InvecchiatIGP: Francesco Poli - Vino Santo Trentino Doc 1997


di Lorenzo Colombo

Sappiamo che è un poco una forzatura, e che così giochiamo facile, inserire questo vino nella rubrica InvecchiatIGP perchè, sebbene siano passati 25 anni dalla vendemmia, si può infatti affermare che un Vino Santo Trentino di quest’età, ovviamente se fatto bene, sia ancora, se non nella sua fase di gioventù, perlomeno in quella della maturità, non certo in quello della vecchiaia. II vino ci è però piaciuto così tanto che non abbiamo resistito. 

Il Vino Santo Trentino 

Il Vino Santo Trentino può essere considerato una rarità, la sua produzione è ormai assai limitata, sono solamente circa 25.000 le (mezze) bottiglie prodotte annualmente da un pugno di viticoltori riuniti nell’Associazione Vignaioli Vino Santo Trentino Doc, tra i quali l’Azienda Agricola Francesco Poli, il cui vino ci accingiamo a degustare. 

Viene prodotto con uve Nosiola e purtroppo anche questo vitigno sta pian piano diventando raro, è infatti ormai presente unicamente (in pochi ettari purtroppo) in Trentino, nella Valle dei Laghi, quella valle situata lungo il tratto finale del fiume Sarca costellata da una serie di piccoli laghi: Lamar, Santo, Terlago, Santa Massenza, Cavedine, Lagolo, Toblino. 

Qui il suolo è asciutto, ricco di ghiaia ed il clima è fortemente influenzato da due venti, l’Ora del Garda, che soffia da mezzogiorno in poi da sud a nord e quello proveniente dalla Dolomiti del Brenta.
Questo favorisce l’appassimento delle uve che, stese sulle arèle, i tradizionali graticci, spesso si spinge sino al periodo pasquale, riducendo drasticamente il peso delle uve e concentrandone zuccheri ed aromi, amplificati quest’ultimi dall’intervento della Botrytis Cinerea, la muffa nobile che sovente colpisce i grappoli. 

Il lungo periodo d’appassimento – anche sei mesi- fa si che il mosto che si ricava da questi grappoli sia assai limitato, 10-12 litri per un quintale d’uva, questo, unitamente all’alta concentrazione zuccherina (si superano tranquillamente i 400 gr/litro con punte di 470 gr/litro) fa sì che le fermentazioni, che si svolgono in piccole botti di rovere, siano assai lente.
Anche l’affinamento del vino è molto lungo e sovente si protrae anche per una decina d’anni, alla fine dei quali il residuo zuccherino del vino s’attesta sui 160 gr/litro, ben bilanciato comunque dalla spiccata vena acida che ne smorza la dolcezza percepita. La longevità di questo vino è proverbiale e supera tranquillamente diverse decine d’anni senza nessuna compromissione organolettica. 

Il Vino Santo prodotto a Santa Massenza è famoso sin dal 1500, negli “Annali, ovvero cronache di Trento” del 1648, Pincio Giano Pirro scrive: “… un banchetto molto più fastoso e ricco di portate di vini venne predisposto il 12 settembre 1536, per l’arrivo a Trento di re Ferdinando … venivano serviti di norma vini dolci, tra i quali primeggiavano il Moscato, il Bianco di Calavino… l’insuperabile Vino Santo, prodotto sui colli di Santa Massenza”.
E poi ancora, questa volta Michelangelo Mariani in “Trento con il Sacro Concilio” del 1673 scrive: “… dal famosissimo banchetto del 25 luglio 1546 offerto dal Cardinale di Trento… vini squisitissimi, bianchi, rossi e rosati dei colli di Trento e vini dolci di Santa Massenza”. 

L’azienda 

Quella di Francesco Poli è una duplice azienda, da una parte l’Azienda Agricola, con la produzione di uva e di vini e dall’altra la distilleria, per la produzione della grappa. I vigneti sono coltivati, ormai da quasi 25 anni in regime biologico, quelli dedicati alla Nosiola sono situati in località Sottovi, sulle colline che sovrastano il lago di Santa Massenza, la prima vendemmia di queste uve è stata effettuata nel 1985 e la prima produzione di Vino Santo è del 1990. 


Il vino 

La vendemmia s’effettua in genere nella prima metà del mese d’ottobre, ed i migliori grappoli rimangono in appassimento per almeno cinque mesi, la fermentazione si svolge in vasche d’acciaio, il vino viene poi posto a maturare in piccole botti di rovere e d’acacia, dove rimane per svariati anni. 


