Cerasuolo e Trebbiano d'Abruzzo: questione di identità


di Stefano Tesi

Conosco Filippo Bartolotta troppo bene e da troppo tempo per non apprezzare, oltre alla conclamata competenza, le sue arcinote capacità affabulatorie. Ma quando, nel giugno scorso, introducendo la masterclass sul Cerasuolo d’Abruzzo (già molto creativamente dedicata all’”air-roir” del medesimo) durante le giornate dell’Abruzzo Wine Experience, si è lanciato in un’ardita dissertazione comparativa tra il vino e il mito di Perseo e Medusa, non credo di essere stato il solo a chiedersi dove volesse andare a parare. Dubbio che si è accresciuto quando, preso dal discorso, ha definito questo straclassico abruzzese – da sempre tra i miei preferiti – “masochistico”.


La nebbia ha cominciato a dissolversi e l’obbiettivo nonché l’aggettivo sono andati a fuoco solo quando, accanto alle Metamorfosi ovidiane, Filippo ha rammentato il ruolo che, a quel mito, aveva affidato Italo Calvino nelle sue “Lezioni Americane”: la rappresentazione di uno dei valori-parola secondo lo scrittore fondamentali nell’esercizio della letteratura, ossia la leggerezza. Una leggerezza da intendersi ovviamente non nel senso di impalpabilità o evanescenza, bensì in quello di levità, agilità, disincantata mutevolezza, contorta coerenza.

Espresso in questi termini, l’accostamento regge e, al contempo, suggestiona.

Perché nelle sue varie (e non sempre riuscite, ammettiamolo) interpretazioni, il Cerasuolo d’Abruzzo ha in effetti la non trascurabile capacità di mantenere un proprio fil rouge, un’impronta identitaria che solo di rado si incrina.

L’ardita ipotesi bartolottiana ha cercato la via della dimostrazione attraverso l’enunciazione di sette tesi, corrispondenti ad altrettanti campioni portati in degustazione. E poi elaborata, anzi metabolizzata dal sottoscritto con copiosi ed ulteriori assaggi compiuti in diretta tra i banchi, proprio sulle ali di quella leggerezza che, come una brezza vigorosa ma gentile, sa sollevarti da terra senza tuttavia spingerti così in alto da farti perdere i punti di riferimento.


Eccole le sette declinazioni del Cerasuolo d’Abruzzo prescelte per il cimento.

Montori - Fontecupa 2022

All’occhio è di un rosa mattonato, mentre al naso è fragrante e gentile, ma con un robusto alito vinoso, mentre il palato è sapido, fresco e lungo, sebbene non particolarmente incisivo.

Tenuta I Fauri - Baldovino 2002

E’ un vino fatto in acciaio e cemento, di color mattone deciso: al naso è pieno e compatto, tipico direi, e anche in bocca rivela il corpo e la pulizia che ci si aspetta da un Cerasuolo classico.

Terre dei Beati - Rosa-ae 2022

Un chiaretto dai riflessi violaceo-purpurei, dal bouquet deciso, acuto e quasi pungente e dal gusto beverino, di corposità un po’ rustica.

Tenuta De Melis - Bardace 2022

Di un rosa intenso un po’ modaiolo, che si riflette nelle note dolciastre e caramellose sia al naso che in bocca.

Pettinella - Tauma 2022

Color mattone appena velato, al naso è un vino ruspante, deciso, “antico” e perfino un po’ brusco, nota che ritrova anche al palato.

Emidio Pepe 2022

Emidio o lo si ama o lo si odia e noi lo amiamo: di classico colore rosato scuro, il bouquet è coerente e riconoscibile, ossia tipico e ostico al tempo stesso, mentre in bocca è profondo, corposo e gastronomico.

Ciavolich - Fosso Cancelli 2020

Il vino ha il colore indefinibile, e indimenticabile, di certi tramonti africani, mentre al naso propone un ventaglio di cangiante eleganza che abbraccia l’erba grassa e quella vetriola, con la menta finale che spunta anche in bocca, nel lungo finale sapido.


A questo punto quasi mi aspettavo un excursus sul Cerasuolo d’Abruzzo e la Legge del Sette di Gurdjieff, alla quale invece, ma probabilmente solo per mancanza di tempo, Filippo ha dovuto rinunciare.

Così, deluso (non dagli assaggi ma dal mancato excursus) e consapevole che non potendo far tutto occorre fare delle scelte, mi sono dedicato a un’assai più prosaica degustazione di Cerasuolo e di Trebbiano d’Abruzzo tra i banchi allestiti negli spazi della bella Tenuta Coppa Zuccari, nelle campagne di Città Sant’Angelo.

Paesaggio fantastico a parte, le cose migliori che ho trovato sono state le seguenti:

A Salire, Rabottini Cerasuolo d’Abruzzo 2019: i riflessi di mattone antico restituiscono delicate note di ciliegia e un sorso pieno, sapido e gratificante.

Per Iniziare, Rabottini - Trebbiano d’Abruzzo 2015: colore oro acceso, naso appena evoluto e bocca ampia, quasi solenne, profonda, varietale.

Zappacosta - Cerasuolo d’Abruzzo 2022: il colore scarico da velo di cipolla non inganni, il bouquet è intenso, verace e sincero, al pari del palato

Zappacosta - Trebbiano d’Abruzzo 2022: dorato all’occhio, svela al naso la sua natura bio con una bella screziatura e in bocca è vibrante, con piacevole ritorno amarognolo.

Strappelli - Cerasuolo d’Abruzzo 2021: una piacevole conferma di tipicità e di gradevolezza sia al naso che in bocca, centratissimo.

Cerulli Spinozzi - Trebbiano d’Abruzzo Doc Superiore  "Torre Miglori" 2020: bell’oro brillante e un naso gentilmente complesso che trova equilibrio anche in bocca.

