InvecchiatIGP: Benanti - Sicilia IGT Nerello Cappuccio “Il Monovitigno” 2002


di Lorenzo Colombo

Il vino che avevamo deciso d’assaggiare e d’inserire nella rubrica InvecchiatIGP di questa settimana era in realtà un altro e precisamente un Merlot dell’annata 2000 prodotto nella Brda, in Slovenia. Peccato che fosse abbiamo quindi optato per il Nerello Cappuccio di Benanti ma anche in questo caso il primo approccio col vino non è stato dei più esaltanti, infatti l’apertura della bottiglia è stata alquanto difficoltosa, con il tappo che s’è letteralmente sbriciolato facendoci presagire un altro vino deludente.

Ma non è stato assolutamente così, come potrete leggere più avanti.


Giuseppe Benanti, fondatore nel 1988 dell’Azienda Benanti e pioniere dei vini etnei ci ha lasciati ad inizio febbraio. Ci piace ricordalo degustando uno dei vini che per primo ha vinificato, l'IGT Sicilia Nerello Cappuccio.

Il vitigno

Il Nerello Cappuccio, che deve il suo nome alla particolare conformazione che assume la vite quando è allevata ad alberello e che ricorda un mantello (uno dei suoi sinonimi è per l’appunto Nerello Mantellato) è un vitigno tipico etneo.
Assai meno conosciuto e diffuso rispetto al Nerello Mascalese può entrare nella composizione dell’Etna Doc Rosso e Rosato per un massimo del 20%.
Considerato meno interessante qualitativamente rispetto al Nerello Mascalese ha visto la sua superficie vitata ridursi enormemente nel corso degli anni sino ai 125 ettari stimati nel 2016 (nel 1982 erano più di 7.500).
Nel passato non veniva quasi mai vinificato in purezza poiché si riteneva che i vini che se ne ricavano non abbiano una lunga tenuta nel tempo.


Di parere assai diverso è l’azienda Benanti, che per prima, sin dalla fine del secolo scorso lo produce in purezza inserendolo nella linea Il Monovitigno, seguito negli ultimi anni in questa scelta da diversi altri produttori.

L’azienda

L’azienda Benanti nasce nel 1988 ad opera di Giuseppe Benanti anche se già a fine Ottocento un suo omonimo avo produceva vino.


I Benati (nome successivamente tramutato in Benanti) giungono in Sicilia dalla natia Bologna nel 1734 inviati da Vittori Amedeo d’Aosta. Successivamente, nel 1935, Antonino Benanti forma un’azienda farmaceutica e, come sopra specificato, nel 1988 Giuseppe Benanti fonda l’azienda vinicola Tenuta di Castiglione sull’Etna che successivamente prenderà il suo nome. Nel 1990 escono i primi due vini, l’Etna Bianco Pietra Marina e l’Etna Rosso Rovittello. Dieci anni dopo la fondazione la Benanti diventa la prima azienda ad avere vigneti su tutti i versanti dell’Etna.
La storia della Benanti è costellata da successi e primogeniture, come ad esempio il primo Spumante Metodo Classico prodotto sull’Etna da uve Carricante e tutto quanto è ben descritto sul sito aziendale.

Salvino, Antonio col il papà Giuseppe

Attualmente l’azienda, gestita da Salvino e Antonio, figli di Giuseppe, dispone di 30 ettari di vigneti per una produzione annuale di poco superiore alla 200.000 bottiglie.

Il vino in degustazione

Le uve provengono dalla Contrada Cavaliere situata sul versante sud-ovest dell’Etna, nel territorio del Comune di Santa Maria di Licodia. Questa Contrada è caratterizzata dall’elevata luminosità, dalla costante ventilazione, dalle notevoli escursioni termiche e dalla minore piovosità rispetto ad altre zone etnee ed è quindi molto adatta per la coltivazione di Nerello Cappuccio.


Il vigneto si trova a 900 metri d’altitudine su suo suolo vulcanico, sabbioso e ricco di minerali, le viti sono coltivate a Cordone speronato con una densità di 6.500 ceppi/ettaro e danno una resa di 70 q.li/ha. La vendemmia s’effettua nei primi giorni d’ottobre, la fermentazione si svolge -con l’ausilio di lieviti autoctoni appositamente selezionati in vigna- in vasche d’acciaio dove il vino rimane a maturare per un anno prima d’essere imbottigliato ed affinarsi per altri sei mesi prima d’essere commercializzato. Questo però non è il caso del vino che andiamo a degustare, infatti nei primi anni di produzione il vino s’affinava in botti di rovere e l’enologo aziendale era l’allora poco conosciuto Salvo Foti.

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Il colore è granato profondo, leggermente velato con unghia che, data l’età, tende all’aranciato. La prima cosa che ci colpisce al naso è l’eleganza dei profumi, delicati, armonici e ben amalgamati, l’intensità olfattiva è abbastanza contenuta, vi cogliamo sentori di sottobosco, e frutta rossa dolce, note balsamiche e vanigliate, leggeri accenni speziati e di caffè.


Buona la sua struttura come pure l’intensità alla bocca, dove troviamo un vino delicato, dal notevole equilibrio gustativo, succoso, con un tannino morbido e ben fuso nell’insieme, con sentori di liquirizia e radici, cioccolato amaro e caffè e dalla lunghissima persistenza.

