, travolgenti, totalizzanti ma a volte, se ci rilassiamo troppo, pensando che tutto sia scontato, possono trascinarti in alto mare e travolgerti, portandoti a fondo, fino a quando non decidi, raccogliendo tutti i pezzi, che è ora ricominciare e risorgere come l’araba fenice.
Questa, più o meno, può essere la sintesi del rapporto esistente tra Emanuele Cozzo e il “suo” Bistrot 64, che fino a qualche anno fa, grazie alla stella Michelin presa nel 2016 assieme al suo ex socio ed executive chef Kotaro Noda, era tra gli indirizzi più interessanti della ristorazione romana grazie ad un format, riuscitissimo, che univa l’esperienza gourmet ad un rapporto qualità\prezzo tra i più interessanti nel panorama culinario italiano. Il grande successo e le luci della ribalta durano per qualche anno, tutto va a gonfie vele fino a quando questo meccanismo perfetto pian piano si inceppa tanto che, nel 2022, arriva il declassamento della Michelin che toglie la stella al locale che pian piano, nel periodo di tempo successivo, complice anche il Covid, andrà incontro ad al periodo più buio della sua storia chiudendo ad Aprile 2023.

Nikola Bacalu, Emanuele Cozzo e Giacomo Zezza – foto di Andrea Di Lorenzo

Emanuele Cozzo, che tre anni prima era uscito dalla proprietà del ristorante, non se l’è sentita di lasciare la sua creatura in balia degli eventi e così, dopo una breve riflessione, ha deciso di far tornare a splendere la sua creatura, il suo primo amore, chiamando con sé Giacomo Zezza (già ex sous chef di Bistrot 64 in passato), in cucina e il suo grande amico, e braccio destro, Nicola Bacalu, a cui spetta l’onere e l’onore di coordinare la sala in qualità di maître e sommelier.


Oggi, sono 30 le sedute che trovano posto in uno spazio caratterizzato dalla presenza di legno e marmo e da uno stile essenziale che riesce a donare carattere al locale. Una nuova veste per un progetto ambizioso che punta ora su due concetti chiave per strutturare una proposta gastronomica gustosa, molto divertente e con uso sapiente di una materia prima di assoluto livello spesso proveniente dall’orto di proprietà che Cozzo ha nei dintorni della Via Flaminia.

La bollicina di benvenuto

Oltre alle proposte alle carte, Bistrot 64 prevede per i suoi clienti due percorsi di degustazione, interpretazioni differenti dello stesso pensiero culinario, che trovano piena espressione nei due menù denominati Evoluzione (5 portate a 70 euro) con alcuni piatti storici del Bistrot 64, e Innovazione (8 portate a 95 euro) con proposte originali.

Benvenuto dello Chef

Tornato a trovare i ragazzi del Bistrot 64 con l’ambizione di voler provare un po’ tutto, ho preso piatti sia dalla carta, sia dai due menù degustazione e dopo un simpaticissimo Benvenuto dello Chef dove, tra le varie proposte, spiccava una finta coppietta romana rappresentata da una carota disidratata, speziata e servita con una maionese di prugna fermentata, ho degustato i seguenti piatti che eviterò di descrivere singolarmente per non essere eccessivamente prolisso:

Zuppa di porro con lenticchia nera di Todi, mousse di nocciole e nocciole tostate


Assoluto di Zucca (in forma millefoglie con patata, polvere di cumino, zucca cotta a bassa temperatura e rigenerata alla brace, olio alla salvia, e kombucha di zucca con olio al ginepro

Bottoncino con cavolfiore, Lapsang Souchong e brodo di lievito madre

Risotto mantecato al castelmagno, polvere di finocchietto e ciauscolo di cuore di vitello marinato ed affumicato con tartufo nero fermentato


Fungo criniera di leone servito con latte di rosmarino, polvere prezzemolo, servito con fondo di manzo.

Maiale, miso alla cacciatora e cicoria

Topo e il suo formaggio ovvero Cioccolato bianco, arancia e mandorla

Cioccolato bianco, rosmarino, frutti rossi


Il risultato è stato più che appagante, tutti i piatti sono caratterizzati, lo voglio ribadire, da un uso mirato di tecnica e sperimentazione per fornire il massimo equilibrio gustativo alle proposte culinarie che, fortunatamente, non vengono stravolte da una ricerca ossessiva di stupire il cliente.