Torri - Cerasuolo d’Abruzzo Rosarubra 2022: rosa scuro all’occhio, naso fragrante e vivo, bocca importante e ampia ma fresca e godibile.

InvecchiatIGP: Librandi - Val di Neto Rosso IGT "Magno Megonio" 2014


di Luciano Pignataro

Alla fine degli anni ’90 Antonio e Nicodemo Librandi scelsero Donato Lanati come enologo e fu l’inizio di una rivoluzione profonda e radicale. I rossi messi in cura dimagrante, restituendo al Gaglioppo lo stile poco colorato nel bicchiere e ritornando alle origini facendo piazza pulita di quelli che ritenevano un difetto la mancanza di colore rosso rubino.
L’inizio della collaborazione fu anche segnato dal recupero in purezza di due uve, il Magliocco e il Mantonico da cui sono stati prodotti i due nuovi vini che ancora oggi segnano il lavoro svolto a distanza di vent’anni: il Magno Megonio e l’Efeso.
Anche in questo caso, anticipando di molto i tempi, si scelse di non eccedere con surmaturazioni ed estrazioni, ma di procedere cercando di salvaguardare soprattutto la freschezza e il frutto nel bicchiere.


Nel corso degli anni il Magno Megonio è diventato una bandiera di Librandi e del vino calabrese, fu il primo esempio di Magliocco in purezza, scelta che ha stimolato soprattutto i produttori cosentini che ne hanno fatto un vitigno identitario pur nelle diverse, talvolta opposte, interpretazioni.
Diversi assaggi di Magno Megonio, un Val di Neto igt, nel corso di questo quarto di secolo ci hanno convinto che il vino, così come è concepito, inizia ad esprimere il meglio di se dopo il quarto, quinto anno dalla vendemmia, ovviamente a seconda delle annate. Verticali storiche hanno confermato la predisposizione di questa uva al lungo, anche lunghissimo invecchiamento grazie al quale il vino sviluppa piacevoli terziarie pur conservando una sua sostanziale leggerezza.


Il vino nasce da uve coltivate nella Tenuta Rosaneti in agro di Rocca di Neto, sulla parte più alta per la precisione, e può essere ritenuto a tutti gli effetti un cru. Si parte da una bassa resa per ettaro, circa 65 quintali, la fermentazione e la macerazione per un paio di settimane viene fatta in acciaio, successivamente si usano barrique nuove per un anno a cui seguono sei mesi di bottiglia. Viene commercializzato a due anni dalla vendemmia.


A Ferragosto abbiamo aperto una 2014 che giaceva da anni in cantina per abbinarla ad un robusto timballo siciliano di anellini rinforzato alla napoletana (con carne e uova). La bottiglia ha subito dimostrato grande vivacità, con un naso di frutta rossa arricchito da note di macchia mediterranea e balsamiche. Una freschezza complessiva che abbiamo ritrovato anche al palato con un sorso equilibrato, piacevole, lungo, sapido con finale amaricante molto pulito e preciso, l’alcol a 14,5 gradi ha praticamente fatto da comprimario perché la sensazione principale è stata quella di un ristoro dissetante e sgrassante grazie alla presenza di tannini ben lavorati e molto efficaci sul piatto decisamente strutturato. Incredibile la perfetta fusione, al naso come al palato, fra il legno e il frutto, del resto centrato sin dal primo anno.


Un vino di quasi dieci anni che alla cieca sarebbe stato difficile definire come tale, segno che ha di fronte ancora un lungo cammino.
L’ultima nota che vogliamo fare riguarda il prezzo: in rete questa straordinaria bottiglia si trova anche a 15 euro, decisamente a favore dell’appassionato e del consumatore che, se ha pazienza di aspettare qualche anno, fa una gran bella figura nel presentare questo grande vino, lo squillo di tromba della rinascita del vino calabrese di cui adesso iniziamo a vedere, euforici, i risultati: anche perché il bello deve ancora venire.

Benanti - Contrada Dafara Galluzzo Etna Rosso 2019


di Luciano Pignataro

Nerello Mascalese in purezza coltivato ad alberello sull’Etna a 750metri: la purezza dell’uva in un bicchiere capolavoro, tra i migliori di sempre di Benanti. 


Ben bilanciato al naso, ricco al palato, fresco e bevibile con una straordinaria eleganza finale. La bottiglia si finisce in un sorso.

Al Fiano Love Fest per la degustazione storica di Fiano di Avellino


di Luciano Pignataro

Quando il Comune di Lapio mi ha chiesto di proporre una degustazione nell'ambito del Fiano Love Fest ho pensato che si poteva fare qualcosa di diverso, mai realizzata prima su questo territorio: chiedere alle aziende le loro annate più vecchie disponibili. Un modo per sottolineare quello che abbiamo sempre creduto, il filo conduttore della nostra narrazione trentennale del Fiano di Avellino, ossia puntare sulla sua straordinaria longevità che ha il grande vantaggio, come dimostrano gli studi scientifici coordinati dal professore Luigi Moio, di evolvere e migliorare olfattivamente e gustativamente con il passare del tempo.


Ormai decine di assaggi realizzati da più persone nel corso di questi tre straordinari decenni, hanno confermato palpabilmente questa tesi: tra l'altro il Fiano di Lapio, più grasso e profumato, a mio giudizio sicuramente una delle migliori espressioni che questo straordinario vitigno italiano può assumere grazie alle condizioni pedoclimatiche di queste colline silenti a 500 metri sul livello del mare che stanno guadagnando dal global warming come tutte le aree fredde perchè nonostante la media delle temperature sia più alta, mantengono una straordinaria escursione termica che è il primo presupposto per avere grandi vini a cui si aggiunge la formidabile luminosità del Sud.


