InvecchiatIGP: Petrolo - Torrione 1996


di Lorenzo Colombo


L’azienda Petrolo si trova in quella zona, la Val d’Arno di Sopra, già identificata nel 1716 dal Granduca Cosimo III come uno dei quattro territori inseriti nel suo famoso editto che andava a proteggere le zone ritenute di pregio per la produzione di vino, in compagnia di Chianti, Carmignano e Pomino. Oltre un secolo dopo, la vocazione di questo luogo veniva confermata dall’agronomo Giorgio Perrin che celebrava le qualità del Sangiovese di Campo Asciutto (l’attuale Bòggina).


La Tenuta, che prende nome dalla località dov’è situata, nel comune di Bucine (AR), venne acquistata negli anni ’40 del Novecento dalla famiglia Bazzocchi e si sviluppa su 31 ettari vitati situati tra i 250 ed i 350 metri d’altitudine su suoli composti da galestro, alberese ed arenaria.


I vigneti sono suddivisi in numerose parcelle, spesso di piccole dimensioni, alcune delle quali messe a dimora diversi anni fa, come appunto il Bòggina, impiantato nel 1947 da Gastone Bazzocchi, o come il Lecceta, che ha oltre 60 anni d’età, mentre altri sono molto più recenti, come il Lago, impiantato nel 2000.
Si tratta di parcelle specializzate, nelle quali solitamente è impiantato un singolo vitigno destinato alla produzione di uno specifico vino.


I vini prodotti sono sette, tra questi curiosamente spiccano tre versioni del Bòggina, chiamati Bòggina A (affinato in anfora), Bòggina B (ovvereo un vino bianco prodotto con uve Trebbiano) e Bòggina C, ovvero il primo, da uve Sangiovese.


Il Torrione nasce come Igt Toscana nel 1988, si tratta di un vino fortemente voluto da Lucia Bazzocchi Sanjust che per la sua realizzazione ha chiesto aiuto a chi più di tutti ne capiva di Sangiovese, ovvero Giulio “Bicchierino” Gambelli. Il vino viene prodotto assemblando le uve provenienti dalle diverse vigne di Petrolo, vi troviamo infatti il Sangiovese di Bòggina e dei vigneti Casariccio, Asilo e Campaccio, il Merlot di Galatrona ed il Cabernet sauvignon di Campo Lusso. Nel tempo la sua identità è cambiata, ora infatti si fregia della denominazione Val d’Arno di Sopra e la sua composizione è data da 80% Sangiovese, 15% Merlot e 5% Cabernet sauvignon.


Le uve, come sopra accennato, provengono dagli storici vigneti aziendali, quelli messi a dimora negli anni ‘70, ma anche da vigne più recenti, la vinificazione avviene in vasche di cemento tramite lieviti indigeni mentre l’affinamento s’effettua in vasche di cemento, botti di grandi dimensioni (40 hl), tonneaux e barriques francesi, dove il vino sosta dai 15 ai 18 mesi.


Il vino di presenta con un color granato con unghia aranciata, leggerissima la sua velatura. Buona l’intensità olfattiva, pulito e ancora fresco, complesso, ampio, elegante, frutta rossa dolce quasi in confettura, cuoio, sottobosco, humus, potpourri, note balsamiche, accenni di spezie dolci, sbuffi pepati, liquirizia, carrube e leggere note di caffè liofilizzato. Asciutto, dotato di buona struttura, trama tannica importante, buona la vena acida, liquirizia dolce, tamarindo, accenni di radici, amarena un poco asprigna, confettura di prugne, lunghissima la sua persistenza.

Cantina Pedres - Cannonau di Sardegna Rosato “Brino Rosé” 2021


di Lorenzo Colombo

Da vigneti situati sui suoli granitici della Gallura provengono le uve di Cannonau per la produzione di questo vino dal color salmone che fa della freschezza e della sapidità i suoi punti di forza.


Succoso, agrumato, con un accenno di macchia mediterranea e leggere note di mela si lascia bere che è un piacere.


Alla scoperta del Muscadet e dei Crus Communaux del Muscadet Sèvre et Maine


di Lorenzo Colombo

Situato nel Pays Nantais, il Muscadet vanta quattro diverse Appellations: Muscadet, Muscadet Côtes de Grandlieu, Muscadet Coteaux de la Loire e Muscadet Sevre et Maine. Tuttenel loro insieme, vantano una superficie vitata di 6.400 ettari ed una produzione annuale complessiva di 136.600 ettolitri di vino.