Tiefgang - Deutscher Qualitätswein Pfalz Riesling Troken “Kalkstein” 2019


di Lorenzo Colombo

Da uve provenienti dal Palatinato ecco un vino che, pur nella sua semplicità, esprime tutte le caratteristiche tipiche del vitigno, con netti sentori idrocarburici e note di frutta tropicale e d’erbe officinali (salvia).


Fresco e sapido alla bocca, dove, oltre ai sopracitati sentori s’aggiungono note d’agrumi.

Mirabella, non solo grandi Franciacorta!


di Lorenzo Colombo

Demetra” questo nome non ci era nuovo e così siamo andati a rivedere quanto avevamo scritto nel 2019, quando eravamo stati invitati in azienda in occasione della vendemmia per toccare con mano le prime fasi della lavorazione dell’uva (vedi) e così tutto c’è apparso più chiaro. Avevamo infatti già assaggiato questo vino in quell’occasione, a fine agosto, solo che allora era un Franciacorta Millesimato 2012, frutto di un blend tra Chardonnay (70%), Pinot nero (20%) e Pinot bianco (10%) affinato in bottiglia per un minimo di 55 mesi.


Quello presentato alla stampa lo scorso 23 febbraio, durante un pranzo presso la Cantina Piemontese, a Milano, è tutt’altra cosa, sempre di un vino spumante si tratta, però non si fregia della denominazione Franciacorta essendo prodotto esclusivamente con uve Pinot Bianco e questo non è consentito dal disciplinare della Docg che ne ammette un massimo del 50%.


Quella del Pinot bianco è un pallino di Mirabella, l’azienda infatti dispone di ben 12 ettari vitati con questo vitigno su un totale d’una novantina d’ettari presenti in tutta la Franciacorta. I primi impianti di Pinot bianco risalgono al 1981, due anni dopo la fondazione dell’azienda da parte di Teresio Schiavi, proveniente dall’Oltrepò Pavese e nel 2015 c’è stata la prima produzione di un Metodo Classico da sole uve Pinot bianco (ne scriviamo più avanti).


La scelta di puntare su questo vitigno a distanza di molti anni s’è rivelata vincente per diversi motivi, il primo è dato dal fatto che il riscaldamento globale influisce meno su quest’uva, rispetto allo Chardonnay, mantenendo un maggior livello d’acidità. Inoltre il Pinot bianco pare meno sensibile alle malattie della vigna, in primis flavescenza dorata e legno nero.


Su questo vitigno l’azienda Mirabella sta investendo e studiando, è stato infatti messo a dimora, lo scorso anno, un vigneto di 14 filari con diversi cloni di Pinot bianco di diversa provenienza innestati su portainnesto Kobler K5BB, resistente agli stress idrici e prossimamente saranno impiantate altre 200 barbatelle prodotte con marze provenienti dal vigneto Mirabella ed innestate dai vivai di Padergnone.
Solitamente, prima di scrivere in merito ai vini degustati dedichiamo alcune righe alla presentazione dell’azienda, in questo caso vi rimandiamo a quanto scritto qui e qui.

Il vino

Le uve provengono dal vigneto Mirabella, situato a Paderno Franciacorta, il sistema d’allevamento è il Sylvoz, con densità d’impianto di 3.000 ceppi/ettaro, l’età media delle vigne è di oltre 40 anni e la resa pe ettaro è di 70 q.li. La vendemmia viene effettuata nella prima quindicina d’agosto, dopo una spremitura soffice con una resa di circa il 50%, il mosto fermenta per la maggior parte (90%) in vasche di cemento ed il rimanente 10% in barrique usate, La sosta in bottiglia sui lieviti si protrae per almeno 24 mesi. L’annata, non riportata in etichetta è la 2020, mentre la sboccatura è stata effettuata nel 2022.


Nel bicchiere troviamo un vino dal color verdolino-paglierino luminoso. Mediamente intenso al naso, fresco, con sentori di frutta a polpa bianca e note d’agrumi. Spiccata la sua vena acida, sapido e verticale, di media struttura, con note citrine su una buona persistenza. Circa 10.000 le bottiglie prodotte.


Se il motivo dell’evento era per l'appunto la presentazione del (nuovo) Demetra, l’azienda però ci ha fatto degustare altri vini, iniziando con il Franciacorta Brut Rosé dell’annata 2018 -anche questa non dichiarata in etichetta- sboccato nel 2022. Anche quella degli spumanti rosé è un po’ il pallino di Mirabella, infatti ben il 20% dell’intera produzione aziendale, che s’aggira sulle 300.000 - 400.000 bottiglie anno (dipende dall’annata) riguarda questa tipologia. Frutto di un blend tra Pinot Nero (45%), Chardonnay (45%) e Pinot Bianco (10%) provenienti dai vigneti situati a Paderno Franciacorta, Passirano, Camignone e Provaglio d’Iseo s’avvale di un affinamento in bottiglia per almeno 30 mesi.
Bellissimo il suo color cipria scarico. Bello il naso, di media intensità, che presenta sentori di frutti di bosco. Cremoso e succoso alla bocca, sapido, presenta leggere note tostate e sentori di frutti di bosco, buona la sua persistenza. 