Non è stato facile reperire queste bottiglie: le aziende nate tutte da ex conferitori che nel corso degli ultimi 25 anni si sono messe in proprio per dare valore all'uva il cui prezzo non era più in grado di sostenere i costi di gestione del vigneto. Si è proceduto a tentoni, tentando di vendere tutto entro l'anno in un momento in cui non c'era cultura sui bianchi invecchiati, tema su cui sostanzialmente tutta l'Italia è in ritardo, fatta salvo la cerchia degli appassionati di vino, che pure sono concentrati comunque soprattutto sui rossi.


Non credo di peccare di campanilismo sostenendo che il Fiano di Avelino, che celebra quest'anno i venti anni di docg invecchiato non teme confronti al mondo. Certo, mancano mote vendemmie per raggiungere alla perfezione dello Chardonnay in Borgogna, ma spesso. e volentieri i Fiano inseriti come "pirati" nelle degustazioni che contano fanno la loro grande figura. Lavorato soprattutto in acciaio in Irpinia il Fiano dimostra una straordinaria capacità evolutiva. Il rapporto con il legno sinora non è stato sperimentato sino in fondo anche se alcuni esempi (Oi Ni di Scuotto) ci dimostrano che in media siamo ancora molto al di sotto delle potenzialità, è che se tanti sono buoni, con un uso calibrato ed equilibrato del legno possono diventare prodotti fantastici ed emozionanti. Ma su questo versante il lavoro è tutto da iniziare. Per il momento ci possiamo accontentare del fatto che è stata finalmente istituita la Riserva nel disciplinare della docg e che almeno una dozzina di aziende escono regolarmente con uno o due anni di ritardo.


Abbiamo poi chi, come Di Meo, Mastroberardino, Joaquin, hanno iniziato a lavorare con convinzione e decisione sui tempi medio-lunghi con risultati straordinari. Non a caso queste chicche, il progetto Stilema di Piero, Per Erminia e Alessandra di Roberto, Piante a Lapio di Raffaele Pagano, fanno andare di matto gli esperti e gli appassionati. In verticale sul tempo (Colli di Lapio), in orizzontale sulla selezione di cru (Rocca del Principe, Laura de Sio) altri produttori hanno puntato la rotta in questa direzione.
Quindi immaginiamo un territorio che inizia ad esprimere almeno una dozzina di produttori che lavorano con questo tipo di progetti: sarà questa la mossa per una salto di qualità complessivo con relativo apprezzamento delle bottiglie che farà diventare il territorio di Lapio onirico e grande protagonista sulla scena mondiale.
Nel corso della degustazione, che ho avuto il grande piacere di condurre con il presidente dell'Ais Campania Tommaso Luongo, uno dei migliori palati d'Italia, coadiuvato dall'Ais di Avellino, è apparso chiaro ormai che questi discorsi non sono frutto di racconti visionari, ma progetti concreti che stanno crescendo sotto i nostri occhi e di cui soprattutto la nuova generazione di degustatori potrà godere.

Ed ecco il viaggio nel tempo. Mi affido alle note sulla prima delle due sessioni della bravissima Titti Casiello pubblicate su Cronache di Gusto.
(in corsivo alcune note mie)

Elle 2018 – Laura de Vito
Questa azienda seguita da Vincenzo Mercurio parte con un progetto coerente che va proprio in questa direzione: il Fiano Elle è un blend di diversi vigneti, poi tre cru che escono dopo due anni.
Dal caramello salato alla frutta a polpa gialla. Il corredo olfattivo è pieno e luminoso quanto il suo palato, dotato di una materia mai scontata grazie ad una buona componente di acidità che cede spazio solo sul finale a una appagante sensazione salina.

Apiano 2016 – Angelo Silano
Ex Feudo Apiano, nella seconda degustazione ha presentato un Fiano alla maniera degli antichi puntano su un dolce frizzantino che i contadini usavano nelle feste
I ricordi di frutta candita stanno a braccetto con quelli di erbe aromatiche e di lievi accenni balsamici. Il sorso riempie il palato imponendosi d’imperio sulle morbidezze senza mancare di una verve concessa, soprattutto in retronaso, da note piccanti di zenzero e limone.

Fiano della Stella 2012 – Joaquin
Oltre al Fiano della Stella Raffaele Pagano ha piante a Lapio, entrambi giocati sui tempi lunghi
Sbuffi di torba e di pietra focaia per un olfatto unito da venature salmastre e da sentori di albicocca. La scorrevolezza nel palato si concede, poi, in una chiosa fine e piacevole nel finale.

2011 – Tenuta Scuotto
Seguita da Angelo Valentino, questa azienda regala una totale affidabilità nel tempo. Al base aggiunge Oi Nì, lavorato in botti di stile alsaziano.
Iodato e vegetale in un sorso slanciato e lineare dalla buona persistenza sul finale.

2010 – Rocca del Principe
Annata simbolica, la prima che ha atteso un anno per entrare in commercio
Era il 2004 quando Achille Zarrella fonda a Lapio, in contrada Arianiello, la sua azienda. Al suo sesto imbottigliamento ne viene fuori un vino sartoriale dove la fattezza qualitativa sta in un naso accennato di fiori bianchi e anice. Fine ed elegante, quanto il sorso connotato da un andirivieni di sensazioni in un equilibrio sopraffine tra morbidezze e durezze. Tonicità e impeto. Standing Ovation

2008 – Filadoro
Apparso un po' stanco nella prima seduta, in perfetta forma nella seconda
Millefiori e cera invitano a un vino da fine pasto che al palato perde forza concedendosi a rimandi balsamici in retronaso.