Le AOC

Aoc Muscadet

Appellation regionale, è situata all'estremità occidentale del vigneto della Valle della Loira, la superficie vitata è di 1.660 ettari, il produttori sono 330 e la produzione media annuale è di 10.500.000 bottiglie. I suoli appartengono al Massiccio Armoricano, vi si trovano rocce eruttive con struttura molto varia, principalmente gneiss, micascisti, gabbro, anfibolite e granito in misura minore.


Il clima in genere è di tipo oceanico temperato, con precipitazioni ben distribuite durante l’arco dell’anno, le varie sfumature climatiche dipendono dalla distanza dei vigneti dall’oceano e dalla Loira.

Aoc Muscadet Côtes de Grandlieu

Situato a sud-ovest di Nantes, nei pressi del lago Grandlieu, si sviluppa su 220 ettari nel territorio di 19 comuni, i produttori sono 40 mentre le bottiglie prodotte annualmente sono circa 1.100.000. 



I suoli sono a grandi linee come quelli dell’Appellation regionale, ovvero rocce eruttive, principalmente gneiss, micascisti, rocce verdi e in minor misura granito, in alcune zone queste rocce sono sovrapposte da sabbie e ciottoli. Anche il clima è simile a quello dell’Aoc Muscadet con piccole variazioni nelle zone prospicienti il lago.

Muscadet Coteaux de la Loire

Il Muscadet Coteaux de la Loire si trova nella regione di Ancenis, a Nord-Est di Nates ed i suoi vigneti sono situati sulle due rive della Loira.


Gli ettari vitati sono 130 suddivisi tra 35 produttori e la produzione annuale è di 750.000 bottiglie I suoli derivati dalle rocce del massiccio armoricano sono principalmente costituiti da gneiss, micascisti, rocce verdi ed in minor misura da granito. Il clima è temperato oceanico con precipitazioni ben distribuite nel corso dell'anno. Piccole variazioni di clima dipendono principalmente dalla vicinanza o meno dei vigneti con il fiume Loira. All’interno della denominazione c’è il Cru Communal Champtoceaux.

Muscadet Sèvre et Maine

Il nome dell’Aoc deriva dai due fiumi che l’attraversano, la Sèvre Nantaise ed il Maine. Si tratta della denominazione più grande ed i suoi 6.000 ettari di vigne, suddivisi tra 410 produttori, s’estendono sul territorio di 20 comuni a Sud-Est di Nantes, la produzione annuale è di 32 milioni di bottiglie. Il suolo, derivante dal massiccio armoricano è principalmente costituito da gneiss, micascisti, rocce verdi e granito in minor misura, mentre il clima è simile a quello di tutte le Aoc Muscadet.


Questa denominazione s’avvale inoltre di dieci Crus Communaux: Goulanie, Le Pallet, Mouzillon Tillières, Château-Thébaud, Gorges, Monnierès-Saint-Fiacre, Clisson, La Haye-Foussière, Vallet e Champtoceaux che nel loro insieme coprono una superficie di circa 200 ettari. 


I vini che s’avvalgono di queste denominazioni comunali debbono sottostare ad un disciplinare di produzione più stringente rispetto ai “semplici” Muscadet Sèvre et Maine, è infatti previsto un periodo di sosta sui lieviti “Sur Lies” più prolungato, che comunque differisce tra i diversi Crus.

Il vitigno

Il vitigno principe delle Aoc Muscadet è il Melon de Bourgogne, originario, come dice il suo nome, della Borgogna e migrato nel corso degli anni verso la costa.
Si tratta di un incrocio tra Gouaus Blanc e Pinot Noir e diffuso nella Loira Atlantica nel XVIII secolo dagli olandesi.



Si tratta del vitigno a bacca bianca più diffuso nella Valle della Loira, precedendo, seppur di poco, il Sauvignon blanc e lo Chenin blanc (vedi figura), è un vitigno piuttosto vigoroso, occorre quindi, per ottenere buoni risultati, contenerne la produzione, nei Pays Nantais ha trovato sia un suolo come pure un clima ideale.
Nel 2018 se ne contavano 8.660 ettari, tutti praticamente nella Loira Atlantica.

Il Muscadet

La rinascita di questo vino, che ha vissuto un periodo di declino, dovuto alla sovraproduzione, ha inizio alla fine dello scorso millennio quando alcuni viticoltori dell’Aoc Muscadet Sèvre et Maine iniziarono a selezionare i vigneti più vecchi ed i migliori terroir e ad affinare i vini “sur lie” per un periodo più prolungato, spingendolo sino a 24 mesi, questo ha portato negli anni ad identificare i suddetti Crus Communaux.


