InvecchiatIGP: Candido - Cappello di Prete 2009


di Luciano Pignataro

Il Cappello di Prete di Candido è una delle grandi creazioni enologiche dell'indimenticabile enologo Severino Garofano. Ci sono vino che vano bevuti in occasioni speciali, in primo luogo con persone con cui stiamo bene insieme. Se poi sei nel posto giusto allora fai Bingo.


Nel posto giusto giusto ci siamo eccome: precisamente nella Osteria degli Spiriti a Lecce, il regno di Tiziana Parlangeli e Piero Merazzi che si ricordava perfettamente il posto dove ero seduto proprio con Severino Garofano e la figli Renata a pranzo tanti anni fa. Stavolta con i cari amici Davide Gangi, vulcanico inventore di format sulla comunicazione del vino, Beniamino D'Agostino della cantina Botromagno e del collega Pino de Luca, storica firma del vino in Puglia ci godiamo una cena con i controfiocchi. Al momento clou, le braciole di carne di cavallo, Piero, da oste consumato ed esperto, tira fuori quest'ultima grande bottiglia che gli è rimasta.



Il vino ha di bello questo. Come d'incanto, è come se Severino fosse entrato e si fosse accomodato al tavolo con noi. Il mago del Negroamaro, che con lui ha toccato vette difficilmente eguagliabili, si rivela ancora una volta nei profumi di spezie e di frutta matura, ciliegia al cento per cento, rimandi fumè e carruba, poi nello scatto al palato agile, veloce, al tempo stesso caldo e piacevole con una chiusura straordinariamente pulita e precisa. Tralasciamo la considerazione, banale, sulla gioventù di questa esecuzione, una delle migliori di sempre in una annata tra l'altro abbastanza complicata per le uve tardive.


L'azienda Candido fu una delle prime ad imbottigliare i vini a partire dal 1957, proprio con un giovanissimo Severino Garofano che dall'Irpinia si era trasferito in Salento. Ed è con Francesco Candido che nel 1974 nasce il Cappello di Prete che darà mille soddisfazioni al figlio Alessandro, tra cui la citazione nei 1001 vini da bere almeno una volta nella vita di Neil Beckett.
E la serata si chiude così, con un grande brindisi alla memoria di Severino, il piacere immenso di stare insieme e di condividere ciascuno dei ricordi del suo vissuto e dei suoi vini e la gioia di poter fare ancora tante cose insieme.

Tenuta del Travale - Eleuteria 2019


di Luciano Pignataro

Nerello Mascalese in Calabria? Oh yeah! Nelle due etichette della piccola Tenuta del Travale sulla Sila, a Rovito. 


In una con il Nerello Cappuccio, qua da solo. Eleganza, finezza, carattere. Un vero fuoriclasse indimenticabile.

Tra le vigne di Sorrentino, sul Vesuvio, alla scoperta dell'eruzione che distrusse Pompei


di Luciano Pignataro

Stavolta non parliamo di un vino, ma di un territorio misterioso e onirico, il Vesuvio, A' Muntagna come la chiamano i napoletani. Più passa il tempo e più questo paesaggio straordinario che abbiamo dato per acquisito e normale sin dalla nascita non finisce mai di stupire man mano che ci addentriamo fra le vigne della famiglia Sorrentino che hanno iniziato a fare discorsi di buona agricoltura sin dagli anni '50, certificata biologica e puntata esclusivamente sui vitigni autoctoni del territorio, dal caprettone al piedirosso, dalla catalanesca alla coda di volpe. Un'agricoltura sorvegliata la vulcano sul terreno sabbioso nero che è diventata anche meta enoturistica, con piccoli appartamenti ricavati tra le vigne, una sala ristorante, visite guidate, visite a cavallo: un'azienda che accoglie ogni mese almeno 5000 visitatori, per la maggior parte stranieri che prima visitano gli scavi di Pompei a pochissimi chilometri da qui.

La visita al sito

Tra queste vigne adesso è possibile rileggere tutta la storia della terribile eruzione del 79 d.C. che sconvolse il Golfo di Napoli: una lettura dal vivo, attraverso le stratificazioni di quello che in quelle giornate sono rimaste per sempre in un angolo di terreno di recente scoperto dagli scienziati dell’Università di Napoli tra le vigne di Sorrentino a Boscotrecase. Non una eruzione qualsiasi, ma proprio L’ERUZIONE PIU FAMOSA DELLA STORIA, iniziata il 24 ottobre e non ad agosto come recenti studi sembrano confermare.


La foto di questo spazio ovviamente non dice nulla se non c'è chi ci inforca gli occhiali della storia per addentrarci in quelle ore terribili che provocrono una orribile morte e migliaia di persone. Quando, coperto dalla macchia mediterranea e custodito fra i cigneti di caprettone, i vucanologi Claudio Scarpati e Annamaria Perrota hanno visto la parete quasi non credevano ai loro occhi. Per oltre duemila anni era stato conservato, attraverso le diverse stratificazioni, il riassunto di quello che era successo. Lascio la parola ai due scienziati per evitare imprecisioni:

"In questa località affiora la successione completa dei prodotti dell’eruzione vesuviana del 79 d.C. L'eruzione iniziò alle ore 13 circa del 24 ottobre (o agosto) con la formazione di una colonna pliniana preceduta da una debole fase di apertura freatomagmatica (livello C1). Il deposito di lapilli è formato da pomici bianche (livello A) e pomici grigie (livello B) che si sono accumulate da una colonna eruttiva alta fino a 32 km. Numerose correnti piroclastiche (livelli C) si sono verificate durante (livelli da C2 a C5) e dopo (livello C6) l’accumulo della parte superiore del deposito di pomici. Le campagne e le città romane intorno al Vesuvio furono sepolte dalle pomici e definitivamente distrutte dalle successive correnti piroclastiche".