Color topazio, intenso, unghia aranciata. Intenso ed amplio al naso, complesso ed elegante, sentori di datteri, fichi al forno, uvetta passa, miele. Strutturato, pastoso, amaricante, miele di castagno, caramella all’orzo, rabarbaro, leggeri accenni piccanti, molto persistente. 

Tosca - TriBàle 2020


di Lorenzo Colombo

Nella marea di Pét-Nats che ultimamente invadono gli scaffali delle enoteche si fa notare questo TriBàle, prodotto con tre vitigni a bacca bianca (non specificati) coltivati sulle colline di Pontida.


Sapido e dalla spiccata vena acida, aggiunge, alle tipiche note “birrose” della tipologia, una netta e fresca nota agrumata che rimanda al pompelmo.

Il Rubesco di Lungarotti fa 60!



di Lorenzo Colombo

Il “Rubesco”, Rosso di Torgiano Doc, vino storico dell’azienda Lungarotti, viene prodotto sin dal 1962, la sua composizione è cambiata nel corso degli anni, pur rimanendo il Sangiovese il vitigno principale che, negli ultimi anni ha aumentato la sua quota nel blend. Le uve per la sua produzione provengono da un vigneto situato tra i 200 ed i 300 metri d’altitudine, su suoli di medio impasto, più sciolto nella parte più alta e con sottosuolo calcareo.
La densità d’impianto sino all’annata 1992 era di 3.300 ceppi/ettaro, con sistema d’allevamento a doppio Guyot, successivamente, con il rinnovo degli impianti, si è passati alla potatura a Cordone speronato e la densità d’impianto è stata portata a 4.000 ceppi/ettaro, nelle ultime annate, già dal 2009 per la verità, il Cordone speronato è diventato doppio ed i sesto d’impianto varia dai 4.000 ai 5.000 ceppi/ettaro. Il suo sistema d’affinamento non è invece mai cambiato, si sono infatti sempre utilizzate botti di rovere di Slavonia da 50 ettolitri. 


In occasione del suo 60° anniversario - come sopra specificato la sua prima annata risale al 1962 - l’azienda Lungarotti ha organizzato, martedì 31 maggio, durante l’Anteprima Torgiano, una degustazione verticale, riservata alla stampa, di sei annate di questo vino. 

L’azienda 

L’azienda Lungarotti è certamente tra le più conosciute nel panorama vitivinicolo italiano, sebbene vi si producesse vino ed olio da oltre 200 anni, è con Giorgio Lungarotti che inizia la sua fama.
Nel 1936 Giorgio si laurea in agraria con una tesi sulle tecniche vinicole, quindi inizia sin da subito ad occuparsi dell’azienda di famiglia e la trasforma in una moderna realtà, per quanto riguarda la parte prettamente agronomica, impianta nuovi vigneti specializzati, prevalentemente con vitigni autoctoni ed in pochi anni i vini da lui prodotti ottengono prestigiosi riconoscimenti. 
Scomparso Giorgio nel 1999, l’azienda, che ora dispone di 250 ettari a vigneto (230 a Torgiano e 20 a Montefalco) viene gestita dalla figlie Chiara e Teresa, dalla moglie Maria Grazia e dai nipoti Francesco e Gemma che si sono suddivisi i compiti. 

Il MUVIT

Il Museo del Vino dio Torgiano (MUVIT) è un altro fiore all’occhiello della Lungarotti, inaugurato nel 1974 è uno dei più importanti musei dedicato al vino del mondo.
Nelle sue 20 sale si trovano oltre 3.000 oggetti dedicati al vino, reperti archeologici, attrezzature utilizzate nel passato, documenti storici, contenitori di varie epoche. In pratica si tratta di una tappa obbligatoria per chi vuole conosce a fondo il percorso del nettare di Bacco. 

Ma passiamo ora alla degustazione del Rubesco: 

S’è iniziato con l’ultima annata in commercio, ovvero la 2019, dove il vino è frutto di un blend tra Sangiovese (90%) e Colorino (10%), fermentazione in vasche d’acciaio ed affinamento per un anno in botti da 50 ettolitri e per altrettanto tempo in bottiglia. Il colore è rubino purpureo, luminoso, con unghia violacea. Al naso si colgono sentori di frutto rosso speziato, ciliegia matura, legno dolce, note balsamiche. Fresco alla bocca, pulito, succoso, con un bel frutto, spezie dolci, bella la trama tannica e buona la sua persistenza. 