A proposito della tecnica “sur lie”, ovvero l’affinamento dei vini sui propri lieviti, i disciplinari di produzione delle Aoc Muscadet Sèvre et Maine, Muscadet Coteaux de la Loire e Muscadet Côtes de Grandlieu prevedono una sosta sui lieviti obbligatoria di almeno sei mesi ma molti produttori si spingono ben oltre, arrivando per alcuni Crus ai 24 mesi, o addirittura ai 48 mesi. I “lies”, ovvero quelli che noi chiamiamo “fecce fini” sono i lieviti che hanno trasformato lo zucchero d'uva in alcol, dopo la fermentazione essi sono ancora molto utili, infatti il vino a contatto con loro acquisisce ricchezza, complessità e struttura, ma anche, cosa assai importante, una buona capacità di invecchiamento.


Durante il Press Tour Val de Loire Millésime abbiamo avuto la possibilità d’assaggiare oltre una trentina di Muscadet dei diversi Crus Communaux -alcuni dei quali con un buon numero d’anni sulle spalle- e di farci un’idea su questo vino purtroppo poco conosciuto e valorizzato in Italia e che meriterebbe maggior considerazione. Abbiamo trovato nel complesso vini molto buoni, sapidi fruttati e freschi nei loro primi anni di vita che diventano sempre più complessi col passare del tempo.

Ecco una selezione di quanto abbiamo maggiormente apprezzato, i vini sono elencati in ordine di gradimento.

Muscadet Sèvre et Maine Monnières St. Fiacre “L’Ancestrale” 2017 – Exploitation Véronique Gunther-Chereau

Bel naso, minerale, intenso, elegante e complesso, pietra focaia. Strutturato e succoso, accenni piccanti, molto lunga la persistenza.

Muscadet Sèvre et Maine Clisson 2018 – Domaine de la Vinconnière

Intenso, pulito, bel frutto, buona complessità. Sapido, fresco, di buona struttura e lunga persistenza.

Muscadet Sèvre et Maine Château Thebaud 2014 – Le Jardin d’Edouard

Bel naso, complesso ed elegante, leggere note idrocarburiche. Buona struttura, succoso e sapido, bella vena acida, note piccanti, lunga persistenza.


Muscadet Sèvre et Maine Clisson 2019 – Domaine de L’Epinay

Intenso, fresco e pulito, con un bellissimo frutto, pesca bianca. Elegante e succoso, bel frutto, buona la persistenza.

Muscadet Sèvre et Maine Goulaine 2018 – Vignoble Delaunay

Fresco ed elegante, buona intensità, bel frutto. Buona struttura, pesca gialla, leggere note piccanti, lunga la persistenza.

Muscadet Coteaux de la Loire Champtoceaux 2017 – Domaine des Galloires

Intenso al naso, complesso ed elegante, accenni d’idrocarburi. Buona struttura, succoso, frutto a polpa gialla, buona la persistenza.

Muscadet Sèvre et Maine Georges 2015 – La Tour Gallus

Pulito, frutta fresca, buona intensità, leggeri accenni d’idrocarburi. Succoso e strutturato, buon frutto, bella vena acida, lunga la persistenza.

Muscadet Sèvre et Maine Vallet 2018– Château du Cleray

Intenso, pulito e fresco, di buona complessità. Dotato di buona struttura, succoso, bella vena acida e lunga persistenza.

Muscadet Sèvre et Maine Clisson “Le Sillon des Braudieres” 2018 – Chereau Carré

Buona intensità bel frutto a polpa gialla, pulito. Fresco e succoso, buona eleganza, lunga la persistenza.

Muscadet Sèvre et Maine Mouzillon-Tillières 2018 – Domaine du Colombier

Bel naso, accenni d’idrocarburi. Fresco e succoso, bel frutto, lunga la persistenza.


Muscadet Sèvre et Maine Goulaine 2014 – Château Briace

Frutto giallo, leggere note vanigliate, accenni d’idrocarburi. Buona struttura, accenni piccanti, lunga persistenza.

Muscadet Sèvre et Maine Georges 2019 – Fief de la Brie

Bel naso, pulito, fresco ed elegante. Succoso, bel frutto, pesca gialla, accenni piccanti e lunga persistenza.

Muscadet Coteaux de la Loire Champtoceaux 2018 – Vignoble Marchais

Bel naso, intenso, complesso ed elegante, accenni d’idrocarburi. Buona struttura, sapido, frutto a polpa gialla, accenni nocciolati, lunga la persistenza.

Muscadet Sèvre et Maine "Château Thebaud" 2018 – Domaine Haute Fevrie

Bel naso, intenso, fresco, pulito, frutta a polpa bianca, accenni d’agrumi. Buona vena acida, accenni piccanti, frutta a polpa bianca, buona la persistenza.