Giuseppe, Maria Paola e Benny Sorrentino

La storia della famiglia Sorrentino è una storia di donna. Comincia nel 1953 con nonna Benigna che, nel dopoguerra, decide di fare del suo “moggio” una piccola realtà aziendale. Paolo Sorrentino e la moglie lo ereditano e lavorano a quattro mani per continuare il suo progetto ampliandolo anno dopo anni. Come loro, anche figlii Giuseppe, Maria Paola e Benny che oggi sono in prima linea per la produzione e distribuzione del vino e degli altri prodotti della loro terra.

Questa energia dei tre giovani fratelli, inserita in un contesto più generale che vede anche altre aziende del territorio impegnate in questa direzione, fa davvero ben sperare per lo straordinario e unico territorio vesuviano. Sono le nuove generazioni che si affacciano convinte ad impegnarsi nella terra e nei suoi valori più profondi.

Sette grandi vini per scoprire la grandezza della Malvasia Istriana


Parlare genericamente di Malvasia significa commettere un errore perchè, nella realtà, questo vitigno dovrebbe essere declinato al plurale visto che fa parte di una grandissima famiglia composta da parecchie decine di “Malvasie” che, per distinguersi l'una dell'altra, si portano dietro anche un attributo specifico ovvero "Malvasia di..." come, ad esempio, la Malvasia Bianca di Candia, la Malvasia del Lazio, la Malvasia di Lipari e la Malvasia Istriana. 

Grappolo di Malvasia Istriana

Prima di trattare nel dettaglio quest’ultima tipologia, è interessante dare uno sguardo all’origine e alla storia di questo vitigno visto che il suo nome, Malvasia, sembra derivare dalla antica città greca di Monemvasia, porto del Peloponneso, dal quale si ritiene che genovesi e, soprattutto veneziani, facessero partire i rinominati vini dolci di Creta verso tutte le coste d’Italia. Il grande successo del vitigno di “Monemvasia”, il cui nome rapidamente si italianizzò in “Malvasia”, fece sì che questa tipologia di vino divenne un vero e proprio oggetto di culto, soprattutto sulle tavole dei nobili, tanto da spingere i commercianti legati alla Repubblica Marinara di Venezia ad importare in Italia anche le preziose barbatelle che, rapidamente, si diffusero soprattutto lungo le coste dando origine a mutazioni, cloni e varietà in base ai differenti terroir di appartenenza. Ecco, pertanto, il motivo delle tante Malvasie presenti in Italia dove, secondo le ultime ricerche, ne possiamo contare ben 17, sparse da nord a sud, isole comprese.


Tornando all’oggetto della nostra trattazione, ovvero alla “Malvasia d’Istria”, storicamente le sue tracce in Italia sembrano risalenti al 1300 e le zone di coltivazione salivano da Rovigno, Parenzo, Cittanova, fino al Carso triestino e goriziano. Lentamente, poi, passarono alla bassa friulana, alla zona trevigiana e al Trentino. Oggi, la zona prevalente di coltivazione della Malvasia Istriana si trova in Friuli Venezia Giulia, con particolare riferimento alla provincia di Trieste e a quella di Gorizia, con una superficie coltivata complessiva che sfiora i 300 ettari. Diversi sono i vini bianchi friulani ottenuti con quest’uva che possono fregiarsi della DOC come l’Aquileia, l’Isonzo, i Colli Orientali e, come vedremo nello specifico, il Carso.


Dal punto di vista ampelografico la Malvasia Istriana ha una foglia di media grandezza, di forma pentagonale, intera e trilobata mentre i grappoli sono abbastanza spargoli con acini grandi e polposi, di colore giallo più o meno dorato.
A differenze delle altre Malvasie, quella Istriana non ha un carattere spiccatamente aromatico, il frutto è quasi neutro e risente molto dell’ambiente in cui si coltiva. 

Pietro Pittaro, uno dei maggiori esperti di Malvasia Istriana, scrisse che “Con lo stesso vitigno coltivato in collina o in pianura troviamo due vini completamente diversi. La "Malvasia" di pianura specie quella prodotta in terreni sabbiosi o comunque abbastanza fertili è un vino di colore giallo paglierino scarico con riflessi verdognoli leggermente profumato con bouquet che ricorda la limoncella? Sapore secco citrino poco caldo. E' un vino beverino non impegnativo leggero corpo e di alcool facilmente digeribile anche se bevuto in cospicua quantità. Non stanca accompagna cicisbeo discreto la cucina anche un po' grassa mai soverchiando con la sua personalità quella del cibo. Il discorso cambia notevolmente quando l'altitudine aumenta. Non più discreto ma con prorompente personalità spicca tra i migliori vini friulani. Di colore giallo paglierino tendente al giallo oro alcolico grasso per abbondante glicerina pur conservando innata una certa dose di aggressività citrina bouquet leggermente aromatico e personalizzato il "Malvasia del Colli" o del "Carso" è un vino particolare. Attenti quindi amici dell'arte della buona tavola a studiare bene gli accostamenti. Perchè? Perchè ogni paese della pianura friulana della collina goriziana o del Carso triestino ha una «sua» "Malvasia".

Credite: Le donne del vino

Per testare quanto scritto in precedenza, ho organizzato una breve ma intensa sessione di assaggio con i migliori vini prodotti con Malvasia Istriana in purezza. Di seguito, sinteticamente, le mie note di degustazione:


Ostrouska - Malvasia 2021: Albert e sua moglie Sharon gestiscono un bellissimo agriturismo a Sagrado, nel cuore del Carso Triestino, dove dal 2015 imbottigliano vitovska, malvasia istriana e terrano (2 ettari in totale) soprattutto per soddisfare le esigenze dei loro clienti. Questa malvasia, proveniente da una splendida vigna che degrada verso il mare, nonostante sia ancora giovanissima affascina con i suoi composti profumi che ricordano l’albicocca, la pesca fino ad arrivare a sbuffi di erbe aromatiche e salgemma. Sorso goloso, succoso e minerale, perfetto per una tavolata dove regni l’amicizia e il buon cibo.