Un salto di dieci anni nel passato e siamo all’annata 2009, la composizione del vino è leggermente diversa, con una minor percentuale di Sangiovese e l’utilizzo del Canaiolo: Sangiovese (70%), Canaiolo (20%) e Colorino (10%). Vinificazione ed affinamento sono le stesse del precedente vino. 


Il colore, ovviamente cambia, qui siamo su un granato, di buona profondità. Al naso si presenta pulito, balsamico, elegante, con un bel frutto rosso e note dolci. Mediamente strutturato, fresco, con bella trama tannica e buona vena acida, buona la sua persistenza su note di succosità. 

La Famiglia Lungarotti

Passiamo ora all’annata 2000, Sangiovese (70%) e Canaiolo (30%) la sua composizione, che troveremo anche nei vini delle annate precedenti, vinificazione ed affinamento non cambiano. 


Dal colore granato profondissimo. Intenso al naso, dove le note terziarie la fanno da padrone, vi si colgono sentori di cuoio, di cioccolato alla menta, ma con un frutto rosso maturo ancora ben presente, balsamico ed elegante.
Anche in questo caso la struttura non è massiccia e rende assai più facile la beva, ancora molto bello il frutto che si integra con le note speziate, buona la sua vena acida e lunga la persistenza. Elegante. 


Con l’annata 1992 ci spostiamo nel secolo scorso, quel che cambia è il periodo d’affinamento del vino, dopo i 12 mesi di botte da 50 ettolitri s’è infatti affinato in bottiglia per “alcuni anni”. 


Trent’anni per un vino sono molti e si vedono già dal colore, granato di discreta intensità con unghia aranciata. Buona la sua intensità olfattiva che s’esprime su sentori di cuoio e fiori appassivi, note balsamiche e nuovamente eleganza. Discreta la sua struttura, cosa comune a tutte le annate assaggiate, elegante e fresco, con buona trama tannica e grande equilibrio complessivo, frutto dolce, buona la sua persistenza. Se dovessimo scegliere un unico vino tra quelli assaggiati sarebbe questo. 


Un balzo nel decennio precedente con l’annata 1981, %), fermentazione in vasche d’acciaio ed affinamento per un anno in botti da 50 ettolitri e per altrettanto tempo in bottiglia. 


Il colore è granato di buona intensità con unghia mattonata. Ci ripetiamo con la media intensità olfattiva e con la grande eleganza, vi cogliamo fiori appassiti e frutto ancora bel presente. Un naso notevole, probabilmente il migliore della batteria. Succoso e di medio corpo, con bella vena acida e tannini ancora in evidenza, lunga la sua persistenza su sentori di radici. 


L’ultimo vino che andiamo ad assaggiare è dell’annata 1979, dopo i 12 mesi di botte da 50 ettolitri s’è affinato in bottiglia per “alcuni anni”. 


Il suo colore è granato profondo, l’unghia aranciata. Intenso ed elegante al naso, con frutto ancora ben presente, spezie dolci e note balsamiche. Discretamente strutturato, asciutto, con tannini ben presenti, accenni speziati-pepati, lunghissima la sua persistenza su sentori di bastoncino di liquirizia.

Mare e Vitovska 2022, tutto il bello del Carso!


Mare e Vitovska è l’appuntamento annuale con il vitigno autoctono più celebre del Carso triestino, goriziano e sloveno, organizzato dall’Associazione dei Viticoltori del Carso-Kras in collaborazione con i ristoranti della zona, nella suggestiva location del Castello di Duino.


Degustazioni con abbinamenti gastronomici a cura dei ristoratori della provincia di Trieste e non solo; una degustazione guidata a cura dell’AIS di Trieste, un convegno dal tema “Vitovska, vino del Carso, espressione del suo territorio e di chi lo coltiva. Resistente ai trend della volubile moda viticola. Quale futuro ha la viticoltura legata ai vini autoctoni ed al suo terroir?”.

Saranno allestiti corner shop con prodotti tipici del Carso quali vini, formaggi, salumi, dolci, miele e olio extravergine.

IL VITIGNO

La Vitovska è un vitigno a bacca bianca, da sempre coltivato in provincia di Trieste e nelle zone della vicina Slovenia. L’origine del nome è ancora incerta ma probabilmente la denominazione del vitigno è di origine slovena. C’è chi sostiene che l’origine del nome derivi dalla parola slovena vitica (viticcio dell’uva).