Muscadet Sèvre et Maine Château Thebaud 2018 – Vignoble Famille Lieubeau

Bel naso, intenso, fresco agrumato, frutta a polpa bianca. Discretamente strutturato, succoso, bel frutto e buona persistenza.

InvecchiatIGP: Spadafora - Sole dei Padri 2003


di Stefano Tesi

Le cosiddette cene di gala che seguono le degustazioni e le anteprime dei vini sono vere e proprie armi di distrazione di massa per noi giornalisti. Quasi sempre finisce infatti che, tra strette di mano, rimpatriate, chiacchiere coi commensali, palato e concentrazione provati dagli assaggi precedenti e campioni che passano di tavolo in tavolo senza troppo riguardo, talvolta si presti poca attenzione a ciò che ti servono. E solo dopo, quando mettendo il bicchiere al naso e in bocca ti accorgi che stai bevendo qualcosa di notevole, ti rendi conto che la bottiglia si è perduta chissà dove, senza che tu ne prendessi nota. Ed è ormai irrecuperabile.


E’ esattamente ciò che mi è successo al Teatro Signorelli di Cortona, durante il convivio dopo l’anteprima del Cortona Syrah Doc 2023: arriva veloce il sommelier col vino in mano, annoto in fetta e furia il nome su un foglietto, con la coda dell’occhio colgo l’annata 2003, ho il cellulare in tasca, niente foto e proseguo la cena. Finita la pietanza, assaggio e resto folgorato: è eccellente!


Segue un’accurata annotazione delle caratteristiche organolettiche e l’affannosa quanto inutile ricerca della bottiglia.


Il colore è granato, un po’ opaco ma profondo, con accenni purpurei. Al naso emerge a sorpresa vivo e rotondo, vigoroso, perfettamente integro, col frutto ben presente e quasi croccante, che si dilata in una lunga scia di sentori cangianti di spezie, tra accenni balsamici e dolci, poi perfino torbati e muschiati. In bocca colpiscono l’eleganza, la profondità e la lunghezza, che danno vita a un sorso avvolgente, con un finale quasi sapido e un’appagante sensazione di equilibrio. Da bere e ribere, insomma.


Il mio approccio con il "Sole dei Padri 2003", Syrah 100% da un’unica vigna a 450 metri di altitudine, pluripremiato vino dei Principi di Spadafora, azienda biologica in quel di Virzì (Palermo), è stato questo. Lo avevo già assaggiato in passato, ma certamente non di quest’annata remota. Che il produttore inserisce non a caso, e vende, tra le “storiche”.


“Il Sole 2003 è figlio di due momenti diversi”, mi spiega Francesco Spadafora, che ho contattato in seguito. “O meglio, di due momenti di raccolta diversi. Le mie note dell’epoca mi dicono che la prima fu il 22 agosto e la seconda il primo settembre, mentre il diradamento dei grappoli avvenne intorno al 20 luglio. Come si capisce dal periodo, e me lo ricordo bene, non fu un’annata particolarmente calda, anzi rammento che non si riuscì a raccogliere un Cabernet decoroso proprio perché, poi, piovve molto.


Il lavoro in vigna fu, come oggi, quasi scientifico: tutti i grappoli alla stessa altezza ed equidistanti tra loro, con pari luce ed ombra, così che potessero maturare bene. Quindi lavoro di forbici sul grappolo per accorciarne i baffi e la parte terminale, se era troppo allungata. Il grado babo al momento della raccolta era sui 22, perché la zona permette di avere sia alcol che freschezza e quindi preferisco sempre avere un’uva matura: non aggiungendo solforosa, ho bisogno di avere tanti polifenoli e tannini che fanno vivere la fermentazione in un loro mondo. A metà fermentazione ed a distanza di due giorni tra loro, faccio del delestage in modo che tutto il liquido attraversi la buccia, la quale macera per 15 giorni. Viene utilizzato solo lo sgrondo, così da poter separare la parte pigiata tranne la primissima. La vinificazione avviene in vasca di cemento, così come la malolattica. A quel tempo utilizzavo barrique da 225 litri e di primo e secondo anno, dove il vino è rimasto per ventiquattro mesi. 


Del resto, quando faccio un vino - conclude - non so mai quanto sia destinato a durare davvero, ma nel caso del Sole dei Padri so sempre di avere delle buone garanzie di longevità, perché le uve stanno a oltre 400 mt di altitudine ed esposte a nord, su una terra sabbiosa. Col Sole dei Padri ricordo infatti di avere partecipato a tante degustazioni alla cieca e ho sempre scoperto, con una certa meraviglia, che spesso risulta un prodotto non ricondotto a una terra considerata calda come la nostra. Credo ciò sia dovuto all’idea dominante, ma errata, che in quest’isola si abbia un solo clima e un solo terroir”.