Abbiamo infine assaggiato due nostre vecchie conoscenze, ovvero il Pinot Bianco Brut Nature 2015 e il Franciacorta Chardonnay Brut Nature dello stesso anno.
Nostre vecchie conoscenze perché li avevamo già degustati nel 2019 in occasione dei 40 anni di fondazione dell’azienda (vedi), è stato quindi interessante riassaggiarli quattro anni dopo per verificarne l’evoluzione. Il Pinot Bianco si presenta con un color paglierino luminoso. Intenso al naso, verticale, si iniziano a percepire i sentori di mela, principio di un’evoluzione ossidativa, anche se ancora assai piacevole ed elegante. Cremoso alla bocca dove emergono sentori di frutta a polpa gialla, lunghissima la sua persistenza. Assai diverso da quando l’avevamo assaggiato la prima volta, più evoluto certamente, ma anche più complesso. Il tempo trascorso non l’ha assolutamente scalfito, anzi gli ha dato maggior personalità. 


Lo Chardonnay non ha avuto invece la stessa evoluzione, il colore è simile al precedente vino, solamente un poco più intenso. Al naso la mela appare più matura e si colgono accenni tostati. Cremoso al palato ma la nota ossidativa, seppur non ancora fastidiosa, è più evidente.

InvecchiatIGP: Fattoria di Bossi - Chianti Rufina DOC Riserva 1979


di Stefano Tesi

Anche al netto dell’innegabile fascino di una degustazione che avviene nel salone delle feste di uno dei più bei palazzi fiorentini, letteralmente a dieci metri da Palazzo Vecchio, e di proprietà di una delle più antiche famiglie della città, i marchesi Gondi, l’appuntamento con una verticale di alcune annate più iconiche dell’ultimo mezzo secolo di Villa Bossi era, durante le Anteprime Toscane, oggettivamente irrinunciabile. Anche perché il Villa Bossi è da sempre il vino-emblema di questa storica azienda del Chianti Rufina: era il 1878 quando Carlo Gondi - racconta oggi Gerardo, che sta raccogliendo dal padre Bernardo le redini della Tenuta - partecipò all’Expo di Parigi e vinse vari premi con questo rosso ricavato storicamente dal vigneto Poggio Diamante, messo a dimora dalla madre dello stesso Carlo.


Era invece il 1972, cinquant’anni fa, quando il pronipote Bernardo Gondi fece il suo ingresso da “capo” nelle grandi cantine sotto la villa, appartenente alla famiglia dal 1592. Dei dieci lustri trascorsi da allora, sono state scelte per la degustazione le annate 1979, 1982, 1992, 1997,2000, 2003, 2007, 2012, 2015, 2016 e 2018, tutte a loro modo espressive degli stili e delle mani che le hanno create.


Quella che però ci ha colpito di più per la sua integrità e per l’appeal che, lo ammettiamo senza vergogna, indubbiamente esercitano su di noi le bottiglie molto vecchie, è stata la prima, la remotissima 1979. Anche perché non è frequente assaggiare vini di 44 anni. “E’ un vino che feci da me”, rammenta Bernardo Gondi. “L’enologo arrivò infatti nella nostra fattoria sono nel 1984. Usammo uve di Sangiovese, Colorino ed altre presenti allora nella vigna. La fermentazione avvenne in tini di cemento, poi lo passammo per trentasei messi in botti di rovere. Si tratta di un’annata ritenuta molto buona, grazie a un’estate calda e asciutta con forti escursioni termiche”.


Nel bicchiere colpisce innanzitutto il colore, un rubino caldo ancora vivissimo. Come molti grandi vecchi, al naso il vino è cangiante e procede a ondate che assecondano il trascorrere dei minuti, sempre però mantenendo una grande finezza: è elegante, con note di caffè che si evolvono in sentori mentolati e quasi balsamici, accenni di terriccio, echi di alloro e qualcosa di salmastro.


Al palato è profondo e seducente, con una sapidità esplicita che lo rende lunghissimo e gioca sull’eleganza di un impianto tanto solido quanto fine, direi anzi leggiadro.

Podere Albiano - Orcia Sangiovese DOC Riserva "Tribolo"


di Stefano Tesi

Mi sono preso tutte le cautele e il tempo per i possibili ripensamenti, come faccio sempre quando bevo i vini di chi conosco bene, ma questo Tribolo, Sangiovese 100%, è proprio convincente per pulizia, profondità, territorialità, assenza di fronzoli e qualità di corpo. 


E’ bella pure l’etichetta. Brava Anna Becheri

InvecchiatIGP: Biondi Santi - Rosso di Montalcino 2007


di Luciano Pignataro

L’annata 2007 sta regalando veramente grandi soddisfazioni ai vini di lungo invecchiamento. Si tratta, come è noto, di un millesimo incredibilmente regolare che per le temperature riportò alla mente la 2003 ma che, a differenza di quella, ha potuto godere di piogge che hanno fornito l’acqua necessaria alle piante senza portarle allo stress idrico. La raccolta del sangiovese grosso, specificamente un clone individuato nella tenuta il Greppo di Franco Biondi Santi, iniziò il 10 settembre e andò avanti in giornate calde bilanciate da forti escursioni termiche al calar del sole.


Spesso i "vini di ricaduta" offrono belle sorprese a chi ci ha creduto e li ha conservati. Come è successo a  Salvo Passariello del gruppo Agristor che, partendo dalle Due Torri di Presenzano, ha aperto due bracerie tra Napoli e Roma chiamandole entrambe Chiancheria, il termine dialettale per macellaio. Becchiamo questa bottiglia in cantina e la curiosità, la molla indispensabile di chi si occupa di vino, ci assale. 