2007 Colli di Lapio Clelia Romano
Ad Arianiello la signora del Fiano, Clelia Romano, regala un calice magistrale tra radici di liquirizia, resina e note balsamiche dove acidità e gioia gustativa gli sottraggono almeno dieci anni dalla sua carta di identità. Standing Ovation

1989 – Romano
Il primo imbottigliamento di Fiano a Lapio, datato 1988, appartiene a questa famiglia. E nella sua seconda volta mostra le evoluzioni di chi supera ampliamente un trentennio e si concede alla meditazione. Quella stessa forma di riflessione sulle notevoli potenzialità del Fiano di Avellino e della sua necessità di essere maggiormente valorizzato. Zona per zona. Non saremo in Borgogna, infatti, sì siamo in Irpinia. Quanto c’è di meglio.

CampoRe 2009 – Terredora Di Paolo
Un omaggio a Lucio Mastroberardino ha chiuso questo fantastico viaggio.
Naso alpino, ricco di note vegetali ed erbacee in un sorso di spessore, dotato, forse, di un eccessivo corpo e caratterizzato da una chiusura lunga e ammandorlata.

InvecchiatIGP: Griesbauerhof - Vigneti delle Dolomiti "isarcus" 2011


di Carlo Macchi

E’ difficile da credere ma il luogo dove ho scattato la foto qua sotto dista meno di un chilometro in linea d’aria dalla piazza centrale di Bolzano e si trova all’interno della cittadina altoatesina. Siamo a Gries, nella zona nord di Bolzano e le vigne a pergola attorno a me fanno parte della DOC Santa Maddalena. Quindi schiava con piccole percentuali di lagrein, che la famiglia Mumelter ha coltivato praticamente da sempre mentre intorno a loro la città cresceva. Infatti il maso Griesbauerhof risale al 1785 e da poco tempo Georg, la sesta generazione, ha lasciato il timone enologico dell’azienda al figlio Lukas, laureato in enologia a Geisenheim.


A chi piace il Santa Maddalena non può non andare in brodo di giuggiole per la loro versione, sempre molto tipica, profumatissima e di corpo più che generoso. Ma ogni tanto viene voglia di fare qualcosa di (leggermente) diverso e così quasi quindici anni fa, quando parlare di schiava invecchiata era pura follia, Georg decise di provare a produrre una schiava da invecchiamento. Quindi sempre l’uvaggio classico, dove il lagrein entra in percentuali bassissime (molto meno del 10%) ma leggermente appassito in pianta e affinato in barrique non di primo passaggio. Nasce così il Vigneto delle Dolomiti IGT Isarcus, che nelle ultime annate è rientrato nella DOC, divenendo Santa Maddalena Classico.


Durante la visita fatta nemmeno due mesi fa il giovane Lukas mi ha fatto assaggiare il 2011 e, se non fossi uno che ama la schiava e ne conosce le grandi doti di invecchiamento sarei rimasto a bocca aperta. Invece sono rimasto “solo” molto sorpreso, perché ero di fronte ad un vino giovanissimo.


La prima sorpresa è venuta dal colore, sempre rubino e ben poco aranciato. Il naso aveva intensità e complessità notevole: si succedevano note di liquirizia, pepe, sentori floreali e ancora qualche lieve tocco fruttato. In bocca il vino dava il meglio di sé con una giovinezza incredibile, grazie ad una tangibile freschezza ma soprattutto a tannini ben levigati ma importanti, che ancora avevano molto da dire e lo dicevano con l’ampiezza e l’eleganza tipica delle grandi Schiava, che in qualche caso si possono scambiare anche per dei pinot nero borgognoni. In realtà non è il caso dell’Isarcus, sempre volutamente un po’ più “aggressivo” rispetto ad un normale Santa Maddalena, che in compenso sfida il tempo, annata dopo annata.


C’è soltanto una cosa da Griesbauerhof che mi ha lasciato più sorpreso dell’Isarcus 2011 e sono state le patate al forno della mamma di Lukas, la signora Margareth, che da sole valgono il viaggio a Bolzano e che abbinate con l’Isarcus possono far intravedere la Madonna.

Ludovica Tedeschi - Vino rosso "Antiola"


di Carlo Macchi

“Ben” 43 bottiglie totali, le cui uve nascono (prima annata) nell’estrema Val d’Ossola ma che la giovane Ludovica Tedeschi imbottiglia nel Roero. 


Nebbiolo dal colore scarico, semplice ma profumato, dal corpo accennato e dai tannini vivi ma non aggressivi. Piacevolissimo… se trovate una bottiglia.

E se “terroir” facesse riferimento solo al concetto di “uomo”?


di Carlo Macchi

Oramai da quando sono nel mondo del vino, diciamo quasi 40 anni, una delle parole d’ordine del vino di qualità è terroir. E’ il terroir che, quasi ad ogni livello, fa il grande vino mentre il produttore nell’iconografia imperante quasi sempre è uno “strumento del destino”, colui che ha la fortuna di portare in bottiglia, quello che il terroir ha concesso. Dopo quasi quaranta anni e naturalmente con le dovute (ma non moltissime) eccezioni, mi sento di dire che quanto detto sopra semplicemente non risponde a verità.


Ma partiamo dall’inizio, cercando di capire cosa vuol dire Terroir: una sua spiegazione molto semplicistica passa sempre attraverso il tipo di suolo che si coltiva, il clima, la storia e la cultura del luogo e naturalmente l’uomo immerso nella storia e nella cultura del luogo: quest’ultimo però è visto come ultimo tassello di questo processo, dove madre natura svolge un ruolo basilare, insostituibile e, naturalmente, riconoscibile nel bicchiere.

Le definizioni, di terroir più o meno ampie e motivate si sprecano: una delle più centrate è per me questa di Armando Castagno, che vi riporto integralmente.