Nota tecnica: la malvasia fa macerazione sulle bucce per 4 giorni, seguiti da 6 mesi in tonneau di rovere di Slavonia e 6 mesi in inox prima dell’imbottigliamento.


Rado Kocjančič – Malvasia 2020: Kocjančič è un viticoltore e un olivicoltore del Breg, una terra aspra incastonata tra Mar Adriatico, Istria e Carso dove coltiva con la sua famiglia 5 ettari di vigneto e 3 ettari di uliveto con metodo tra il biologico e il biodinamico. La sua Malvasia Istriana in purezza ha carattere da vendere grazie ad una tavolozza aromatica che spazia dalla frutta gialla matura fino alle spezie orientali e alla macchia mediterranea. Beva appagante, sincera con una finale quasi salmastro che invoglia continuamente ad un altro sorso.

Nota tecnica: la malvasia fa macerazione sulle bucce due giorni, favorendo la fermentazione spontanea. L’affinamento avviene parte in acciaio inox e parte in botti di legno, sui propri lieviti fino alla primavera.


Skerk - Malvasia 2020: Sandy Skerk è da molti anni uno dei punti di riferimento per la viticoltura nel Carso dove influenza marina, vento e terreni impervi ricchi di calcare e ferro rappresentano l’habitat ideale per una viticoltura senza compromessi senza alcun uso di agenti chimici. La Malvasia 2020 di Skerk è un vino intenso, struggente e complesso che richiama all’olfatto cenni di agrumi quasi canditi, nespola, pesca matura, sbuffi di santoreggia, lavanda e sprazzi iodati. Il vino ha un impatto gustativo appagante, invade il cavo orale a 360° e non lo lascia più per minuti avvolgendolo e caricandolo di enorme sapidità e ricordi di frutta secca.

Nota tecnica: la malvasia fermenta in tini aperti di legno, con uso di soli lieviti indigeni, a cui segue una macerazione sulle bucce di una decina di giorni. Dopo la svinatura, la Malvasia di Skerk matura sulle fecce fini, sempre in tini di legno, per almeno un anno prima di essere imbottigliata.


Merlak – Malvasia 2019: Martin Merlak è un giovane e promettentissimo vignaiolo del Breg dove con la sua famiglia, con la quale gestisce un’ottima osmiza, coltiva ulivi e vigneti in località Sant’Antonio in Bosco. Su questi terreni di marne arenarie, seguendo un approccio naturale, Martin dal 2013 imbottiglia i suoi generosi vini tra cui questa Malvasia dai profumi nitidi di iodio, ginestra, torba ed erbe di campo. La bocca è piena ma al tempo stesso agile e scattante e con una progressione sapida, quasi salmastra, davvero impressionante.

Nota tecnica: la malvasia fermenta in tini aperti di legno, con uso di soli lieviti indigeni, a cui segue una macerazione sulle bucce di cinque giorni. 18 mesi di affinamento: 6 in acciaio, 6 in barrique usate e 6 in bottiglia.


Bajta – Malvasia 2019: fattoria carsica per eccellenza, Bajta basa la propria economia sull’allevamento del maiale, allevato allo stato brado a Sales, sulla produzione di vino da vitigni autoctoni come Vitovska, Terrano e Malvasia Istriana. L’annata 2019 di quest’ultimo vino si fa apprezzare per un contorno floreale nettissimo all’interno del quale si collegano ricordi di mela golden, agrumi e lavanda. Esemplare il sorso, assolutamente coerente col naso, che chiude succoso e persistente.

Nota tecnica: la malvasia fermenta in vasche in acciaio inox, dove il vino così ottenuto si affina fino all’imbottigliamento che attiene nella primavera successiva.


Skerlj – Malvasia 2019: Matej Skerlj da un po’ di tempo è uno degli vignaioli artigianali del Carso più apprezzati grazie alla passione per la sua terra che gli è stata tramandata dai nonni e che oggi, grazie al lavoro assieme alla sua famiglia, si traduce in vini di grande purezza espressiva, "liberi di esprimersi e di esprimere ciò che devono a chi li beve". La Malvasia 2019 prodotta all’interno della sua cantina scavata nella pietra offre un impianto aromatico giocato su sensazioni di erbe officinali, scorza di cedro, anice stellato, albicocca e sbuffi di aria salmastra. Avvincente l’ingresso, quasi morbido, che trova nel dualismo acidità-sapidità il partner ideale per il raggiungimento di un equilibrio sublime.

Nota tecnica: la malvasia fermenta in legno, con uso di soli lieviti indigeni, a cui segue una macerazione sulle bucce di qualche giorno. Dopo la svinatura, la Malvasia di affina circa 24 mesi in botti di legno.


Zidarich – Malvasia 2019: grazie alla sua grande “testardaggine” nel comunicare le bellezze dei vini del suo territorio a livello internazionale, Beniamino Zidarich è sicuramente il vignaiolo del Carso più conosciuto a livello internazionale grazie anche ad una filosofia di produzione naturale assolutamente intransigente: nessun prodotto chimico, lieviti indigeni, macerazioni e fermentazioni in tini aperti senza controllo della temperatura. La sua Malvasia in purezza è un inno al terroir di Prepotto, i suoi profumi ricordano il ferro fuso, la salvia, gli agrumi succosi, la pesca nettarina e il pino mugo. Al gusto è straordinariamente dinamico, il suo corpo viene smussato da una agile freschezza e da un allungo sapido dirompente.

Nota tecnica: la malvasia fermenta in tini aperti di legno, con uso di soli lieviti indigeni, a cui segue una macerazione sulle bucce con diverse follature giornaliere e svolgimento della malolattica. Dopo la svinatura, la Malvasia di affina circa 24 mesi in botti medie e grandi di rovere di Slavonia.