Il vino si presenta integro e pieno di verve, con una spiccata acidità che è il primo segnale della sua vitalità inesauribile. Affinato per un anno in grandi botti di rovere di Slavonia, ha avuto la possibilità di elevarsi con calma partendo da una materia prima eccellente. Lungo il finale, frutto e legno ben integrati, sorso appagante e tannini ficcanti ma anche setosi.


Un boccone di carne, un sorso e una chiacchiera. E si fa notte tra amici, ricordando così un grande gentiluomo toscano e quello che era stato il suo “Brunello etichetta bianca”.

Girolamo Russo - Etna Rosso " 'a Rina" 2020


di Luciano Pignataro

Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio (10%) sull’Etna in questo blend di Girolamo Russo ci regalano una beva fine ed elegante: i vigneti sono fra i 650 e gli 800 metri, lieviti indigeni, alberello, botti grandi. 


La cornice perfetta per un vino di carattere che non si dimentica.

Martino - Aglianico del Vulture Riserva 2012


di Luciano Pignataro

Pochi sanno che Martino di Rionero in Vulture è l’unica azienda lucana che può vantare oltre cento anni di storia con la stessa famiglia. Come spesso accade, le cantine presenti da più tempo in un territorio sono quelle che escono dal raggio visivo dei nuovi appassionati, sempre in cerca di novità e di realtà da poter vantare come propria scoperta. Segno dei tempi in cui il sapere dura appena un giorno, quello dei social, per poi resettarsi il giorno dopo in un eterno blob liquido dove è difficile non restare assorbiti.


Seguo l’azienda dalla metà degli anni ’90, ai tempi delle mie prime visite su questo territorio magico e onirico, da allora non è poi cambiato molto perché nonostante l’arrivo di nuove realtà dirompenti come Gerardo Giuratrabocchetti ed Elena Fucci, quasi nulla è cambiato sulla percezione di valore di mercato.
Questo è il motivo per cui la Basilicata, un po’ come la Calabria, è ancora oggi un paradiso per gli appassionati che amano girare con un po’ di cultura e tanta curiosità concludendo ottimi affari perché il rapporto fra qualità e prezzo è ancora tutto giocato a favore della domanda.


Martino, come Paternoster e le prime cantine del Vulture, nasce come vinificatore e fa fortuna proprio negli anni ’20 del secolo scorso durante il periodo della fillossera, quando questo areale con Barile, e l’Irpinia con Taurasi, diventarono l’unico rubinetto di vino perché non toccati dalla malattia della vite, un po’ grazie all’isolamento, un po’ grazie al suolo vulcanico. Ma negli anni ’30 la situazione precipitò per aggravarsi, irrimediabilmente, negli anni ’40 affrontati inizialmente con la baldanza di chi vince la guerra in pochi giorni per poi lasciare il paese completamente devastato. Il terzo colpo alla produzione, avvenuto nei due decenni successivi, venne dall’emigrazione di massa verso il nord e all’estero per cui la produzione di vino, inevitabilmente, perse peso. Alcuni, come Martino, proseguirono fortunatamente in questo lavoro e Armando riuscì a creare un vero e proprio borgo con uffici, sala degustazione e capannone di produzione nel cuore di Rionero, migliorato piano piano nel corso degli anni.


I suoi vini mi sono sempre piaciuti molto e sono ulteriormente migliorati quando, alla fine degli anni ’90, come altri vinificatori, iniziò ad acquisire anche dei terreni per lavorare la propria uva. Si tratta di rossi da Aglianico che non conoscono l’ossidazione anche a distanza di decenni, si possono aprire quando e come si vuole e sempre hanno quello scatto iniziale come i grandi grimpeur del passato. Decido di portare questo giovane 2012, ottima annata regolare, appena poco più di dieci anni, ad una cena di caccia portata per l’occasione da Alfonso Iaccarino in persona.


Il vino arriva dopo lo splendido Gaglioppo di Librandi e il mitico Duca Enrico e subito lascia emergere il carattere ostico e affascinante dell’Aglianico del Vulture: grandissima e irrinunciabile freschezza, ottimo il bilanciamento con il legno, naso profondo di amarena, arancio, cenere, tabacco, carruba, sorso lungo, gagliardo, preciso, pulito, elegante con un finale praticamente infinito che lascia la bocca asciutta e la voglia di ripetere il sorso. Abbinamento migliore con l’oca selvaggia e con la lepre.

Carolin Martino - Foto: Foodmakers

E’ una delle tante bevute realizzate con cibi forti e tipici dell’Appennino del sud che i vini di Martino mi hanno regalato e continuano a regalarmi. Posso anche usare il futuro perché il cambio di testimone è in atto, c’è Carolin, figlia di Armando, carattere determinato, impegnata anche nell’associazionismo del vino, che ci garantisce questo vino per tutto il resto del nostro vivere bevendo.

Chianti Classico Collection 2023: focus sull'annata 2021 più 11 vini da non perdere!


Si è chiusa da poco a Firenze la trentesima Chianti Classico Collection, nata come Anteprima del Chianti Classico nel 1993, che quest'anno segna un nuovo record di produttori partecipanti presenti alla Stazione Leopolda: sono 206 le aziende del Gallo Nero che il 13 e il 14 Febbraio hanno presentato le loro ultime annate di Chianti Classico annata, Riserva e Gran Selezione alla stampa e ai professionisti del settore.