Il terroir è uno spazio geografico delimitato, abitato da una comunità umana e caratterizzato da una comunità agricola. Il prodotto agricolo è messo in valore nel corso del tempo dal lavoro della comunità, determinato dall’attitudine del luogo, custodito dal vigore della sua biodiversità, e qualificato dalla virtuosa interazione tra luogo e cultivar. La comunità umana discute, elabora e adotta un patrimonio collettivo di regole produttive di base, condivise e accettate: pone a disposizione di tutti l’esperienza accumulata lungo tale percorso di conoscenza in ogni modo possibile. Nessun Terrori viene a crearsi per mera iniziativa individuale, o per via progettuale, opportunistica o politica. Tanto il terroir pone in valore il bene finale cui dà vita quanto il bene finale valorizza il suo terroir di nascita. Spetta al consumatore finale il riconoscimento eventuale del valore in tal modo venutosi a creare.

Difficile essere più chiari e esaustivi.

Nei miei continui giri per l’Italia mi sono domandato più volte di fronte ad un vino, dove il produttore lodava e decantava ( giustamente dal suo punto di vista) il terroir di nascita, quanto in percentuale vi fosse della terra,del vigneto, del clima e quanto invece dell’uomo che, con le sue scelte, in vigna e in cantina, fa nascere il vino.

Perché una delle frasi più o meno fatte che girano da sempre è “Cerco di toccare il vino il meno possibile”.

Da questa frase nasce l’immagine di un vino che il produttore x “monta in macchina e porta, toccandolo quasi niente, a destinazione”. In realtà dobbiamo immaginarci un’altra cosa: ogni scelta di un produttore, agronomica o di cantina è un bivio dal quale non si può tornare indietro.


Ma siamo così sicuri che, tanto per elencare: lasciando 6 o 12 occhi in potatura, cimando o non cimando, sfogliando o non sfogliando, facendo o meno la potatura verde, scegliendo una data più che un’altra per la vendemmia e poi in cantina usando o non usando un determinato lievito, o nutrimento di lievito, temperature di fermentazione diverse, 1 o 10 rimontaggi al giorno, legni (o non legni) piccoli, medi, grandi, tostati o meno, siamo sicuri che i risultati sarebbero più o meno gli stessi perché dipendono sempre e comunque dal terroir?

Esempio abbastanza calzante: lo scorso anno nelle nostre degustazioni di Barolo e Barbaresco, abbiamo messo assieme le MGA con un buon numero di campioni (Bussia, Cannubi, Gallina etc) e le abbiamo degustate, naturalmente bendate : il risultato è stato che erano vini molto diversi tra loro, anche di produttori con vigneti confinanti.

Qualcuno obbietterà che stiamo sempre parlando di Barolo, che ha comunque determinate caratteristiche generali che portano verso l’identificazione di un terroir preciso, ma una cosa è il concetto generale di zona viticola applicato ad un vino, un’altra è il Terroir, che dovrebbe portare a risultati abbastanza univoci dove le sue caratteristiche sono uguali o quantomeno simili. Questo, confrontando vini che nascono anche a pochi metri di distanza (e non sto parlando di Barolo ma in generale) non succede praticamente mai.

Succede spesso anche l’opposto, cioè si incontrano quotidianamente vini che, vedendo e “toccando” di persona dove nascono, si potrebbe immaginare avessero caratteristiche diverse, dovute appunto al terroir di provenienza.

L’esempio l’ho fatto non per dimostrare, ripeto, che il termine “terroir” dipende solo dall’uomo, ma che l’uomo è tra le forze in campo quella che, oggi come oggi, marca di più il vino finito.

Ma torniamo ai bivi e alle scelte: in passato c’era meno tecnica e meno possibilità di dover scegliere tra molte possibilità, ma oggi le nuove frontiere agronomiche e enologiche ti propongono un’infinità di possibilità che, come per miracolo, diventano comuni a molti e, spesso senza colpo ferire, arrivano ad identificare il terroir.

Per esempio, è mai possibile che da qualche anno i vini, di ogni tipologia, siano “salati”? Se questa sapidità era nel terreno, nell’aria o nel terroir perché non si era espressa prima? E’ possibile invece che “la sapidità imperante” possa essere una moda e come tale dovuta a vinificazioni che privilegiano determinate caratteristiche?


Altro esempio: i più enologicamente stagionati tra i miei lettori ricorderanno che agli inizi degli anni ’90 il terroir di Malborough, in Nuova Zelanda, era famoso perché produceva sauvignon che avevano l’aroma inconfondibile del frutto della passione. Ci hanno venduto per anni che era una sua caratteristica peculiare, salvo poi capire che nasceva da determinati processi di cantina e che seguendo le stesse regole enologiche era possibile trovare il frutto della passione praticamente in qualsiasi vitigno a bacca bianca, cosa che si è puntualmente presentata in Italia dopo qualche anno e con qualsiasi vitigno a bacca bianca.

Attenzione, non voglio dire che i produttori di vino sono persone che vendono “il buio per uva nera” ma semplicemente che la ricerca di nuove frontiere (o nuove mode) porta a scelte che forse non sono in larga parte frutto della terra e del microclima.

Attenzione ancora, questo non mi mette dalla parte dei vini naturali, perché anche “non toccare” il vino comporta una lunga serie di scelte e come tale porta a risultati che mettono ben in evidenza la firma del produttore.

Vediamo di chiarirci meglio: possiamo vedere un chicco d’uva come una specie di supermercato, dove si possono trovare tanti prodotti diversi. In effetti gli aromi e le sostanze all’interno di un chicco non si sviluppano tutte allo stesso modo e non vengono estratte sempre e comunque omogeneamente, dalle Alpi alle Piramidi. Facendola più semplice ancora: se fermento le stesse uve bianche a 22° o a 13° estraggo e/o metto in evidenza sostanze diverse in maniera diversa, ma che si trovano comunque tutte all’interno del “chicco-supermercato”. Chi mi garantisce a questo punto quale dei due vini rappresenti meglio il terroir?

Potrei elencare decine di altri “bivi” che possono portare a risultati quasi opposti per lo stesso vino, ma non voglio annoiarvi.