Le attività di pubblicazione fanno parte di un progetto della rete CARSO-KRAS per la valorizzazione dei vini autoctoni ad Indicazione Geografica Tipica Vitovska, Malvasia, Refosco e Terrano, finanziato dalla misura 3.2.1 del PSR 2014-2020 della Regione Friuli Venezia Giulia.

InvecchiatIGP: Giorgio Grai - Alto Adige Pinot Bianco Riserva 2001


di Carlo Macchi

Gli amici certe volte ti stupiscono, come Giuseppe che ti arriva, bel bello, con alcune bottiglie di Giorgio Grai e dice “Carlo queste sono per te!”

Giorgio Grai, che ci ha lasciato circa tre anni fa, credo che nel mondo del vino italiano e non solo ne abbiano sentito parlare tutti. Un personaggio di quelli scomodi, ruvidi, ma con un palato quasi assoluto. Magari non avrà fatto un giorno di vendemmia in vita sua, come dice un famoso produttore altoatesino, ma sicuramente il vino lo conosceva e lo sapeva riconoscere. Aveva un palato eccezionale, ha lavorato per grandi nomi e, naturalmente, per sé stesso, producendo e imbottigliando vini con il suo nome e cognome. Comprava quello che riteneva adatto, niente di meno, lo seguiva nel tempo, magari creava vari assemblaggi e poi decideva cosa imbottigliare. Del resto, quello in cui non era secondo a nessuno era assemblare vini e trovare sempre il miglior equilibrio possibile.


In questo rasentava la perfezione e la cosa si comprendeva meglio dopo che il vino si trovava in bottiglia da qualche anno. Così quando il mio caro amico Giuseppe, notaio a Ravenna, appassionato e conoscitore di vini come pochi mi ha detto “C’è anche un "Pinot Bianco 2001” sono rimasto a bocca aperta. Non ho retto molto e dopo qualche giorno l’ho aperto. Prima però mi sono soffermato sulla retroetichetta che recita da una parte 12.5°, e questo nel 2001 ci poteva anche stare. Poi leggo la data di imbottigliamento e vedo: 2015.

Ci penso un attimo e realizzo di avere in mano un Pinot Bianco altoatesino di più di venti anni, creato forse dal più grande “mescolavin” (tanto per ricordare anche il grande Giacomo Tachis) di vini bianchi italiano, che è stato imbottigliato “solo” 14 anni dopo la vendemmia.


Mi aspetto mirabilie mentre lo stappo e il colore conferma subito che sono di fronte a qualcosa di particolare: giallo paglierino dorato ma certamente non molto spinto sulla nota dorata, dimostra la freschezza del vino. Freschezza che si conferma in bocca dove profumi minerali e floreali si intrecciano, portando avanti note di pietra focaia accanto a udite, udite, sentore di mela verde. La caratteristica principale del naso è però l’eleganza e la complessità aromatica, mai sparata o eccessiva.


In bocca non sai cosa aspettarti e all’inizio, per la sua freschezza sottotraccia mi delude quasi. Però basta aspettare un po’ e dal fine palato viene fuori una sapidità notevole abbinata ad una note dolce, che assieme a una profonda fermezza gustativa rende il vino lunghissimo e, indovinate, elegantissimo.

Chiude con una nota quasi dolce che un po’ ti sconcerta ma ormai ho capito che con questo vino non esiste un punto fermo, tutto cambia. Se Eraclito coniò la famosa frase che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume io adesso affermo che non si può bere due calici uguali dello stesso Alto Adige Riserva Pinot Bianco 2001 di Giorgio Grai, anche se vengono dalla stessa bottiglia.

Grazie Giuseppe!

Poggio Gualtieri - Chianti Rufina Riserva Terraelectae 2018


di Carlo Macchi

Non ho mai amato i vini di questa storica cantina nella Rufina: poi ho assaggiato questa Riserva. Naso finissimo, con frutto e sentori speziati per niente toccati dal legno. Bocca austera ma lineare, con tannini setosi. 


Un Rufina che fa le scarpe a tanti rossi iperblasonati, dal Barolo al Brunello e oltre.

Trattoria Belotti: mangiare bene in Franciacorta


di Carlo Macchi

La Franciacorta e le sue bollicine sono un territorio enoico giovane, e la proposta gastronomica franciacortina (se lasciamo un attimo da parte il lago d’Iseo e i suoi molti ristoranti per turisti) varia tra locali nati da poco, magari modaioli, e alcuni cavalli di razza molti dei quali conosciuti, ma non tutti.


Una tra le perle sconosciute o quasi della Franciacorta si trova a Ome, nella zona meno turistica e frequentata del comprensorio ed è la Trattoria Belotti. E’ trattoria già da fuori, con “un tratturo” stretto per arrivarci che la nasconde ai benintenzionati che vorrebbero mangiare piatti semplici ma concreti e stupendamente cucinati. Continua ad essere trattoria quando entri nel grande ma disadorno piazzale esterno, che si anima solo d’estate e lo è all’interno con apparecchiature linde e precise, senza vezzi, tavoli e sedie robuste, clima amicale e tranquillo.


Lo è soprattutto nella proposta gastronomica incentrata su alcuni piatti bresciani ma soprattutto su classicità da osteria, tipo gli antipasti misti con sottaceti e sottoli (fatti da loro) o le tagliatelle ai funghi. Però le tagliatelle, fatte da loro, o i casoncelli (idem, ve li consigliamo con il bagoss) sono buonissimi e hanno quella morbida consistenza e pienezza della pasta fatta in casa.

Casoncelli

Sui secondi, se vogliamo lasciare un attimo da parte il manzo all’olio, presente in tutte le carte dei ristoranti locali, il nostro consiglio casca sul coniglio al forno con polenta ma soprattutto su una stratosferica gallina in umido con i funghi e polenta: un piatto commovente tanta è la bontà e la consistenza della carne. Veramente buono anche lo stracotto d’asino al vino rosso. Piatti “da trattoria di una volta” cucinati con tempi lunghi, da apprezzare in tempi altrettanto lunghi magari con un buon vino accanto.