Se nella passata edizione la grande novità era stata la presentazione ufficiale delle undici UGA del Chianti Classico (San Casciano, Montefioralle, Greve in Chianti, Panzano in Chianti, Lamole, Radda in Chianti, Gaiole in Chianti, San Donato in Poggio, Castellina in Chianti, Vagliagli, Castelnuovo Berardenga), quest'anno, come anticipato da Carlotta Gori, direttrice del Consorzio, la notizia più importante per i produttori riguarda l'avvio, da parte del Comitato Nazionale Vini,  dell’iter per l’inserimento delle UGA sulle etichette dei Chianti Classico Gran Selezione. 
“Siamo in attesa della firma sul decreto e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale – ha confermato la Gori – ma possiamo già dire che fra pochissimo sarà possibile mettere una delle undici UGA in etichetta”. "Inoltre - ha aggiunto la Gori  - la Gran Selezione sarà composta da un 90% minimo di sangiovese con, in caso di blend, un massimo del 10% ottenuto esclusivamente da varietà autoctone”.


A sottolineare l'ottimo stato di salute della denominazione ci ha pensato
 il 
presidente del Consorzio Vino Chianti Classico, Giovanni Manetti, che ha riportato numeri importanti per l'anno passato confermando il trend positivo di crescita globale del Gallo Nero. 

Giovanni Manetti

“Il 2022 – ha spiegato Manetti – si è chiuso infatti con un bilancio di bottiglie vendute che segna un +6% sulla media del triennio precedente. Ma preme sottolineare che è aumentato soprattutto il valore globale della denominazione, con un fatturato totale in netta crescita, che nel 2022 ha registrato un +17% rispetto all’anno precedente e addirittura +46% rispetto al 2020”. “La notizia importante – ha aggiunto – è che il valore della denominazione cresce su tutta la filiera, anche a partire dal prezzo delle uve e dello sfuso: la quotazione media ad ettolitro di vino Chianti Classico nel 2022 è stata più alta di circa il 10% rispetto all’anno precedente, offrendo una maggiore remuneratività anche alle aziende che non imbottiglianoPer quel che riguarda il prodotto imbottigliato, invece, si conferma la tendenza alla crescita del peso - in volumi venduti e in valore - delle tipologie “premium” del Chianti Classico, Riserva e Gran Selezione. Nel 2022 le due tipologie hanno infatti rappresentato, congiuntamente, circa il 45% della produzione e il 56% del fatturato".


Durante i due giorni della Chianti Classico Collection le aziende presenti hanno presentato
 750 etichette in degustazione, di cui 161 Chianti Classico Riserva e 136 Gran Selezione. 34 i campioni in anteprima della vendemmia 2022. 


Il mio focus, come sempre per mancanza di tempo e forza lavoro, si è concentrato sull'ultima annata presentata, la 2021 che, come vedremo, non ha nascosto le sue caratteristiche intrinseche all'interno del bicchiere. Il millesimo, infatti, così come in molte parti di Italia, è stata caratterizzato da un'estate decisamente calda e siccitosa, soprattutto ad Agosto, dove le 
le temperature, pur rimanendo abbastanza alte durante il giorno, si sono abbassate notevolmente negli orari notturni soprattutto nelle zone più fresche della denominazione che, in questo caso, hanno potuto contare su uve con maggiore acidità e su una vendemmia più coerenti con gli ottimali tempi di raccolta del sangiovese che, soprattutto negli areali più caldi, è stato raccolto anticipatamente causando squilibri a livello di maturazione sia tecnologica che fenolica.


I circa settanta Chianti Classico 2021 degustati, in linea generale, hanno rivelato vini dal carattere "rotondo", succoso, solare, con un alcol mai in eccesso ma, al tempo stesso, con un tannino a volte troppo verde accompagnato in qualche caso da una acidità sotto media che non aiutava il sorso a regalare il solito slancio finale tipico del sangiovese di questa denominazione dove, come accadrà probabilmente anche per la 2022, saranno fondamentali le caratteristiche intrinseche del territorio (UGA) e il "manico" del vignaiolo che dovrà preservare al meglio l'uva dai cambiamenti climatici.


Casa Emma – Chianti Classico
(90% Sangiovese, 5% Canaiolo, 5% Malvasia Nera)

Casa Emma è un’azienda vitivinicola situata nel cuore del Chianti Classico, a San Donato in Poggio (Barberino Tavarnelle), ad un’altitudine di 430 m. s.l.m. L’azienda nacque nel 1969, quando Fiorella Lepri decise di acquistare il podere dalla nobildonna fiorentina Emma Bizzarri, mantenendo il nome e le radici storiche della tenuta. Tutt’oggi Casa Emma è di proprietà della famiglia Bucalossi e gestisce 28 ettari di vigneto (sangiovese, merlot, ciliegiolo e canaliolo e malvasia) e 1000 piante d’olivo. Il suo Chianti Classico si fa apprezzare per ricordi agrumati, per slancio e finezza tannica e per una chiusura salatissima che invita di nuovo alla beva.

Castello La Leccia – Chianti Classico (100% sangiovese)

A Castellina in Chianti da qualche anno Guido Orzalesi sta lavorando alacremente per portare questa azienda agricola biologica, che vanta anche un ottimo ristorante, ai fasti che gli competono vista la bellezza dei vigneti coltivati. Questo sangiovese in purezza è accattivante, ha sentori ricchi e generosi di frutta matura e spezie ma, al tempo stesso, riesce ad avere grande sinergia acido-sapida e grande equilibrio.