Per dare un colpo al cerchio e uno alla botte bisogna anche dire che, rispetto a 30 anni fa, la qualità media dei vini è salita tantissimo e questo ha portato, non dico ad una standardizzazione, ma sicuramente all’ avvicinarsi di determinate caratteristiche (magari frutto di buona vigna e buona cantina) a delle tipologie strutturali di vini, arrivand successivamente a pensare che quelle rappresentino un espressione del vitigno in quel terroir. Ho parlato prima del frutto della passione ma adesso potrei citare “l’agrumizzazione forzata” di tanti bianchi italiani di uve diverse, dalla Sicilia, all’Alto Adige, venduta come caratteristica del territorio.

Insomma il terroir, quello perfettamente definito da Armando Castagno e ricercato un po’ da tutti, è una merce molto, ma moto rara mentre di uomini e donne che producono vini (anche buoni o ottimi) ne è pieno il mondo.

InvecchiatIGP: Schiavenza - Barolo Bricco Cerretta 2001


di Roberto Giuliani

Sono passati vent’anni da quando sono andato a trovare Luciano Pira nella sua azienda a Serralunga d’Alba, ricordo che poi mi fermai a cena presso la sua trattoria, dove mangiai benissimo, tanto che ci tornai in più occasioni, considerandola uno dei punti di riferimento in Langa. Assaggiai per la prima volta il Bricco Cerretta 2001 dalla botte, ricordo che era austero, tannico, di nerbo, ma davvero terragno e profondo, c’era solo da aspettare che finisse il suo percorso.


Nel 2006 finalmente lo riassaggiai dopo che aveva finito l’affinamento in bottiglia ed ebbi la conferma di non essermi sbagliato. Ora sono 22 anni dalla vendemmia, perfetti per verificarne anche la tenuta nel tempo.

credit: vdlwine.com


Mentre lo lascio ossigenarsi nel calice, noto che il colore è granato con unghia tendente al mattonato e mi arrivano profumi decisamente terziari; tenendo conto che il tappo era in condizioni perfette e non ho avuto alcun problema ad estrarlo, vengo colto da una leggera preoccupazione… forse non ce l’ha fatta, penso.


Agito dolcemente il calice per vedere cos’altro mi racconta, se l’aria gli sta facendo bene: va meglio, ma le note di funghi, sottobosco, terra umida, goudron, spezie camaldolesi non sembrano voler lasciare spazio al frutto. Dopo circa 20 minuti la situazione cambia, i profumi precedenti sono più celati, emerge la prugna e la confettura di ciliegie, si aggiungono cuoio e tabacco, liquirizia, leggero chiodo di garofano. In pratica ho di fronte un vino maturo ma non stanco, testimoniato anche dall’affiorare di sfumature di arancia rossa, forse non tutto è perduto.


Bene, assaggiamolo… tenendo conto che è stato coricato nella mia cantinetta a temperatura di 12-13 gradi, mi sembra comunque abbia tenuto meno di altre bottiglie, perché anche al palato la sensazione è piuttosto incerta, le note evolute sono evidenti e stonano con un tannino ancora aggressivo, virile stile Serralunga. Sembra come se non sia riuscito a trovare la quadra, passando progressivamente alla terza età senza averne acquisito la saggezza.
Che dire, non è certo da buttare ma mi aspettavo di meglio, non credo abbia ulteriori chances future, del resto non sempre tutto può andare al meglio e noi IGP diciamo sempre la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, è questa la nostra garanzia.

Monte Bernardi - Chianti Classico Retromarcia 2020


di Roberto Giuliani

Biologico, biodinamico, lieviti indigeni, solforosa bassissima, Michael Schmelzer lo vuole così. 


E c’ha ragione! Eleganza tradotta in viola, rosa, ciliegia, arancia, anice, cannella; sorso dalla trama perfetta, fresco e succoso, delicati rimandi speziati, giovanissimo, buonissimo, chiantigianissimo.

Vinchio Vaglio - Barbera d’Asti Vigne Vecchie 50°


di Roberto Giuliani

Sessantaquattro anni fa nasceva la cooperativa frutto degli sforzi di 19 pionieri residenti in due piccoli Comuni dell’Alto Monferrato, in provincia di Asti: Vinchio (Vinch” o “Vens” o “Vèins” in piemontese) e Vaglio Serra (“Vaj”), collocati fra la Val Tiglione e la Valle Belbo e così vicini tra loro da poter essere raggiunti a piedi (quattro chilometri).


Sforzi veri, perché le rivalità, le faide interne non mancavano, per questo la cooperativa è nata per tentare di porvi fine, unendo più viticoltori possibili di ambo le parti, per raggiungere l’obiettivo comune di produrre vino di qualità e dare più regolarità economica. Oggi la Vinchio Vaglio conta su quasi 200 soci ed oltre 400 ettari vitati, nei quali il vitigno principale è la barbera. Gran parte delle vigne si trova proprio intorno ai due Comuni fondanti, la restante in quelli limitrofi di Castelnuovo Belbo, Castelnuovo Calcea, Cortiglione, Incisa Scapaccino, Mombercelli e Nizza Monferrato. Non di rado si tratta di appezzamenti impervi, con forti pendenze, che rendono il lavoro tutt’altro che facile.


I terreni intorno ai due Comuni sono differenti, a Vinchio sono argilloso-calcarei, più sabbiosi nella parte occidentale, mentre nel versante sud di Vaglio Serra che guarda a Nizza Monferrato, sono molto argillosi con venature di terra rossa.


Per farvi capire quanto la qualità sia ricercata, le rese per pianta vanno da 1,5 a 2 chilogrammi, non so quante altre cantine sociali producano in modo così contenuto. Inoltre la cooperativa adotta un’agricoltura sostenibile: impianti fotovoltaici, riciclaggio e selezione dei rifiuti, implementazione di aree verdi, riqualificazione dei percorsi all’interno della Val Sarmassa.