A proposito di vini, a parte i Franciacorta di un’ottima cantina che confina praticamente con il ristorante, la carta si restringe ad alcuni rossi di territorio, Cellatica in testa. La particolarità e che si tratta di vini giovani, gastronomici, proposti a prezzi di vera d’affezione, che non fanno rimpiangere rossi di altre zone più famose.

La Gallina

Se, dopo antipasto, primo e secondo vorrete chiudere con il dolce (ma vista l’abbondanza delle porzioni potrebbe essere difficile) provate la torta di mele e ci ringrazierete. Alla fine, dall’antipasto al dolce non arriverete ai 40 euro, vini esclusi, ma per un normale pranzo la cifra si attesterà sui 30 euro, sempre vini esclusi.

Sono stato da Belotti almeno quattro o cinque volte, ogni volta ho mangiato benissimo ma mi sono sempre tenuto, egoisticamente, per me il “segreto” di questa vera trattoria. Anche l’ultima volta, assieme ai redattori di Winesurf che erano con me, avevamo deciso di tenere nascosta una simile chicca al grande pubblico. Però non ce l’ho fatta a resistere, perché la Trattoria Belotti va provata.

InvecchiatIGP: Gaja - Barolo Sperss 1993


di Roberto Giuliani

Se non ricordo male ho degustato questo Barolo di Angelo Gaja 22 anni fa, ricordo che ne fui impressionato, grande eleganza, profondità e una complessità davvero esemplare. Allora c’era ancora la nostra moneta e lo pagai circa 70mila lire. Oggi si trova online a prezzi decisamente diversi, da un minimo di 290 a oltre 420 euro, cifre non astronomiche per un suo vino, ma figlie anche di un’annata non straordinaria in Langa, anche se personalmente continuo a ritenere sbagliato sentenziare in modo generalizzato qualsiasi millesimo, tante sono le variabili in un Paese davvero eterogeneo come il nostro.


Di certo aprirne un’altra bottiglia oggi, a 29 anni dalla vendemmia, mi provoca qualche brividino, per fortuna il tappo ha retto bene, umido per un terzo ma del tutto integro una volta estratto. 
Non mi soffermo a parlare di un mito dell’enologia come Angelo Gaja, conosciuto in tutto il mondo e personaggio fondamentale sul piano della comunicazione in un’epoca in cui non esistevano internet, cellulari, social e via discorrendo; ricordo solo che, non senza aver ricevuto numerose critiche dai più duri e puri, fece di tutto per far cambiare i disciplinari di Barolo e Barbaresco; senza arrivare agli estremismi di Rivella a Montalcino, quello che gli interessava era introdurre la possibilità di una percentuale di altre uve a fianco del nebbiolo (3%), barbera in particolare, motivandone a lungo le ragioni. Ovviamente non è importante la percentuale, ma il fatto di consentire anche se di pochissimo l’ingresso di altre uve in questi due storici vini. Una volta effettuata la modifica, non è poi così difficile intervenire gradualmente per aumentarla o meno. La faccenda non è andata a buon fine, così Mr. Gaja ha preferito declassare il Barolo DOCG Sperss in Langhe DOC Sperss, forte del suo nome e dell’eccellente apprezzamento dei suoi vini all’estero. Il Langhe Sperss, infatti, vede al fianco del nebbiolo una quota variabile di barbera secondo l’annata, tra il 5 e il 10%.


Questo invece è proprio un Barolo, senza discussioni, lo si capisce già dal colore, un granato dall’impressionante lucentezza, premessa di una probabile ottima salute del vino. E in effetti, una volta versato e atteso qualche minuto di rito per farlo ossigenare, sbaraglia subito qualsiasi dubbio sulla sua integrità, sentire ancora la presenza di viola e rosa dopo quasi trent’anni è già di per sé un fatto straordinario. Ma quello che più mi ha impressionato è la perfezione del frutto, senza alcuna sbavatura ossidativa (né all’inizio, né dopo un’ora dall’apertura), frutto bellissimo, ancora “fresco”, tanto da ricordare molto bene la ciliegia, non candita e non in confettura ma solo matura, al punto giusto. Poi la liquirizia, una deliziosa venatura balsamica, fatico a cercare tracce di un terziario spinto, di goudron, funghi, cuoio, cenere ecc.


Davvero impressionante, potrebbe essere un Barolo di meno di 10 anni, impossibile ipotizzarne di più. Ma vediamo se al palato è altrettanto sorprendente: niente, inutile tentare di sentire quello che non c’è, l’unica traccia un po’ più evoluta, ma parliamo di quisquilie, è nella lunga persistenza retrolfattiva, un accenno, come a dire “sto pensando di mettermi la canottiera, c’è qualche spiffero…”. Per non parlare del tannino, un velluto sotto un cesto di frutta, pura poesia! La speziatura è raffinata, amplessi fra ginepro e pepe rosa, una punta di chiodo di garofano e solo sul finale un afflato di goudron. Che vino…


Ma oggi, con i mutamenti climatici e le nuove tecniche di viticoltura e vinificazione, siamo ancora in grado di fare vini così longevi e in salute? Lascio alle nuove generazioni di enopatiti il compito di scoprirlo.

Strappelli - Cerasuolo d’Abruzzo 2021


di Roberto Giuliani

A Torano Nuovo (TE), Guido Strappelli coltiva in bio 12 ettari di vite. Il suo Cerasuolo strappa l’applauso per il bellissimo gioco di piccoli frutti rossi che invadono i sensi al naso e al gusto, ha slanci floreali; un sorso tira l’altro in modo davvero pericoloso, finale perfetto e non amaricante.