Cigliano di Sopra – Chianti Classico (100% sangiovese)

La Fattoria Cigliano di Sopra è un complesso storico che fa da cornice ad una proprietà che si estende per trentadue ettari lungo le colline del Chianti Classico della zona di San Casciano in Val di Pesa. I trentadue ettari della Fattoria comprendono 8 ettari vitati da cui si ricavano i vini dell’azienda e 17 ettari di Oliveti da cui si ricava l’olio extravergine d’oliva, i rimanenti 7 ettari sono rappresentati da parchi e boschi. Il loro Chianti Classico 2021 è pura energia floreale intarsiata da sensazioni di macchia marina ed erbe aromatiche. Finale entusiasmante per saporosità.

Gagliole – Chianti Classico “Rubiolo” (sangiovese 100%)

Di proprietà della famiglia Bär da tre generazioni, l’azienda vanta vigneti coltivati secondo regimi biologici, sia a Gagliole (Castellina in Chianti), dove le vigne sono prevalentemente adagiate su antichi terrazzamenti, sia a Panzano, posizionati all’interno della famosa Conca d’Oro. Il loro Rubiolo, probabilmente, è uno dei tre Chianti Classico annata che mi hanno fatto sobbalzare dalla sedia per via di una leggerezza aromatica e di una dinamicità di beva che mi hanno fatto scordare tute le difficoltà della 2021. Bravi!

Istine – Chianti Classico (sangiovese 100%)

Angela Fronti, grazie al suo talento innato, ormai conosce il terroir di Radda in Chianti come le sue tasche e riesce a “domare” il suo sangiovese anche in annate calde come queste. Il suo Chianti Classico “base” condensa nel bicchiere tutta la freschezza e la “nervosità” del sangiovese di Radda a cui si aggiunge solo una inconsueta maturità di frutto che fornisce ulteriore succosità alla beva.

Le Miccine – Chianti Classico (sangiovese 100%)

Le Miccine è una piccola azienda a conduzione familiare di Gaiole in Chianti condotta dalla giovane e brava Paola Papini Cook che conduce in biologico sette ettari di vigneto secondo un approccio minimalista. Questa filosofia del “less in more” si ritrova sia a livello aromatico dove il vino gioca su sensazioni di fruttini di bosco e rosa antica. Fresco ed elegante al sorso e dotato di una eco sapida e floreale di entusiasmante finezza.

Monte Bernardi - Chianti Classico “Retromarcia” (sangiovese 100%)

Monte Bernardi si estende su 53 ettari dei quali 10 ettari sono vigneti, coltivati in biodinamica dal 2004, la metà dei quali ha un’età sopra i 40 anni.  I vigneti sono situati in una zona di colline a sud di Panzano. Il loro sangiovese in purezza associa materia e purezza, succosità e freschezza minerale. Un condensato, insomma, di come Panzano può essere davvero considerato un Grand Cru del Chianti Classico.

Montesecondo - Chianti Classico (sangiovese 90%, colorino 5%, canaiolo 5%)

Silvio Messana, abbandonato il sogno di diventare musicista jazz a New York, ha ripreso dal 2000 il podere di famiglia ed oggi coltiva sangiovese, canaiolo, colorino e petit verdot all’interno dell’areale di San Casciano. Il suo Chianti Classico annata è boschivo, a tratti mediterraneo e ha un’anima ricca di sensazioni ematiche. Teso, compatto, vibrante di calore, ha ritorni sapidi e agrumati nel finale.

Podere Castellinuzza – Chianti Classico (sangiovese 95%, canaiolo 5%)

Adagiata tra le braccia del Monte San Michele, il monte più alto del Chianti Classico, l’area di produzione dei vini di Lamole comprende le frazioni di Castellinuzza, Casole e Lamole. Piccoli vigneti, con viti che arrivano anche a 130 anni di età, per lo più terrazzati, immersi all'interno di boschi contornati da campi di iris, viole a mammole. Paolo Coccia, in questi luoghi fatati, da anni produce dei piccoli grandi capolavori come questo Chianti Classico che svela sentori delicati di fiori blu, ginepro, ribes a cui solo un abbrivio succulento e più avvolgente del solito rivela la generosità dell’annata.

Poggerino – Chianti Classico (100% sangiovese)

L’azienda raddese, di proprietà della famiglia Lanza, è una piccola fattoria biologica composta da 43 ettari di vigneto, oliveto, bosco, alcune antiche case coloniche ed una chiesa risalente al XII secolo. Il 2021 degustato alla Leopolda ha un incipit olfattivo che ricorda le piccole bacche selvatiche, la viola, la rosa, il mirto a cui seguono sbuffi di grafite e macchia marina. Al sapore risplende di luce propria con intensa freschezza e persistenza minerale.

Riecine - Chianti Classico (100% sangiovese)

Fondata nel 1971 dall’inglese John Dunkley, insieme alla moglie Palmina, l’azienda, col passare del tempo, è diventata un punto di riferimento grazie anche al grande impegno di Alessandro Campatelli il cui motto è mostrare l'unicità e la bellezza del sangiovese di Gaiole. L’ultima annata del loro Chianti Classico annata risulta come sempre eterea, diretta, si apre su sentori di gelatina di ribes, rosa, felce, erbe di campo. In bocca l’incipit è più che fresco, con bei rimandi di frutta croccante e un finale leggermente minerale che amplifica il ricordo dell’assaggio. 