La Barbera d’Asti Vigne Vecchie 50° 2020 è nata in occasione del raggiungimento del mezzo secolo della cantina (1959-2009), infatti esiste già una Barbera Vigne Vecchie, ma è Superiore e affinata in barrique (tranquilli, l’enologo Giuliano Noè sa il fatto suo con i piccoli legni), mentre questa ha visto solo acciaio e cemento. Ammetto che è la versione di Barbera che continuo a preferire, pur riconoscendo gli sforzi fatti nell’Astigiano per “elevarla” a qualcosa di più complesso e profondo, del resto è giusto così, se il vino italiano non mantenesse viva la sperimentazione e il rinnovamento, perderebbe sicuramente grosse fette di mercato.


Già nel calice è evidente che il colore rubino vivo non è carico, concentrato, ma mantiene una bella luminosità, il ventaglio di profumi punta soprattutto ad esaltare il frutto, ricorda proprio la classica Barbera di un tempo, diretta, succosa, con acidità vibrante, ma con in più un livello tecnico e una conoscenza che consentono di esaltarne tutte le caratteristiche al meglio.


Tanta ciliegia, ma anche cenni di mora e marasca, poi erbe aromatiche, una punta di pepe; il sorso rivela una trama dove l’acidità è elemento portante, il frutto è maturo al punto giusto, non manca di spinta sapida, si beve con gran piacere nonostante la gradazione sia di ben 14,5% vol., ma bevuta a 15 gradi non te ne accorgi proprio. Il prezzo poi è decisamente invitante, tra i 12 e i 13 euro…

InvecchiatIGP: La Colombera – Colli Tortonesi DOC Timorasso “Vigna del Montino” 2013


Con Elisa Semino ci conosciamo da tanto tempo, sicuramente da oltre quindici anni perché tanto è passato da quel mio primo viaggio a Tortona alla scoperta del Timorasso che, allora, era ancora un (grande) vino poco conosciuto legato sostanzialmente alle tre grandi M del territorio: Massa, Mariotto e...Montébore.


Se non ricordo male fu proprio Walter Massa a parlarmi per la prima volta della Colombera e a portarmi a Vho, frazione di Tortona, dove mi presentò una giovanissima Elisa Semino, enologa ed allieva di Attilio Scienza, che assieme a papà Piercarlo e al fratello Lorenzo, qualche anno prima, aveva ripreso in mano l’azienda vitivinicola di famiglia puntando tutto sul recupero e lo sviluppo del Timorasso le cui grandi potenzialità erano ben note.

Elisa e il suo timorasso

Elisa, dalla sua prima bottiglia di Derthona commercializzata nel 2000, ne ha fatta tanta di strada, un percorso che, oggi, ha portato lei e la sua famiglia a condurre in maniera organica circa 25 ettari di vigneto (15 a Vho e 10 a Sarezzano) piantato su suoli che caratterizzati da tessiture franche argillose e da alternanza tra strati di arenaria e marne.

Vigneto a Sarezzano

Questa terra geologicamente antica, costituita dai sassi bianchi del Tortoniano, lo stesso suolo delle Langhe, conferisce caratteristiche inimitabili alle uve che l’azienda coltiva da oltre 60 anni: barbera, croatina, cortese e gli autoctoni nibiö e timorasso.


Ho avuto la fortuna di ritrovare Elisa Semino a Roma qualche tempo fa durante la presentazione delle ultime annate dei suoi vini e, come sempre accade in queste occasioni, è “scappata fuori” anche una vecchia annata del Montino che in etichetta riportava il millesimo 2013.


Proveniente da un unico vigneto coltivato a 250 metri s.l.m. su terreni argillosi chiari e scuri, questo vino non fa altro che confermare le enormi potenzialità evolutive del timorasso che al bicchiere si presente di un luminosissimo giallo dorato. Al naso offre uno sviluppo aromatico intenso dove ritrovo quasi una mineralità renana a cui seguono eleganti effluvi di agrumi, zafferano, erbe aromatiche disidratate ed acacia. 

Il colore de Il Montino 2013

Un compendio di profumi che ritrovo anche al sorso dove è più tangibile la capacità di questo vino di sviluppare complessità intriganti che il tempo non può far altro che esaltare grazie ad un equilibrio che, man mano, Il Montino tende a perfezionare bilanciando costantemente la sinergia tra alcol e massa acido-sapida del vino.

Vigneto Il Montino

Ad Elisa, perciò, va tutto il mio ringraziamento perchè, nonostante le difficoltà di questi anni, continua a mantenere alte le tradizioni di famiglia.

Terre Di Balbia - Calabria Rosso IGT Fervore 2018


La provincia di Cosenza sta diventando uno dei distretti vitivinicoli più dinamici del Bel Paese grazie al vitigno Magliocco che Giuseppe Chiappetta, vignaioli di Terre di Balbia, vinifica in purezza regalando un vino che ha lo scatto, la personalità e la purezza territoriale dei grandi vini rossi italiani.



Cantina Tollo – Cerasuolo d’Abruzzo Dop “Hedòs”


Più giro per cantine sociali più mi accorgo, rispetto a qualche anno fa, che la situazione delle aziende cooperative vitivinicole italiane sta costantemente migliorando sia a livello produttivo sia, soprattutto, dal punto di vista economico-sociale visto che queste strutture, per i soci, stanno divenendo una importante fonte di reddito che impedisce agli abitanti locali – e in particolare ai giovani – di spostarsi altrove per cercare migliori opportunità.


Tra i vari esempi virtuosi che posso fare in Italia, l’abruzzese
Cantina Tollo è sicuramente la realtà che negli ultimi tempi sta compiendo passi da gigante grazie ad una serie di progetti, come quello chiamato “Vigneto Avanzato”, che ha introdotto una remunerazione per i soci (azionisti) basata su ogni ettaro lavorato e non su ogni quintale prodotto, stabilendo così un radicale cambiamento di filosofia di produzione che vede ogni azionista, circa 620 soci che gestiscono 2500 ettari di vigneto, parte integrante della cantina che si gioverà, al contempo, di un miglioramento costante della qualità della materia prima prodotta.