Per quanto riguarda il vino Due i pairing previsti da Nicola Bacalu, il primo da 5 calici (a 45 euro), il secondo da 7 (a 55 euro). La carta, che ha abbandonato etichette commerciali in favore di piccole cantine rispettose del loro terroir di appartenenza, è divertente e, soprattutto, ha ricarichi assolutamente umani e non respingenti come, invece, spesso accade per locali di fine dining. Bonus, inoltre, al maître che è tra i pochissimi a Roma che serve il vino rosso leggermente fresco e non a temperatura ambiente.


L’obiettivo dichiarato di Emanuele Cozzo e tutto il suo staff è quello di riprendersi la stella Michelin che, posso dirlo tranquillamente, sarebbe strameritata per l’impegno e la qualità che mettono nel loro lavoro. In bocca al lupo, ragazzi!!

InvecchiatIGP: Garofoli - Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore “Podium” 2013


di Lorenzo Colombo

Osservando la modalità di lavorazione di questo vino ci si può stupire per la sua semplicità. Vinificazione in acciaio, affinamento per 15 mesi sulle fecce fini negli stessi contenitori e sosta in bottiglia per quattro mesi prima della commercializzazione. Ci si chiede quindi come mai una vinificazione così semplice possa dare un vino in grado di reggere oltre dieci anni senza cedimento alcuno.

Dove sta il trucco? Se trucco c’è.

Nessun trucco, solamente raccolta delle uve a maturazione completa accuratamente selezionate da vigneti posti su suolo con abbondanza di argilla e sabbia e bassa resa per ettaro (79 q.li). Ed ovviamente grande cura in cantina. Sono 50 gli ettari di vigne dell’azienda Garofalo, fondata nel 1901 e gestita dalla quinta generazione della stessa famiglia, 1.300.000 le bottiglie prodotte annualmente, distribuite su sei linee produttive per un totale di 27 diverse etichette. Tra queste spiccano quelle dei Verdicchio dei Castelli di Jesi, ben cinque nella sola tipologia fermo ai quali s’aggiungono gli spumanti ed il passito.


Il vino da noi assaggiato per la rubrica InvecchiatIGP di questa settimana è il Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore “Podium” dell’annata 2013, descritto ad inizio articolo ed inserito nella Linea Selezioni. Un vino in grado di reggere il tempo in maniera impressionate, anche se il vitigno Verdicchio ci ha abituati a simili prestazioni. Entrato in commercio per la prima volta nel 1991, se ne producono annualmente 45.000 bottiglie.


L’etichetta dice: Longevità 6-10 anni e noi siamo al limite di quanto indicato, ma dopo l’assaggio siamo più che certi che questa bottiglia avrebbe potuto essere conservata in cantina per parecchio tempo (ma non ci pentiamo affatto d’averla bevuta).


Veniamo all’assaggio: il colore è oro intenso, come ci s’aspetta da un vino di simile età, quello che impressiona è la vivacità e la brillantezza.
Al naso non ci appare molto intenso, l’età ha certamente smorzato la sua esuberanza, ciò che cogliamo sono sentori di frutta tropicale e d’erbe officinali e fieno di montagna, inoltre si percepiscono sentori di frutta secca, mandorle,nocciole, noci appena schaiacciate.
Strutturato, succoso, sapido e balsamico, con buona vena acida e leggere note boisé, queste anche se in vino non ha mai conosciuto legno alcuno, sentori di frutta secca ed agrumi amari, lunghissima la persistenza.

La Costa - Igt Terre Lariene Verdese “860” 2019


di Lorenzo Colombo

Sono solamente 860 (da qui il nome) le bottiglie da 50 cl prodotte di questo vino da uve Verdese in purezza, dopo una macerazione per tre giorni sulle bucce il mosto fermenta in vasche d’acciaio ed il vino matura per un anno in barrique.