Podere La Madia - Vigna Cafaggio Bianco Toscano 2019


di Stefano Tesi

E’ un lustro che assaggiai per la prima volta questo vino bio da Malvasia bianca lunga ritrovata in una vigna del 1945. Ed è passato un lustro da quando da Carlo Crocchini è mancato. 


Riassaggiarlo è stata un’emozione doppia. E una doppia conferma: da passarci ore, bicchiere in mano. Bravi Lucia e Giacomo.

Being Valdarno di Sopra DOC


di Stefano Tesi

Per una volta, anziché di vino, parliamo di produttori e del loro state of mind. Mi riferisco a quelli della Doc Valdarno di Sopra che lo scorso 16 maggio, al Borro dei Ferragamo, hanno dedicato una giornata a se stessi per spiegare al mondo e alla stampa, italiana e non, chi sono, che fanno e in che direzione vogliono andare. Oltre che, ovviamente, per far loro assaggiare i vini.


E’ stata una conferenza istruttiva, perché ha inaugurato una sorta di modo nuovo di fare non solo comunicazione, ma anche politica vinicola. O addirittura marketing politico, calibrato su una gittata esplicitamente ultranazionale. Forse un po’ autoreferenziale, come ha osservato qualcuno? Ma chi è che non è autoreferenziale, diciamo pure aziendalista, nel modo del vino? E i valdarnesi lo sono stati in maniera brillante.


Le strategie consortili - questo in sintesi il messaggio mandato all’uditorio dal presidente Luca Sanjust e dal direttore Ettore Ciancico nel passare la parola a un nutrito parterre di critici, enologi, meteorologi, funzionari, assessori, deputati europei, professori universitari e rappresentanti di Federbio, Slow Food e d.o. Cava - si muovono su quattro binari convergenti e coordinati tra loro, per trasmettere un segnale di massima coesione: l’esaltazione dell’identità territoriale, l’unicità anche climatica del comprensorio, la scelta dell’unità di vigna, con relativa dicitura in etichetta come strumento di valorizzazione dello stesso e, infine, la scelta di un biologico a 360°. Nel senso cioè di obbligatorio per tutte le aziende, erga omnes.


Un punto, quest’ultimo, talmente centrale nel progetto da essere pienamente condiviso, appunto, anche dalle imprese non consorziate. Ma finora respinto dal ministero, che ha negato la modifica del disciplinare. Questione che ha dato adito anche a qualche polemica. Chiamata in causa, la funzionaria del Mipaaf Roberta Cafiero ha sottolineato come, a livello normativo, nonostante il favorevole precedente del Cava spagnolo, la strada non è facile: “Non perché non sia virtuosa l’idea, che condividiamo, ma perché la Denominazione di Origine è una denominazione di prodotto, mentre quella del biologico è una certificazione di metodo e metterle entrambe come condizioni obbligatorie non è normativamente semplice”, ha detto. Nell’attesa, c’è stallo. Ma proprio a rimarcare la determinazione dei produttori a proseguire su questo indirizzo è stato presentato il logo della nuova associazione “Produttori VigneBio Valdarno”, che riunisce tutti i vignaioli già in regime bio: “Uno strumento di ulteriore rafforzamento per il nostro messaggio – ha affermato Sanjust – che siamo convinti ci aiuterà ad inserire il biologico in disciplinare, come desiderato e richiesto da tutti”.


Non secondario però, tra i messaggi lanciati dal Consorzio, nemmenoquello di non introdurre in etichetta sottozone tipo MGA o UGA, ma la sola indicazione “Vigna” con riferimento alle migliori vigne aziendali selezionate in base a clima, esposizione e qualità delle uve. “Il consumatore sta cambiando ed è diverso ad esempio in Usa e Asia, ma la voglia di conoscere da quale vigna viene una certa bottiglia, soprattutto per i più evoluti e che cercano vini di alto valore, sta diventando sempre più importante”, ha affermato Jeffrey Porter, responsabile per l’Italia di “Wine Enthusiast”.

Luca Sanjust - Presidente della DOC

Sia chiaro: non tutte le argomentazioni espresse al Borro mi sono parse sempre condivisibili, ma sono suonate senza dubbio coerenti con una strategia organica e ben concepita. Orientata esplicitamente anche sul versante ampelografico, considerata l’asserzione, certo non casuale, che proprio il Valdarno di Sopra sarebbe la zona di eccellenza, una sorta di sezione aurea per la produzione del vitigno toscano per eccellenza, il Sangiovese.