A differenza di altre varietà di cui si conoscono le antiche o recenti origini, la Vitovska può essere considerata varietà autoctona; non esiste infatti traccia di altre varietà con cui identificarsi in altre regioni del Mediterraneo e la sua storia è andata perduta nelle pieghe dei secolo di tradizione locale raggiungendo, attraverso un lungo processo di adattamento e selezione, le attuali caratteristiche che consentono di dare risultati nelle terre rosse del Carso dove è capace di sopportare, frustata dalla Bora, i freddi inverni e la siccità della stagione calda.

l vino ottenuto dal vitigno Vitovska è giallo paglierino con sfumature verdoline; un vino secco, fresco di acidità, dai suadenti sentori fruttati di pera Williams e salvia, sapido, di buon corpo, con una nota minerale. Gusto gradevole e finale piacevolmente amarognolo.

Produrre vino sul Carso è difficilissimo, pura viticoltura eroica: strappare dalla roccia, metro dopo metro, con il piccone, stendere uno strato di fertilissima terra rossa ferrosa tolta faticosamente dalle doline e piantarvi una vite.

Oggi la Vitovska è regina del Carso, un territorio unico al mondo.

IL PROGRAMMA

Giovedì, 7 luglio

Cena di benvenuto presso la Lokanda Devetak – www.devetak.com

Venerdì, 8 luglio

Ore 15.30 – Convegno Vitovska e Carso – Un vitigno, un territorio e una identità da preservare
Interverranno:
Matej Skerlj, presidente dell’Associazione dei viticoltori del Carso
David Pizziga, presidente del GAL Carso – LAS Kras
Nicola Bonera, sommelier AIS
Carlo Petrini, fondatore di Slow Food
Moderatore dell’incontro, Stefano Cosma

È possibile partecipare al convegno, riservandosi obbligatoriamente il posto inviando una e-mail a info@carsovinokras.it. I posti sono limitati, al raggiungimento delle disponibilità verranno chiuse le iscrizioni.

Ore 18.00 – 22.00 – Apertura ufficiale della manifestazione
Ore 19.00 – Prima degustazione guidata, a cura dell’AIS FVG. Informazioni e iscrizioni sul posto
Ore 20.30 – Seconda degustazione guidata, a cura dell’AIS FVG. Informazioni e iscrizioni sul posto
Le degustazioni AIS verranno organizzate solo in caso di bel tempo!

Sabato, 9 luglio

Ore 18.00 – 22.00 – Apertura ufficiale della manifestazione
Ore 19.00 – Terza degustazione guidata, a cura dell’AIS FVG. Informazioni e iscrizioni sul posto
Ore 20.30 – Quarta degustazione guidata, a cura dell’AIS FVG. Informazioni e iscrizioni sul posto
Le degustazioni AIS verranno organizzate solo in caso di bel tempo!
BIGLIETTO INGRESSO: € 40,00 – durante la due giorni al castello verranno messi in vendita i biglietti solamente in caso di bel tempo. Altrimenti potrà partecipare all’evento solamente chi ha acquistato il biglietto in prevendita!

INGRESSO

BIGLIETTO INGRESSO: € 40,00 – durante la due giorni al castello verranno messi in vendita i biglietti solamente in caso di bel tempo. Altrimenti potrà partecipare all’evento solamente chi ha acquistato il biglietto in prevendita!

RIDUZIONE: € 35,00 – con tessera ONAV, SLOW FOOD e AIS

PREVENDITE: € 35,00 – al momento dell’acquisto bisognerà indicare la data scelta per l’ingresso o venerdì 8, o sabato 9 luglio. Verranno rilasciati dei biglietti con colorazione diversa a seconda della data scelta.

Bambini fino a 6 anni ingresso gratuito – 7-15 anni ingresso 15€ – dai 16 anni in su ingresso intero. L’acquisto dei biglietti con riduzione è possibile solo presso la sede dell’evento.

Le Prevendite saranno disponibili a partire da sabato 25 giugno presso le seguenti location:
BAR X V. del Coroneo, 11 – Trieste
Caffè Vatta – V. Nazionale, 42 – Opicina
Birreria Bunker, loc. Aurisina, 97 – Trieste

BUS NAVETTA

Per raggiungere la sede della manifestazione Mare e Vitovska in Morje 2022 e muoversi agevolmente, l’Associazione Viticoltori del Carso mette a disposizione il servizio di navetta gratuito sia per la giornata di venerdì che per quella di sabato. Per informazioni e iscrizioni scrivere a carsobuskras@gmail.com. Il punto di partenza è fissato in Piazza Oberdan.