Fresco, asciutto, delicato, presenta sentori di mela cotogna

Locali belli e dove trovarli: Trattoria Al Porto di Clusane


di Lorenzo Colombo

Anni fa frequentavamo abbastanza spesso il Lago d’Iseo e la nostra tappa culinaria prevedeva sempre una sosta in uno dei locali che propongono il piatto tipico di questa zona, e precisamente di Clusane, ovvero la Tinca al forno con polenta. Negli ultimi tempi la nostra frequentazione s’è assai ridotta, l’ultima volta è stato nel febbraio 2021 quando abbiamo fatto tappa presso la Trattoria del Muliner.


Ci siano nuovamente stati - a Clusane - in un sabato di fine gennaio che in realtà presentava un clima più primaverile che non invernale, con un sole tiepido che invitava a passeggiare, e questa volta abbiamo optato per la Trattoria Al Porto, locale già frequentato in passato.


Situato di fronte al piccolo porticciolo di Clusane, in un caseggiato in pietra si fatica un poco a riconoscerlo come ristorante nonostante la grande insegna incastonata sulla facciata. Qui si viene principalmente per mangiare il pesce d’acqua dolce, anche se il nutrito menù propone anche piatti di terra che di mare.


Dicevamo di un menù focalizzato soprattutto sul pesce d’acqua dolce ecco a tal proposito cosa abbiamo trovato in carta: tra gli antipasti vengono proposti l’Antipasto di lago (sardina, pesciolino in carpione, salmerino, persico, luccio, coregone), l’Insalata di lago al vapore (luccio, persico, coregone, salmerino, gamberi di fiume), l’antipasto affumicato (anguilla, salmerino, trota, coregone), il salmerino agli aromi, le sardine di lago con polenta abbrustolita e la tartare di Salmerino. La nostra scelta è caduta su quest’ultimo piatto che abbiamo trovato assai interessante, delicato ma al contempo gustoso.


Tra i primi piatti, rimanendo sempre sul pesce d’acqua dolce, troviamo tra gli altri: spaghetti ai gamberi di lago, pappardelle al pesce di lago, tagliatelle con Sardine di lago, tagliolini con persico, tagliolini con bottarga di coregone, risotto di lago, riso alla creola con persico, ravioli al salmerino.
Abbiamo optato per gli spaghetti ai gamberi di lago e non poteva esserci scelta più felice, avendo trovato questo piatto davvero squisito, equilibrato, saporito, il migliore tra quanto assaggiato.


Passiamo ai secondi piatti sempre rimanendo in tema d’acqua dolce, ecco quindi anguilla al forno, filetti di pesce persico, pesce fritto di lago (pesciolini, gamberi di fiume, persico, coregone, trota), grigliata mista di lago (salmerino, trota alpina, coregone, storione), salmerino alla griglia, filetti di storione al limone, luccio alla clusanese, fritto gamberi di lago e, naturalmente, tinca al forno con polenta. Piatto quest’ultimo scopo principale del nostro venire a Clusane, c’è però un altro ingrediente che apprezziamo molto e che non è facilmente reperibile altrove, di tratta dei gamberi di fiume, non potevamo quindi mancare d’assaggiarli fritti in una delicata pastella con verdure -zucchine e carote- nella fattispecie e non ci siamo certamente pentiti della nostra scelta, anzi.


La tinca al forno è una preparazione tosta, dove il burro la fa sa padrone e può anche costituire un piatto unico servita com’è con la polenta, l’abbiamo trovata come ce l’aspettavamo, gustosa, con una speziatura giusta e non eccessiva.


Ovviamente non concepiamo un pasto senza la presenza di vino e la nostra scelta è caduta su un Franciacorta che apprezziamo molto, il Cru Perdu di Castello Bonomi, dell’annata 2018, un vino dall’incredibile sapidità che s’è rivelato un abbinamento perfetto per tutti i piatti scelti.


Un’ultima annotazione riguarda il costo di un simile pasto, più che onesto data la qualità di quanto assaggiato, in due persone, un antipasto, un primo piatto, due secondi acqua ed una bottiglia di Franciacorta ci portano ad una spesa attorno ai 100 euro. Dimenticavamo, c’è stato anche un dessert, una millefoglie davvero buona. Che dire se non che ci torneremo.