Solo il tempo potrà dire se tanta determinazione sarà sufficiente a portare l’immagine del Consorzio al livello considerato, ma l’unità di intenti non è da sottovalutare. Nelle more, parlano i vini. E la domanda sorge spontanea: sono loro che esprimono il territorio o è il territorio che esprime loro? Un quesito che gli assaggi delle etichette dei sedici produttori presenti in degustazione rende particolarmente vibrante.

De Zhuang e la scoperta dell'hotpot migliore di Roma


Frequentando spesso Quartino ed Astemio Wine & Food, due wine bar di Roma situati nel quartiere multietnico dell'Esquilino, Marco Wu, proprietario dei dei due locali e neo ambasciatore di Beviamoci Sud Roma, mi ha sempre spinto ad andare a trovare due suoi cari amici che da qualche tempo avevano aperto un fantastico hotpot a due passi da Piazza Vittorio. Alla sue perseveranza ho sempre bleffato facendo finta di sapere cosa sia un hotpot e la mia faccia tosta è andata avanti finchè, finalmente, non sono passato per la prima volta a visitare De Zhuang dove Giorgia Chen, figlia di ristoratori cinesi ma è cresciuta in Italia, è la grande padrona di casa.

Appena entrato la prima domanda che ho fatto alla giovane ristoratrice è stata proprio quella che tutti voi lettori vi aspettavate: "Giorgia, ma che cosa è l'hotpot?"

L’hotpot è una pentola di brodo bollente posta al centro del tavolo. Nasce come cucina povera dei marinai che nei porti trovavano ristoro con un buon piatto caldo, anche se questo significava riutilizzare gli scarti. Un concetto che oggi più che mai rientra nel tanto in voga ma soprattutto etico “no waste”. I pro dell’hotpot però a quanto pare si riversano anche nelle sue funzioni benefiche che, tramite i suoi brodi bollenti e talvolta piccanti, liberano il corpo dell’umidità trattenuta, soprattutto nelle stagioni calde.



Essenziale è però la pentola ed infatti nella piccola Cina di Via di San Vito a Roma è quella che va scelta per prima: con 1 o 2 gusti (piccante e/o dolce) o con 9 griglie che, realizzata nei tempi antichi, preservava in cottura la netta separazione dei sapori delle interiora degli animali. Si passa poi alla scelta del brodo: pomodoro e funghi porcini (ideale per un’esperienza orientale in pieno stile vegetariano), piccante e non.


Ed è questa la vera chicca dell’indirizzo romano: i 6 gradi di piccantezza fino ad un massimo di 75 gradi. Un’intensità di piccante data dall’olio del grasso animale, tutto fatto in casa, brevettato e registrato dalla casa madre come “Il grado di piccantezza del Signor Lu” - “Chi l’ha detto che il piccante si divide solo in basso, medio e alto?”.


Dopo questa spiegazione, Giorgia invita me e gli altri ospiti al tavolo perchè iniziamo a mangiare all'insegna della massima condivisione perchè cucinare e “pescare” dal piatto di qualcun altro, divertirsi, giocare con i sapori e scoprire, è il vero concept del locale.


A tavola la grande protagonista è la carne – sakura – di agnello o manzo e le interiora (coda e intestino di maiale, sanguinaccio) ma, per chi non gradisce, vi è anche una vasta proposta di pesce, verdura e pasta (spaghetti di soia, gnocchi con patate rosse cinesi) da accompagnare, se si vuole, a tante buonissime salse (satai, sesamo, ostrica, arachidi, soia, universale).


Il menù alla carta propone anche piatti già cotti (involtini, riso saltato con manzo o uova e ravioli) e dolci, a partire dalla gelatina con frutta cinese. Tante poi le bevande da accompagnare, birre e vino rosso ideali per contrastare il brodo caldo.


La sala, dagli spiccati arredi orientali e nei toni del rosso, ospita fino a 80 coperti distribuiti per 20 tavoli, tra i quali alcuni più riservati rappresentano la vera eccezione dello spirito dell’hotpot, nato invece, come già detto, per condividere.

Giorgia

Insomma da De Zhuang io mi sono davvero divertito e ho mangiato benissimo per cui il mio invito è quello di passare a trovare Giorgia il prima possibile perchè qua non c'è nulla di turistico e a Roma, credetemi, non è assolutamente scontato.