Terre di Vite: la Xª edizione all’insegna della rinascita con 150 vignaioli da tutta Italia


di Roberto Giuliani

Uno dei tanti problemi recati dai provvedimenti necessari a contenere la diffusione del sars-cov2 è stato sicuramente quello della distanza sociale, che come ben sappiamo ci ha fatto trascorrere 2 anni in una situazione di limbo in cui ogni giorno cambiavano regole e restrizioni. Difficile dimenticare i periodi delle regioni in verde-giallo-rosso, le fasi in cui non potevi uscire di casa, poi dal comune di residenza, poi dalla regione, poi dall’Italia. Mascherine, vaccini 1,2,3 e 4, delivery, greenpass, riaperture, focolai e nuove chiusure, eventi annullati, cinema e teatri chiusi, scuole chiuse a singhiozzo, ristoranti e negozi sul lastrico, drammi famigliari e le mille altre problematiche che hanno occupato la cronaca per tutto questo tempo. 

Certo, vedere da Fazio il Burioni in collegamento da casa, con il covid a una settimana dalla quarta dose del vaccino, dà adito a numerose riflessioni… 

Ma non siamo qui per parlare di virus, bensì del ritorno di Terre di Vite, evento nato nel 2009 dalla fervida mente di Barbara Brandoli, al quale ho dato con gioia la mia collaborazione per tutte le edizioni successive. Quest’anno, dopo 2 anni di fermo per le ragioni precedentemente enucleate, siamo ripartiti carichi e decisi a fare una decima edizione davvero superba, con un tema scelto non a caso: “Rinascita”, inteso “come volontà di lasciarci alle spalle un periodo difficile per tutti e come prospettiva positiva e costruttiva orientata ad un futuro più fluido. Un trait d’union che accomunerà i seminari, le degustazioni guidate, le mostre e le performances artistiche che animeranno le giornate di sabato 22 e domenica 23 ottobre”. 


Tante novità, a partire dalla location, che questa volta sarà la splendida Villa Cavazza a Bomporto (MO), spazi enormi in un ambiente accogliente e ricco di storia (all’interno anche un museo degli attrezzi per la vinificazione e un’acetaia storica). Mai come in questa edizione si è pensato a qualcosa che andasse ben oltre la presenza di vignaioli e vini a banchi d’assaggio, allargando la prospettiva a convegni, laboratori, masterclass, musica e proiezioni di docu-film. 

Sabato e domenica dalle ore 11 alle ore 20 potrete degustare (e acquistare) i vini di 150 vignaioli provenienti da tutta Italia. 

Come di consueto ci sarà il direttore di Porthos Sandro Sangiorgi, al quale sono affidati un seminario e due degustazioni guidate. Al Prof. Giovanni Dinelli sarà affidato un seminario sui grani antichi aperto al pubblico. Il sabato 22 ottobre ci saranno i ragazzi de “Il Tortellante” di Massimo Bottura che ci dimostreranno in diretta come nasce il tortellino attraverso un piccolo laboratorio di pasta fresca. La domenica 23 ottobre, ospiteremo gli Chef di “Modena a Tavola” che si alterneranno proponendo piatti della tradizione e non, che andremo ad abbinare in diretta ad alcuni vini dei vignaioli presenti. Due giorni che includono anche due masterclass sull’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena D.O.P. a cura del Consorzio Produttori Antiche Acetaie e Associazione Esperti Degustatori a cura dell’Associazione Esperti degustatori di Modena ABTM e ad ingresso libero per i visitatori della manifestazione. Non mancano le proposte culturali che prevedono la proiezione, in entrambi i giorni, del Docu-Film “Motor Valley - viaggio nella terra dei motori” del regista Stefano Ferrari e del Docu-Film “Pre-British–Il Marsala prima del Marsala” del regista Andrea Mignolo. Per la parte letteraria, la presentazione del libro “Pennellate Estensi...viaggio intorno al vino” con la presenza delle autrici. La musica dei ragazzi del progetto Pedala Piano a fare da colonna sonora per gli assaggi nel giardino della villa si alternerà nei due giorni con la voce talentuosa della cantante Giorgia Morandi. L’offerta gastronomica sarà come di consueto dedicata alle eccellenze gastronomiche del territorio attraverso la presenza di alcuni food truck e banchetti con specialità emiliane posizionati nella corte interna della villa. 

Vi lascio al dettaglio del programma, ma prima voglio ricordarvi che fino al 21 ottobre potrete acquistare in prevendita QUI i biglietti d’ingresso a 22 euro anziché 25, o per tutti e due i giorni a 40 euro. (Ricordo anche che nel costo del biglietto sono compresi la tracolla e il calice). 

Per ulteriori info: terredivite.it

InvecchiatIGP: Perla del Garda – Lugana DOC “Madre Perla” 2009


Tra gli addetti ai lavori, che siano enotecari, ristoratori o giornalisti enogastronomici, spesso vi è il pregiudizio che alcuni vini bianchi, spesso figli di denominazioni di origine “minori”, siano adatti solo ed esclusivamente ad essere consumati nell’arco di un anno solare altrimenti il vino “non è più buono”, come se la qualità fosse un requisito agganciato al tempo che passa e non, invece, al momento in cui vengono vendemmiate e lavorate le uve di provenienza. 


La DOC Lugana, purtroppo, fa parte di queste DOC ancora poco considerate dal punto di vista qualitativo nonostante gli sforzi di un Consorzio che, anno dopo anno, in maniera coesa e lungimirante, sta cercando di comunicare la buona qualità media dei vini di questo territorio che ha una doppia appartenenza regionale visto che l’areale di produzione è posto a cavallo tra i comuni di Sirmione, Pozzolengo, Desenzano, e Lonato in Lombardia e Peschiera del Garda in Veneto. 


Nella Lugana il microclima, influenzato positivamente dalle brezze temperate del lago di Garda, è mite e abbastanza costante, con poche escursioni termiche tra il giorno e la notte. Una “culla climatica” perfetta per valorizzare le peculiarità di un’uva particolare come la Turbiana che, forse non tutti sanno, appartiene alla grande famiglia dei “trebbiani”. 