InvecchiatIGP - Kaltern, Lago di Caldaro Classico Superiore Pfarrhof 2014


di Carlo Macchi

Pfarrhof, secondo il traduttore di Google, in italiano vuol dire “canonica”. La mia assoluta ignoranza della lingua tedesca non mi permette di valutare l’esattezza della traduzione ma sicuramente se c’è un Lago di Caldaro canonico per aromi, corpo e rispondenza al vitigno è proprio il Pfarrhof 2014.


Se negli anni ‘70 e ‘80 esisteva in Italia una denominazione con meno credito del Chianti questa era proprio il Lago di Caldaro e il tutto si inquadrava in una regione viticola dove la Schiava era il vitigno più piantato e in più coltivato con rese estremamente alte. Questo portava a vini scarichi di colore, aciduli, poveri di corpo e naturalmente il mercato (soprattutto quello tedesco) girò le spalle a questa denominazione.

Lago di Caldaro

Quando l’Alto Adige iniziò a pensare di produrre vino di qualità la prima cosa fu spiantare schiava per sostituirla con altre uve e questa tendenza, che ha portato la schiava altoatesina dal più del 70% del parco vitato a poco sopra il 10%, è continuata sino ad oggi. C’è anche un altro punto che continua a penalizzare la schiava, almeno tra diversi vecchi produttori, e cioè l’idea che sia comunque un vino povero, troppo leggero, non adatto al momento attuale. In realtà è vero proprio l’opposto, perché il mercato richiede sempre più vini leggeri ma di buon corpo, poco tannici, profumati e, se possibile, abbastanza serbevoli.


Nel mondo della schiava altoatesina, che da almeno 10/15 d’anni sta proponendosi con sempre più sicurezza (anche con vini che possono invecchiare, per fortuna) Il lago di Caldaro moderno sta piano piano risalendo la china e propone molte etichette di alto profilo che hanno anche l’innegabile vantaggio (per noi bevitori) di costare veramente poco.


Il Pfarrhof, Lago di Caldaro Classico Superiore (sulle 12 tipologie della denominazione meglio tacere…) della Cantina Sociale di Caldaro/Kaltern proviene, per disciplinare, solo da vigneti attorno al Lago di Caldaro e dovrebbe essere una schiava in purezza, ma il disciplinare permette fino al 15% di altre uve e personalmente credo che in questo 2014 una piccola percentuale di lagrein ci sia. Lo deduco dal colore che è ancora sul rubino, scarico ma brillante, mentre il naso è proprio quello della schiava, con ancora note di frutta di bosco e un inizio di terziari che portano verso erbe officinali. La bocca è fresca, netta, elegante per una tannicità solo accennata ma che indirizza la beva e la rende estremamente piacevole e persistente.


Rendiamoci conto che stiamo parlando di una schiava di nove anni, di un vino che normalmente si pensa, e sottolineo si pensa, debba essere bevuto nell’arco dell’anno successivo. In più siamo di fronte ad una 2014, che è stata sicuramente una vendemmia piovosa, fredda, difficile.


Se non fossi un discreto conoscitore della schiava altoatesina griderei al miracolo: non lo faccio solo per far capire che questa bottiglia non è un caso isolato e che sia il Lago di Caldaro che soprattutto il Santa Maddalena e in generale la Schiava DOC è oramai in molti casi un vino da invecchiare con tranquillità e da comprare con piacere, visti anche i prezzi veramente molto convenienti.

Andrea Moser

Non so se questo vino si potrà ancora trovare in commercio, quindi il grazie ad Andrea Moser, Kellermeister di Kaltern che me l’ha regalato, è ancora più sentito.

Villa Matilde - Spumante Metodo Classico Brut "Mata Rosè"


di Carlo Macchi

Può l’Aglianico essere adatto per dei Metodo Classico? Dopo aver gustato il MATA devo dire di sìiiiiii! 


Non solo belle note fruttate al naso ma una sorprendente finezza al palato grazie alla cremosità aggraziata delle bollicine. 100 mesi sui lieviti (minimo 42) ma giovanissimo. Una bella sorpresa.

Ventolaio, tutto il bello di Montalcino e delle sue vigne in altezza


di Carlo Macchi

Non ero mai andato al Ventolaio e un po’ la cosa mi bruciava, perché questa cantina era entrata prepotentemente nei radar di Winesurf più di venti anni fa, con uno strepitoso Brunello di Montalcino 2001.

credit: Partesa Wine

Ho appuntamento per le 9.30 ma sono in ritardo. E’ una cosa che non sopporto e così, per quantificarlo e comunicarlo, a Buonconvento metto il navigatore: 38 minuti. Penso che Google sia impazzito ma ha (ovviamente) ragione, perché da quando si lascia la strada asfaltata all’altezza del Passo del Lume Spento al momento in cui si arriva al Ventolaio passano buoni-buoni 15-16 minuti. In questi 15-16 minuti, tutti di strada bianca attorno ai 400/450 metri di altezza, vedo tantissimi nuovi vigneti quasi a perdita d’occhio, molti di questi piantati da cantine importantissime dell’enologia italiana, a dimostrazione che oramai a Montalcino più che il terreno conta l’altezza a cui si pianta.