CONTATTI
Via di San Vito 15/16 Roma
TEL. 06 57297420
Aperto tutti i giorni a pranzo e a cena, tranne il martedì

InvecchiatIGP: La Scolca - Gavi Dei Gavi DOCG Riserva 'D'Antan' 2009


di Luciano Pignataro

Pregi e difetti di un paese anarcoide come il nostro: tutti a fare bollicine dalle Alpi alla Sicilia, dal Tirreno alla Ionio, con tutti i vitigni possibili e immaginabili. Siamo ben lontani dall’ordine cartesiano gallico anche se poi ritorna sempre nei nostri discorsi come esempio inimitabile, diciamo pure onirico. Intendiamoci, anche in Italia alcuni territori hanno raggiunto traguardi straordinari, ma l’aspetto più interessante per gli appassionati è anche scoprire le potenzialità che ciascun vitigno autoctono riesce poi ad esprimere con la spumantizzazione, meglio se con il metodo classico.


La Scolca percorre una strada autonoma da cento anni, dal 1919 per la precisione, molto prima che le bollicine e i vitigni autoctoni diventassero una moda o una tendenza dalla quale non si può prescindere. E diciamo la verità, se il Cortese ha raggiunto alti livelli espressivi è anche grazie alla perizia con cui Giorgio Soldati è riuscito, anno dopo anno, a dare valore a questo vitigno nel cuore di Gavi.


Parliamo della Gavi Dei Gavi DOCG Riserva 'D'Antan' 2009, provato di recente, ottenuto da uve selezionate con lieviti indigeni, lavorate in acciaio e messo in commercio in genere solo dopo dieci anni di affinamento (l’ultimo è il 2010). Colpisce in primo luogo la spettacolare complessità olfattiva che varia dalla dolcezza dei frutti esotici all’agrumato (cedro), in una piacevole cornice di note balsamiche e di leggere affumicature, ancora tostatura e zafferano, note di pasticceria. Perfetta la corrispondenza fra naso e palato dove prevalgono la sapidità (nessuna concessione alla dolcezza) e una freschezza incredibile e inaspettata che gratifica la beve e invoglia al sorso successivo. Stupendo il finale, preciso e pulito. Il vino è di buon corpo, il perlage fine e suadente, inarrestabile.


Una bellissima bottiglia che sintetizza bene l’incontro fra padronanza tecnica e le potenzialità di questi vigneti collinari, coltivati seguendo i principi della biodinamica, che rendono stupendo e ordinato il paesaggio.

Valdibella - Nero d'Avola "Respiro" DOC Sicilia 2020


di Luciano Pignataro

Libero dagli eccessi di legno, dalle surmaturazioni, da trucide estrazioni, il Nero d’Avola torna a respirare. I mezzi giustificano il fine? 


Era tempo che non bevevo questo rosso siciliano finalmente fresco con avidità senza stancarmi, la bottiglia finisce subito. Uno dei bei progetti della cooperativa che rispetta l’ambiente.

Elena Fucci e il suo Titolo alla prova del tempo


di Luciano Pignataro

Abbiamo seguito sin dalla nascita questa azienda del Vulture che ha segnato una svolta decisa nel territorio imponendo uno stile vincente, leggibile all’esterno e distensivo. In effetti, la maggior parte dei produttori di Aglianico chiede sempre un impegno mentale e uno sforzo palatale quando si approccia a questo vitigno austero che domina l’Appennino Meridionale e che ormai si affaccia sul Tirreno, sullo Ionio e sull’Adriatico con sempre maggiore insistenza.
Avete presente il senso di libertà quando si procede in controesodo, quando hai la strada vuota e di fianco ci sono lunghe file di persone che hanno deciso di fare tutti la stessa cosa allo stesso momento? Bene questa è la metafora che ben raffigura i vini di Elena Fucci.


Il padre insegnante era indeciso se vendere o meno la bella proprietà, si era in una fase di crisi nella quale non si vedevano prospettive, fu allora, siamo ai primi anni di questo millennio, che Elena decise di studiare Enologia a Pisa.  
Sin dalla 2004 il suo vino inizia a distinguersi subito dagli altri per la bevibilità, la capacità di risolvere i tannini, riuscire ad estrarre un buon frutto e regalare una piacevolezza immediatamente leggibile al vino. Una inversione di tendenza rispetto al modello imperante nel Vulture, e che sino a pochi anni prima era stato tale anche in Campania, di procedere a lunghe estrazioni, magari puntare anche su surmaturazioni, caricando oltre modo un vitigno che ha già tanto di suo.


Il Global Warming di questo ventennio ha poi favorito le aree più fredde, dove l’uva aveva difficoltà a raggiugere la piena maturazione e bisognava aspettare sino a novembre per la vendemmia esponendo il raccolto a gravi rischi.
Trentamila bottiglie da un vigneto complessivo di nove ettari a circa 500 metri su livello del mare, proprio alle falde del Vulcani che eruttò da sette bocche in maniera spaventosa circa 700mila anni fa lasciando tracce ben visibili di quel frullato geologico.