Il buon livello della produzione di Cantina Tollo lo si può percepire chiaramente degustando i suoi vini più rappresentativi come, ad esempio, l’Hedòs, il suo classico ed intramontabile Cerasuolo d’Abruzzo Dop (100% montepulciano) che proprio quest’anno ha celebrato le venti annate prodotte attraverso la creazione, tra l’altro, di una nuova etichetta dotata anche di codice braille.


L’
Hedòs 2022 me la sono bevuto una sera a cena a Palazzo Ripetta, a Roma, e fin da subito, mettendo il naso nel bicchiere, mi ha ricordato perché è uno dei miei rosati abruzzesi preferiti visto che evoca fragranze di gelatina di ribes, rapa rossa, melagrana, confettura di rose, muschio e toni di erbe aromatiche. Al gusto conquista per personalità associata ad una beva fresca e spensierata perfettamente sintonizzata al naso. Davvero un vino appagante che, a mio giudizio, rappresenta un perfetto compendio del lavoro di Cantina Tollo per il suo territorio.

InvecchiatIGP: Ca’ Lojera - Lugana 2004


di Lorenzo Colombo

Conosciamo Ambra Tiraboschi da ormai molti anni, l’avevamo incontrata assieme alla figlia Alessandra in occasione di un evento dedicato al vino svoltosi su un battello in navigazione sul basso Lago di Garda, se non ricordiamo male si trattava di Calici di Stelle, la manifestazione, organizzata dal Movimento Turismo del Vino che si svolge da molti anni la sera del 10 agosto. Frequentavamo la zona del basso Lago di Garda da molti anni, dalla metà degli anni Settanta ed avevamo già assaggiato la maggior parte del Lugana prodotti – ricordiamo a tal proposito quello allora assai in voga, il Visconti Collo Lungo- ma non conoscevamo l’azienda Ca’ Lojera, da poco nata e di proprietà di Ambra e Franco Tiraboschi.


Fatto sta che durante la serata ci troviamo casualmente -mia moglie ed io- al tavolo con Ambra ed Alessandra, si chiacchiera, si parla di vino ed assaggiamo il loro Lugana che ci piace molto. 
Facciamo presente che frequentiamo la zona da molti anni ma che non conoscevamo né azienda né vino e ci ripromettiamo di fare una visita in azienda quanto prima. Da allora ne è nata un’amicizia, anche se negli ultimi anni, non frequentando più spesso il Garda ci si è un poco persi di vista.


L’azienda Ca’ Lojera nasce nel 1992, prima d’allora Franco Tiraboschi era un produttore d’ortaggi oltre che d’uva ed Ambra s’occupava di tutt’altro, ma da quell’anno il focus diventa il vino, con produzione propria. 
Da allora ne è passata d’acqua sotto i ponti, Ca’ Lojera è da tempo un marchio conosciuto e la qualità dei suoi vini, soprattutto i Lugana, è attestata dai numerosi riconoscimenti da parte di tutte le guide enologiche.


La cantina si trova a Rovizza di Sirmione mentre gli uffici ed il wine shop sono situati a Peschiera del Garda, il Località San Benedetto. 
Dai 20 ettari di vigneti si ricavano annualmente circa 160.000 bottiglie, non solo di Lugana (anche Superiore, Riserva e Spumante), ma anche di altri vini sia bianchi (da uve Chardonnay), che rossi (Merlot e Cabernet) che rosa.

Il focus aziendale rimane comunque il Lugana.


Il vino che abbiamo assaggiato per la rubrica InvecchiatIGP è un semplice Lugana, semplice nel senso che non si tratta né di Superiore né di Riserva, un vino d’annata, come suol dirsi, non concepito certamente per essere degustato a vent’anni dalla vendemmia, anche se i Lugana sono ben noti per la loro longevità.


Abbiamo aperto la bottiglia -frutto quasi certamente di una delle nostre prime visite in azienda - con una certa titubanza, avendo avuto cura di prepararne un’altra – di un vino rosso - nel malaugurato, ma possibile, se non probabile, caso di vino difettoso o ormai a fine carriera, ma così non è stato.


Il tappo è fuoriuscito intatto, senza alcuna fatica, bagnato per circa un terzo della sua lunghezza (la bottiglia è sempre stata conservata coricata), nel bicchiere abbiamo trovato un vino dal color giallo dorato, intenso e luminoso, molto bello.
Non molto intenso al naso, un poco chiuso, timido diremmo, con nessun evidente, seppur minimo, segno d’ossidazione, non male come inizio.


Man mano emergono leggeri sentori di frutta secca (nocciole e noci) e di fiori secchi e qualche leggerissimo accenno idrocarburico, sbuffi d’arancio completano il quadro olfattivo. Sapido ed asciutto alla bocca, integro, con leggere note di nocciole e di mela matura e qualche lieve sensazione tannica, col tempo cogliamo alcune note di distillato di mele, la vena acida (arancio maturo) gli dona ancora freschezza, la nota alcolica è ben presente mentre il corpo invece appare un poco magro al contrario della persistenza, in questo caso lunghissima.

Cosa voler di più da un vino con quasi vent’anni d’età? 

Quinta de Gomariz - Vinho Verde Doc Loureiro 2022


di Lorenzo Colombo

Il Vinho Verde può essere prodotto nella regione del Minho (nord del Portogallo) con oltre una quarantina di vitigni sia bianchi che rossi.


Il vino degustato prodotto con uve Loureiro è caratterizzato da una notevole freschezza agrumata e da una bassa gradazione alcolica il che lo rende adattissimo ad un consumo estivo.