InvecchiatIGP: Copertinum - Copertino Rosso Doc Riserva 2008


di Stefano Tesi

Avevo nascosto un paio di queste bottiglie talmente bene nella mia cantina che non avevo più idea di dove fossero finite. E lì avrebbero potuto restare, se cercando altro non le avessi scovate. Fosse stata una sola, l’avrei rimessa al suo posto e festa finita. 

Ma erano appunto due. E il buon uomo che in fondo è in me ha pensato: come posso negare ai miei amici IGP e ai lettori un assaggio di questo che rimane, per finezza, qualità e rapporto qualità/prezzo, uno dei miei vini preferiti? 

Così l’ho preso e – con malincuore misto a curiosità – gli ho tirato il collo. 


Si tratta di un classico salentino che non stanca mai e che, pur avendolo ribevuto tante volte, non finisce mai di sorprendermi. Nemmeno stavolta, che malignamente l’ho lasciato candire per quattordici anni. Negroamaro al 95% e Malvasia nera da vecchie vigne coltivate ad alberello. Il vino si fa poi otto anni di cemento vetrificato. Non mi perdo in altri dettagli tecnici, perché è il bicchiere che conta. 

Tappo perfetto. Colore rubino caldo medio, un po’ aranciato. 

Al naso dà un’immediata sensazione di resina, poi di variegata macchia mediterranea, quindi si apre in accenni terziari ma mai preponderanti: cuoio, funghi, tartufi, liquirizia. Riaffiora un frutto tenue ed elegantissimo, maturo ed etereo, che fa da mattatore. 


In bocca è anche meglio, un velluto delicato che se non fosse morbido parrebbe severo, pulitissimo e duraturo, di una godibilità agile che invoglia a bere, complici anche i vibranti tredici gradi che anche in estate preservano dai colpi di calore. 

L’ortodossia lo vorrebbe bevuto con carni rosse e formaggi. Io me lo sono goduto a 18° sulle penne di grani antichi condite col sugo di polpo saltato in padella. 

Datemi retta, quando il vino è buono – e questo era buonissimo – degli abbinamenti fregatevene. 

Avviso finale agli amici: l’ultima bottiglia è sotto chiave fino al 2025 almeno, inutile blandirmi.

Contini - Vermentino di Sardegna doc "Mamaioa" 2020


di Stefano Tesi

Devo ringraziare Andrea Tagliafraschi per avermi fatto conoscere questo vino dorato, dall’intenso sentore di frutta quasi esotica, che si arresta prima di diventare stucchevole e si allunga per proseguire in bocca, dove è pulito, asciutto, centrato, di estrema gradevolezza. 


Il prezzo? Non lo dico. Cercatelo, ci saranno sorprese.

Lo Zabà di Alberto Marchetti è la nostra nuova droga culinaria!


di Stefano Tesi

Mea culpa ma, fino a qualche giorno fa, nulla sapevo del gelataio torinese Alberto Marchetti e tantomeno di certe sue golose produzioni “collaterali”. Poi, durante un pranzo tra amici, l’ospite ha fatto planare in tavola dei barattolini d’un giallo inequivocabile e ha detto: volete risentire i sapori della nonna? 


Snap, snap, snap: i tappi saltano, il cucchiaino entra a fatica nel buco e di colpo mi si rimaterializzano davanti agli occhi non solo i ritratti in chiaroscuro delle amate ave, ma le chicche delle vecchie zie, le merende preparate dalle fantesche, sottane lunghe, crinoline, crocchie, teche piene di ninnoli, mobili scricchiolanti, profumi di spigo e di naftalina, cassetti chiusi da secoli e sportelli cigolanti da cui uscivano liquorini e cordiali d’antan. 
Soprattutto, però, si è materializzato lui: l’inconfondibile, desueto, arcaico zabaione. Il più antico re delle creme, l’esca maliziosa per bambini golosi ed amanti focosi. 


Il profumo è quello classico, te lo rammenti tra mille, intensissimo, con l’uovo, lo zucchero e quella coda d’alcol che subito sapeva (e sa) un po’ d’inebriante e un po’ di proibito. E con esso le domande a cui cercavi di trovare risposte in segreto, ma alla fine facendo sempre prevalere la gola sulla mente: si dirà zabaione o zabaglione, come si trovava in certi ricettari impilati in cucina? O perfino zabajone, con quell’allungo così sabaudo che evocava, almeno a me, l’iconografia di Umberto I? In bocca, che dire? E’ buonissimo, cremoso, lungo, denso al punto giusto, dolce al punto giusto, alcoolico al punto giusto. Insomma una goduria. Stucchevolezza: zero. 