Al Ventolaio, l’altezza c’è, (siamo attorno ai 450 metri) tanto che alcune annate dei primi anni 2000 sono state abbastanza sofferte, come in tutte le zone alte di Montalcino. Parlo solo di primi anni 2000 perché la famiglia Fanti è arrivata al Ventolaio negli anni ’90, e quindi i primi Brunello nascono proprio attorno all’inizio del nuovo secolo.

Maria Assunta Fanti

Mi accoglie Maria Assunta Fanti, moglie di Luigi e mamma di Manuele e Baldassarre: gli uomini sono in vigna. Camminando nella vigna di fronte alla casa capisco subito che anche Maria Assunta non disdegna per niente il lavoro di vigna, anche se il suo mondo è la cantina, anzi la nuova cantina.


Ma prima della cantina la vigna. Oltra alla vigna vecchia, la prima piantata e che è la mamma di quel 2001 di cui sono rimaste “ben” 2 bottiglie, piano piano sono arrivati a 8 ettari a Brunello, 2 a Rosso di Montalcino, e altri 8 tra Sant’Antimo e IGT. Le esposizioni sono sud/sud ovest con sesti d’impianto che, almeno nelle vigne più vecchie non si discostano dai 3000 ceppi per ettaro . “Su questo Luigi non ha mai voluto sentire ragioni. Ultimamente solo in un vigneto i ragazzi l’hanno convinto ad arrivare a 4000 piante.” Con il numero di ettari che hanno gli chiedo quanti operai ci sono in azienda e quando mi risponde “uno solo” mi convinco definitivamente che il Ventolaio è un’azienda familiare a 360°. Manuele e Baldassare sono nel vigneto pure di notte quando serve, anche se, guardando il loro parco macchine agricole, si avvalgono moltissimo della tecnologia e non disdegnano usare, per determinati vini, anche una modernissima vendemmiatrice.


Ho parlato di nuova cantina, il regno di Maria Assunta, che da quando ha scelto Maurizio Castelli come tecnico è ancora più coinvolta e convinta del suo lavoro. Nuova cantina sia come struttura che come macchinari: quasi tutto acciaio, con due sole grosse vasche in cemento che servono soprattutto per i tagli: fermentazioni molto tradizionali con macerazioni che possono arrivare anche ai 40-45 giorni. Ogni vigna ha la sua vasca e quindi ho potuto farmi un quadro della vendemmia 2022 prima che vada in legno. La cosa che mi ha stupito in questi vini grezzi è l’assoluta mancanza di sentori troppo maturi al naso: frutta rossa e nera matura c’è, ma con sensazioni fresche e in diversi casi fini note floreali. I tannini sono netti, ben definiti, per niente amari una sottesa freschezza fa da contraltare ad un corpo in qualche caso molto importante. Non sembra assolutamente la 2022 calda, asciutta, sicuramente difficile che abbiamo vissuto da pochi mesi, segno che oramai i produttori riescono a salvaguardare sempre meglio sanità e maturazione dell’uva in annate “estreme”.


L’assaggio delle ultime annate prodotte mi conferma che oramai il Ventolaio è perennemente sulla strada della qualità e se andate a dare un’occhiata ai voti della nostra guida vini ne avrete conferma. Per quanto riguarda i vini mi soffermerò soprattutto su quelli che noi non degustiamo per la guida.


Il primo dei fuori guida è lo Spiffero 2021, un rosato di sangiovese dal classico colore scarico provenzale ma dal nerbo tutto toscano. Frutta di bosco al naso ma soprattutto sapidità e decisione al palato. Un rosato per niente accondiscendente.


l’IGT Toscana Sentiero del Fante è un “rosso d’ingresso” (viene venduto in cantina a 10 euro) da provare per la finezza aromatica da vino superiore e un corpo di ottima profondità, sempre giocato su tannini dolci con sapidità in prima fila. Un vino che mi ha sorpreso piacevolmente.


Ho riassaggiato anche i loro Brunello 2017 nonché la Riserva 2016 e su questo c’è stato un “giallo” che mi sembra abbia bisogno di un approfondimento. In degustazione bendata è stato da noi considerata la migliore Riserva 2016 e con il suo punteggio di 90 punti (per noi un punteggio molto alto) è tra i migliori 12 vini rossi italiani. Mentre la riassaggio Maria Assunta assume un’aria strana e mi racconta che un importante giornale estero non solo ha valutato con un voto bassissimo questo vino ma ha anche detto che non “era adatto nemmeno per fare Brunello base”.


Indubbiamente noi di Winesurf abbiamo un sistema di valutazione diverso da tante altre guide/giornali italiani e esteri ma, avendo il vino nel bicchiere e non volendolo per forza lodare non si può però negare che abbia struttura, profondità, eleganza come minimo al pari di tante altre riserva 2016 e che anche al naso incarni perfettamente il sangiovese di Montalcino. Lo riassaggio due/tre volte, cerco di trovarci dei difetti o dei punti deboli ma non ci riesco. E’ un gran vino!


A questo punto mi rivolgo a voi lettori o ai colleghi per avere un giudizio su questa Riserva 2016. Se l’avete già assaggiata o se vi capita (ma vi consiglio di farlo capitare…) assaggiatela e fatemi sapere. Lascio Maria Assunta, la famiglia Fanti e il Ventolaio con la certezza di avere appena visitato una delle certezze enoiche meno conosciute di Montalcino.