Perla del Garda è una delle tante aziende del territorio che da oltre venti anni a Lonato in Garda, provincia di Brescia, sta portando avanti una viticoltura di qualità senza compromessi che, grazie al lavoro di Giovanna ed Ettore Prandini, ho potuto verificare personalmente quando davanti ai miei occhi si è materializzata una bottiglia di Lugana DOC “Madre Perla” 2009 (100% turbiana). 


Dal colore giallo appena dorato, appena si mette al naso si capisce che questo Lugana è capace di emozionare anche il degustatore più smaliziato grazie ad una giovinezza e ad una qualità decisamente oltre la media. Il motivo è semplice: il naso, decisamente austero, rimanda a tocchi aromatici di cerali, mandorla tostata, castagne, sidro, glicine appassito, miele d’acacia e cenni empireumatici. Questa annata, particolarmente fresca e piovosa, è ancora viva ed elegante al sorso mantenendo, allo stesso tempo, una bevibilità a dir poco disarmante per i suoi 13 anni portati alla stragrande. 


Un Lugana sfolgorante che spegne le speranze e accende le certezze verso una denominazione che, se si è curiosi e poco pregiudiziosi, non smetterà mai di stupire!

Duca di Salaparuta – Etna Rosso “Lavico” 2020


Un’azienda storica, con quasi 200 anni di età, e un nuovo progetto incentrato sulla Tenuta Vajasindi, alle pendici dell'Etna, puntando su Carricante e Nerello Mascalese. 


Questo Rosso, proveniente dalla parte del nord del vulcano, è pura austerità che accompagna il sorso in un mix di frutta, spezie e sensazioni empireumatiche. Un vino già maturo e da bere subito!

Pio Cesare presenta l'annata 2018 di Barolo e Barbaresco


Se parliamo di Langhe, probabilmente, Pio Cesare è una delle prime realtà vitivinicole di qualità che un appassionato può nominare se non altro perché in quella Terra ha fatto la storia del vino. L’azienda nasce nel 1881 ad opera del fondatore, Cesare di nome e Pio di cognome, ed ancora oggi, ad Alba, rimane l’unica cantina operativa nel centro della città. Non solo. Dopo oltre 140 anni, Pio Cesare è ancora saldamente una impresa famigliare e, dopo la prematura morte di Pio Boffa avvenuta lo scorso anno, oggi le redini dell’azienda sono passate nelle mani della quinta generazione rappresentate dalla ventitreenne Federica Rosy, sua figlia, e dal nipote Cesare Benvenuto che già da tempo lavorava in Pio Cesare. 

Federica e Cesare - Foto: Ansa

Parlando proprio con Federica, durante una assolata giornata romana dove l’azienda ha presentato l’ultima annata di Barolo e Barbaresco, si capisce subito che, nonostante la giovane età, la figlia di Pio Boffa abbia già le idee molto chiare sulla filosofia di produzione. 


"Siamo proprietari di circa 75 ettari di vigneti situati in posizioni di grande pregio nelle Langhe (come ad esempio a Treiso e San Rocco Seno d’Elvio nella zona del Barbaresco e a Serralunga d’Alba, Grinzane Cavour, La Morra, Novello e Monforte d’Alba nella zona del Barolo) e il nostro obiettivo è rispettarli nella loro singolarità e rappresentarli nel loro insieme, fondendo le caratteristiche di ciascuna zona. Questo ci consente di produrre vini veramente “completi” ed assolutamente fedeli e rappresentativi dello stile dell’intera appellazione del Barolo e Barbaresco. È questa, da sempre, la nostra firma che si rivela anche nell’annata 2018, una vendemmia di grande qualità: una delle annate più vicine al concetto di tradizione e classicità del Barolo degli ultimi decenni e sono proprio queste le due parole chiave dello stile Pio Cesare”. 

La 2018 è stata caratterizzata da un inverno freddo e nevoso, che ha reintegrato le riserve idriche del suolo, buone precipitazioni primaverili e un’estate stabile senza eccessi di calore. Un autunno soleggiato con escursioni termiche notturne ha accompagnato lentamente la maturazione dell’uva fino al livello ottimale e alla raccolta dell’ultimo grappolo... “Alla Natura non si poteva davvero chiedere di più”, sorride Federica. Le uve di Nebbiolo da Barolo e Barbaresco sono state raccolte rigorosamente a mano tra il 5 e il 13 ottobre e hanno raggiunto la cantina che si trova (unica!) nel centro storico della città di Alba. Qui con la massima delicatezza, i grappoli delle diverse parcelle vengono sapientemente assemblati ancor prima della fermentazione secondo la “ricetta” di famiglia e poi iniziano il loro percorso di vinificazione. 


Dopo lunghe macerazioni sulle bucce per almeno 30 giorni a temperature controllate, inizia il processo di affinamento che dura per circa 3 anni, di cui almeno 24 mesi in botte grande di rovere francese e dell’Est Europa con un piccolo passaggio in barrique soltanto nei primi 12 mesi di affinamento. Segue poi un lungo riposo in bottiglia di circa 9 mesi” spiega Federica. “Dedichiamo al nostro Barbaresco Pio lo stesso periodo di affinamento del Barolo Pio (ovvero 1 anno in più rispetto al minimo richiesto dal disciplinare) perché entrambi questi vini sono figli dello stesso grande vitigno, il Nebbiolo, e soprattutto perché provenendo principalmente dal comune di Treiso e dalla vigna Il Bricco di Treiso, caratterizzata da un’altitudine elevata e da un clima più fresco, il nostro Barbaresco Pio ha bisogno di più tempo affinché i tannini si possano ammorbidire ed il vino raggiunga il pieno equilibrio tra acidità e frutto”. 