Apprendo che è fatto con uova fresche di galline allevate a terra e col classico marsala, come da tradizione torinese. Ma anche se fosse di preparazione eretica cambierebbe poco, tanto è buono. Scopro che ne esiste una versione più birichina, amaricante, al vermouth bianco chinato. Lo assaggio: fulminato subito anche quello. Solo dopo che i barattoli sono stati ben svuotai da tutti i commensali il perfido amico, uno che la sa lunga, suggerisce di resistere alla tentazione di farlo fuori all’istante e di mettere il vasetto in frigo per servirlo poi, freddo, come dessert, visto che la componente alcolica gli impedirà di congelarsi. 


Così ora per sperimentarlo dovrò aspettare che mi arrivi quello acquistato on line, perché l’intraprendente Alberto ha pure un bell’e-shop dove propone anche tante altre sue specialità. Occhio, però: non mi assumo responsabilità sulla bilancia altrui. Ho già parecchi problemi a tenere sotto controllo la mia. 

www.albertomarchetti.it

InvecchiatIGP: Aganum - Falanghina Campi Flegrei DOC "Vigna del Pino" 2003


di Luciano Pignataro

A dirla tutta, di questa incredibile etichetta abbiamo già parlato, precisamente nel 2014, quando ci sembrò un miracolo il fatto che si potesse bere una Falanghina integra a undici anni dalla vendemmia. Beh, cosa dovremmo dire adesso che ne abbiamo stappata un altra sulla soglia dei vent’anni durante una mirabolante cena da Mimmo De Gregorio allo Stuzzichino di sant’Agata sui due Golfi?  Il miracolo di questo vino, prodotto in poco più di mille bottiglie da uve coltivate nel Comune di Napoli, precisamente ai bordi degli Astroni, uno dei cento vulcani spenti dei Campi Flegrei è nelle mani di Raffaele Moccia, paziente e laborioso viticoltore. 
All’epoca in azienda c’era Maurizio De Simone, un enologo che ha sempre amato la verità nel bicchiere prestandosi volentieri ai piccoli vigneron. E all’epoca Raffaele aveva avviato il lavoro delle vigne paterne nel 1990. Fra i due fu subito amore e i risultati si sono visti nel tempo, anche quando poi Maurizio volò in altri in lidi.
Nel vigneto, passato nel corso degli anni dagli iniziali te a quasi dieci ettari, ormai ben visibile sulla collina cinta dal muro aragonese e borbonico che circonda la foresta degli Astroni, piedirosso, falanghina e altre uve a bacca rossa e bianca.


Maurizio De Simone ebbe l’idea di fare un blend fra una massa lavorata in legno e una in acciaio e nacque appunto Vigna del Pino, a pendant con Vigna delle Volpi da uve Piedirosso. Nel corso degli anni il bianco è cresciuto fino a spiazzare i più sapienti degustatori per la sua incredibile performance. Ricordiamo che parliamo infatti della 2003, una delle annate più calde che la storia ricordi, la prima vendemmia da global warming anche se all’epoca non c’era tutta questa consapevolezza della gravità, ma anche delle opportunità, del problema.

Raffaele Moccia

Una delle ultime bottiglie esistenti arriva così alla nostra tavola e una volta stappata regala nel bicchiere il sole di Napoli addolcito dalla brezza marina del Golfo. Si, perché il sentore di cedro, agrumato maturo, macchia mediterranea, il rimando di idrocarburo profondo e ampio, regala un profilo olfattivo ricco, rilassante, estremamente piacevole. Soprattutto quando passa il tempo per quel po’ di ossigenazione necessaria che rende ancora più tonica e vibrante la bevuta.
Una esperienza incredibile, qualche mese ai vent’anni per una Falanghina a cui nessuno dava un anno di vita quando fu vendemmiata. L’ennesima prova che per bere bene serve soprattutto tanta cultura condita da altrettanta pazienza.

Tenuta San Leonardo - Vigneti delle Dolomiti "San Leonardo" 2017


di Luciano Pignataro

La purezza della frutta delle Dolomiti in questa edizione non facile, gestita alla grande tra vinificazione in cemento e maturazioni in barrique di diversi passaggi. 


Frutta rossa croccante, freschezza, corpo. Già pronto adesso, ma ben disposto ad invecchiare.