Solo da poco la produzione è stata diversificata, con un Aglianico lavorato in anfora e lo Sceg da vigne ultra settantenni salvate dall’abbandono proprio grazie a questo progetto. Sceg è una parola di derivazione albanese che indica il frutto del melograno, simbolo di fortuna e di speranza sin dall’antichità. Non dimentichiamo infatti che Barile è uno dei tre paesi (gli altri sono Ginestra e Maschito) nati con gli insediamenti degli albanesi in fuga dall’avanzata degli Ottomani. Tra gli ultimi nati, merita una citazione anche Titolo Pink.


L’occasione per tornare sulle storie di questa terra onirica e ancora tutta da scoprire è stata la degustazione organizzata al Maschio Angioino nel corso dell’ultima edizione di Vitigno Italia nel corso della quale Elena ha portato cinque annate più una.


TITOLO 2005

Procediamo dalla più antica che conferma quanto scritto sopra e, in genere, la forza dell’Aglianico che resta impassibile di fronte allo scorrere del tempo. Ancora fresco, di buon frutto croccante, lungo e piacevole nel finale

TITOLO 2006

Annata equilibrata e matura, il frutto si presenta integro, appena un po’ più maturo rispetto all’annata precedente. Il sorso è lunghissimo, la chiusura precisa e pulita.

TITOLO 2013

Facciamo un salto indietro di appena dieci anni e troviamo questo campioncino in ottima forma, pimpante, ricco di energia, con una buona acidità. Colpisce la sua grande bevibilità, Elena spiega che nel frattempo hanno leggermente cambiato il protocollo usando botti leggermente più piccole delle barrique. Sempre, comunque, in questo vino, legno e fritto sono perfettamente integrati.

TITOLO 2015

Bellissima annata che regala un vino integro, puro, leggero, equilibrato, dotato di grande verve, assolutamente al passo con i tempi. Anche in questo caso finale lungo e piacevole che invoglia a ripetere il sorso.

TITOLO 2020

Il vino prodotto durante i momenti difficili del Covid e delle chiusure, quando si viveva l’incertezza per il futuro. Anche questo, come i precedenti, coperto dai punteggi alti da parte di tutte le guide, un rating che porta Titolo sempre nella top 50 dei rossi più premiati d’Italia.

TITOLO 2017 in Magnum

Fuori degustazione, una magnum della 2017, annata sicuramente complicata e non facile da gestire, che però si presenta in ottima forma, con note di frutta fresca, rimandi basamici, buccia di arancia, appena un po’ di fumè. Al palato tannini setosi, buona acidità, chiusura lunga e piacevole.

CONCLUSIONE

Oggi Titolo è la risposta moderna agli eterni problemi dell’Aglianico: vini che vanno messi in cura dimagranti e lavorati acino su acido per cacciare vi le note verdi e amare sempre in agguato e pronte a guastare la festa. Un vino che può permettersi il lusso di costare un po’ di più per dare il giusto valore ad un lavoro interamente artigianale che oggi trova la sua celebrazione in una cantina perfettamente eco-compatibile che è diventata tappa obbligata per gli appassionati.

InvecchiatIGP: Collemattoni - Rosso di Montalcino 2013


di Carlo Macchi

Oramai il Rosso di Montalcino è un vino di cui si parla molto e su cui i produttori ilcinesi, con il consorzio in testa, stanno puntando.


L’idea è quella di un vino rosso giovane ma gagliardo, che presenti anche buone capacità di invecchiamento. Questa “versione” del Rosso di Montalcino sembra accettata da tutti ma in passato non è stato certo così. Si andava da rossi abbastanza leggeri e freschi a dei veri e propri Brunello travestiti da Rosso.
Questo Rosso di Montalcino 2013 fa sicuramente parte della seconda tendenza o forse (sto scherzando) è un Brunello che è stato etichettato come Rosso di Montalcino.


Certo è che dalla potenza olfattiva, dove ancora del buon legno deve essere completamente armonizzato e la nota balsamica e officinale è imperante ma mediata da fini note fruttate, ci si aspetta qualcosa di diverso e “di più” da un Rosso di Montalcino. Forse sarà merito anche dell’annata 2013, una delle poche fresche degli ultimi 10 anni, che mantiene in perfetta giovinezza la parte aromatica.


Al palato ritroviamo non solo freschezza ma una potenza importante con tannini adesso dolci ma presenti. Devo ammettere che in generale i vini di Collemattoni si esprimono meglio col tempo ma questo Rosso di Montalcino è ancora giovane e promette di rimanerlo per diversi anni. Se ne avete qualche bottiglia in cantina provate a stapparla tra cinque/sei anni e sono convinto che direte “Ma che bel Brunello!”