Degustando il Barbaresco 2018, nonostante la giovane età, si percepisce nettamente la precisione stilistica dell’azienda che ritrovo in un olfatto strepitoso di ribes e melograno che lascia col tempo e l’ossigenazione spazio alla viola e alla rosa. Al gusto esprime tutta la sua classe e l’equilibrio dei migliori; ha proporzione, precisione e finezza tannica, e in chiusura una lunga scia di piccoli frutti rossi leggermente maturi. 


Il Barolo 2018, elegante ed austero, sfoggia un impianto olfattivo articolato di superba finezza e complessità; complesse note sapide e fruttate lasciano spazio a sentori quasi salmastri intrecciati a note di mora di rovo, ciliegia, viola appassita, genziana e sbuffi speziati. Il sorso ha già una buona beva, più dinamico che massiccio, con grana tannica solida ma fine, in un contesto di rara piacevolezza per un Barolo appena uscito sul mercato.

InvecchiatIGP: Bellaria - Provincia di Pavia IGT "La Macchia" 1998


di Lorenzo Colombo


Il vino che andiamo ad assaggiare per la rubrica settimanale InvecchiatIGP è di un’azienda che purtroppo non esiste più, la Bellaria di Paolo Massone


Cominciamo dal nome, un aneddoto, raccontato da Gianluca Ruiz de Cardenas, produttore oltrepadano, amico di Paolo Massone la cui azienda risiede nella stessa frazione, Mairano, del comune di Casteggio, dove ha (aveva) sede anche la Bellaria. Dunque Ruiz de Cardenas, grande appassionato di Borgogna e di Pinot nero, sostiene che il nome La Macchia sia stato da lui suggerito a Paolo in quanto traduzione dal francese di La Tache, Grand Cru del comune di Vosne-Romanée, nella Côte de Nuits, nonché monopole di Romanée Conti. Cosa curiosa, dato che La Macchia è prodotto con uve Merlot. 

L’azienda Bellaria 

Un documento, presso la camera di commercio di Pavia, attesta che l’azienda è stata condotta, sin dal 1840, dalla famiglia Massone, Paolo Massone, che è stato anche presidente del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, l’ha gestita sino al mese d’agosto 2019, anno in cui l’ha poi venduta. 
La Nuova Bellaria è il nome che è stato dato all’azienda dai nuovi proprietari, la famiglia Zaffarana e Federperiti, Filippo Zaffarana è infatti co-fondatore, nel 1992 di questa associazione, nonché suo presidente da oltre vent’anni.
L’azienda è stata trasformata in Resort, pur continuando la produzione di vino, che però non viene commercializzato sugli usuali canali di vendita, ma è possibile acquistarlo unicamente in azienda. 

Il vino 

La Macchia veniva prodotto con uve Merlot provenienti da un vigneto messo a dimora nel 1990 su suoli di natura argillosa, allevato a Guyot con densità d’impianto di 5.000 – 6.000 ceppi ettaro. La prima annata di produzione è stata la 1997, anno in cui, per puntare sulla qualità assoluta del vino s’è passati da una produzione media per ceppo si quattro chilogrammi ad una di 1,5 chilogrammi tramite drastici diradamenti. L’ultima annata di produzione del La Macchia è stato il 2005, anno infausto per Paolo Massone, che in un solo anno ha vissuto la perdita di più familiari.  Nel 2019, come sopra specificato la decisione sofferta di vendere, anche perché i figli avevano scelto un’altra strada. 


Ora Paolo, col quale abbiamo avuto una conversazione telefonica alcuni giorni fa collabora col vecchio amico Gianluca Ruiz de Cardenas nella sua azienda. 
Al telefono ci ha detto che le annate migliori per i suoi vini sono state quelle a cavallo degli anni 2000 ed in effetti, consultando una vecchia guida abbiamo constatato che La Macchia 2000 aveva ricevuto il prestigioso riconoscimento dei 2 Bicchieri Rossi dalla guida Vini d’Italia del Gambero Rosso-Slow Food, non ci resta quindi che provarlo, se riusciremo a scovare qualche bottiglia di quell’annata, a tal proposito, nella ricerca nella nostra cantina abbiamo scovato un Bricco Sturnèl 1998, Cabernet sauvignon con l’aggiunta di un 20% di Barbera, ci ripromettiamo quindi d’assaggiarlo quanto prima. 

L’assaggio 

La bottiglia, tenuta rigorosamente coricata per anni in cantina, si presentava nuda, sia l’etichetta che la controetichetta erano integre ma completamente staccate, l’apertura s’è rivelata un poco laboriosa, siamo infatti riuscire a togliere il tappo in tre step. 


La prima impressione, vedendo il tappo quasi completamente colorato dal vino, non è stata delle migliori, comunque lo stesso non denotava alcun segno olfattivo di degradazione. Scaraffando il vino ecco un altro buon segno dato dal colore ancora molto bello, data l’età, granato di buona intensità con unghia leggermente sfumata verso l’aranciato.


Integro al naso, discretamente intenso, elegante ed ampio, con frutto ancora in evidenza (ciliegia matura e prugna), si colgono in sequenza note balsamiche, accenni di sottobosco e spezie dolci, vaniglia, sentori di noci, sbuffi di pepe.


Dotato di discreta struttura, asciutto, con trama tannica ancora in bell’evidenza, legno ancora presente ma ben integrato ed assolutamente non fastidioso (ricordiamoci che eravamo negli anni dove l’uso del legno, barriques soprattutto, era gestito con disinvoltura), morbido ma con buona vena acida, accenni di caffè in polvere, cioccolata calda, vaniglia e poi ancora la frutta rossa, lunga la sua persistenza su sentori di liquirizia. 

Un grande vino del quale sentiamo la mancanza.

Pratello - Garda Doc "Riesling" 2020


di Lorenzo Colombo

Da vecchie viti di Riesling provenienti dal Colle Brusadilì, nel comune di Padenghe del Garda, a 300 metri d’altitudine, su suolo argilloso di natura morenica si ottiene questo vino dal colore giallo dorato e dai sentori di frutta tropicale con accenni piccanti e con note d’idrocarburi.