Lo stile classico del Siepi di Castello di Fonterutoli alla prova del tempo!


di Luciano Pignataro

La presentazione dell’annata 2020, in commercio da settembre dopo il passaggio alla Place de Bordeaux, è stata l’occasione per fare il punto della situazione di uno dei più famosi vini italiani che hanno fatto la storia negli anni ’90 e che adesso possono considerarsi un vero classico.

Credit: Angolo del Gusto

Il vino prende il nome dalla omonima vigna di circa sei ettari del comune di Castellina in Chianti da una intuizione di Lapo Mazzei che realizzò il blend fra Sangiovese e Merlot nel 1992, giusto trent’anni fa. Siamo fra i 220 e i 310 metri sul mare, un fitto bosco circonda e protegge questa vigna esposta a sud-est, secondo i tipici canoni dell’epoca, i suoli sono scheletrici, calcarei, poveri di sostanza organica e con poca capacità di ritenzione idrica. Insieme all’alberese è presente anche una buona percentuale di argilla. 
Ancora qualche notizia sugli impianti: il Sangiovese è stato piantato nel 1997 e nel 2011 da selezioni massali dei migliori cloni dell’azienda con una densità di 5800 piante per le viti anni ’90 e 6600 per quel del decennio successivo. 

Con Lapo e Filippo Mazzei

Il Merlot è invece presente sin dal 1986, anche in questo caso da selezioni massali dell’azienda. Il vigneto fa parte della proprietà del Castello di Fonterutoli che i Marchesi Mazzei posseggono dal 1435. L’iniziativa di abbinare un’uva internazionale con una autoctona è stata abbastanza comune all’inizio degli anni ’90 da Nord a Sud ed era all’epoca dettata da due motivazioni fondamentalmente: la prima è che sui vari Merlot, Cabernet, Chardonnay c’erano già migliaia di studi che avevano reso comprensibile il comportamento di questi vitigni in campo come in cantina mentre degli autoctoni italiani si sapeva ancora molto poco. Il secondo motivo, più commerciale era quello di dare leggibilità alle uve del Belpaese attraverso il passaporto di quelle estere dando al tempo stesso un tocco di originalità territoriale. Il bilancio di questa tendenza non è stato mai tirato anche perché i comportamenti sono diversi, le percentuali e i protocolli usati variano da cantina in cantina. In generale, possiamo affermare che quando l’unione dei due o più vitigni è espressione di buona agricoltura e buona pratica di cantina, questi vini sono diventati grandi classici. Cito il Montevetrano in Campania e il Gravello di Librandi in Calabria o, per restare Toscana, il 50&50 (nomen omen).

Castello di Fonterutoli

Il protocollo di fermentazione del Siepi è sempre stato lo stesso: al momento il global warming non ha modificato le condizioni pedoclimatiche del vigneto che regala uva perfetta: la fermentazioni in tini troncoconici da 100 ettolitri parte grazie ai lieviti autoctoni. Ovviamente le due uve sono lavorate separatamente, il Sangiovese affina in tonneaux mentre il Merlot in barrique.


La presentazione del 2020 è stata fatta da Nonna Chic a Firenze, le diverse annate sono state accompagnate dai piatti del cuoco stellato Vito Molliva che proprio qui sta per iniziare la nuova avventura. L’azienda, che celebra la chiusura del 2021 con più 45%, era rappresentata, oltre che dai fratelli Filippo e Antonio dall’ultima generazione, la trentaquattresima per la precisione, Giovanni e Lapo, già da tempo al lavoro rispettivamente come responsabili dell’export e direttore commerciale. 

Siepi 2020 

Abbiamo ormai gli anni per sentire dal produttore che l’ultima vendemmia è la migliore, ma nel caso della 2020 non possiamo che essere d’accordo. Ci ha colpito la completezza del vino, dal naso ricco di frutta con freschi rimanda balsamici, al palato vengono mantenute le promesse olfattive. Pieno, di corpo, in assoluto equilibrio, complesso. E anche se ha davanti a se una lunga vita come tutte le versioni precedenti, possiamo dire che stapparlo subito non è un delitto. Siamo convinti che farà strike di premi e riconoscimenti. Le notti fredde di aprile hanno un po’ ridotto la produzione, che alla fine si attesta sulle 29mila bottiglie per un prezzo che sul web oscilla fra i 103 e i 112 euro. 

Siepi 2019 

In precedenza eravamo convinti di aver toccato il massimo proprio con l’annata 2019, attualmente in commercio, definita dalla stessa azienda come classica grazie ad un inverno/primavera sufficientemente piovosi e una estate calda e regolare senza picchi eccessivi. Una annata buona un po’ in tutta Italia. Anche questo Siepi, rosso rubino vivo come il precedente, co ha particolarmente colpiti per essere completo, pronto, elegante, fresco, con una chiusura precisa, pulita e appagante. Una grande bottiglia che può essere stappata anche subito. In produzione 35mila pezzi. 

Siepi 2018

Anche questa annata esprime un vino dalla perfetta corrispondenza fra naso e bocca. Un Siepi maturo, di corpo, di ottima e fine beva, decisamente veloce al palato con un rimbalzo nel finale lungo, pulito. Sentori di frutta rossa croccante e fresca al naso e in bocca, note balsamiche, rimandi di tabacco e macchia mediterranea. Sulle 38mila bottiglie. 

Siepi 2017 

Annata complicata, con una delle primavere più piovose degli ultimi 30 anni, estate con punte di caldo ma anche con improvvisi temporale. Non è stato facile portare la frutta in cantina ma alla fine, grazie alla manualità della gestione del vigneto Siepi, il risultato è arrivato. Rispetto agli altri è più sottile, il naso resta incollato sul frutto rosso, al palato rivela una grande eleganza e finezza che lo rendono piacevole e amabile. Bellissima chiusura. 29.500 bottiglie.

Siepi 2016 

Impossibile, a sei anni dalla vendemmia, parlare del tempo per un vino come il Siepi che nella versione 2016 ha ancora un colore rosso rubino vivo come quelli che l’hanno preceduto. Annata a macchia di leopardo, così è stata definita ma che i Toscana è andata sostanzialmente bene sia Montalcino che nella zona del Chianti Classico. Il vino si presenta agile, freschissimo, elegante, ricco di frutta e di note balsamiche al naso, piacevole la chiusura. Ancora giovane ma pronto per lo stappo. 25mila bottiglie.

Conclusioni 

Il Siepi è uno di quei vini da cui non si può prescindere quando parliamo di vino italiano. Non solo per la costanza e la sua affidabilità nel tempo, ma anche per essere una compiuta espressione di un vigneto. Gioca le sue carte dunque sulla terra più che sul vitigno in quanto tale, una tendenza, anzi, un ritorno, sempre più marcato. Dopo anni in cui si è inseguito il vitigno autoctono come segno distintivo di territorialità, si torna a considerare la terra su cui vengono piantate le viti il vero, e non replicabile, elemento distintivo. Insomma, la perfetta applicazione del materialismo dialettico che alla tesi contrappone l’antitesi per arrivare alla sintesi. Senza scomodare Hegel e i suoi epigoni, un segno di maturità in un mondo del vino ancora incredibilmente, e inutilmente, ideologico.



InvecchiatIGP: Sergio Mottura - Latour a Civitella 2005


di Carlo Macchi

Le caratteristiche dei vini di Sergio Mottura si possono capire da lontano, diciamo almeno 30/40 metri. Questa è infatti, più o meno, la distanza della cantina storica dall’arco austero, granitico, che non permette ad auto inutilmente larghe di accedere alla piazza dove si trova non solo l’azienda ma anche il loro agriturismo. 


Infatti i vini di Mottura non sono certo larghi. Sono fini, eleganti, in qualche caso austeri, sicuramente granitici nell’affrontare il tempo e potrei andare avanti con molte altre belle caratteristiche. Lo abbiamo scoperto nell’ incontro in cui Giuseppe Mottura, figlio di Sergio, ci ha fatto fare un viaggio all’indietro nei suoi vini e nella loro idea di vino, culminato con un Latour a Civitella del 2005. 


La loro idea di vino coincide praticamente con un vitigno, il grechetto, che nei terreni attorno a Civitella d’Agliano ha trovato forse la sua massima espressione. 
Tutti conoscono la storia del nome del vino bianco più importante della cantina (del lazio e non solo…) e quindi non starò a ripeterla, ma uno spunto va preso perché la vinificazione del La tour a Civitella è sempre stata la stessa: fermentazione in acciaio fino ad una certa gradazione alcolica e poi messo in barrique (di Latour naturalmente) per la parte terminale. Un cambiamento però c’è stato e cioè la diminuzione del tempo di permanenza in legno. Con il 2020 siamo a circa 12 mesi ma questo 2005 ne ha fatti sicuramente molti di più.


Capisco che voi adesso vorreste sapere qualcosa sul vino, ma servirà ancora qualche attimo di pazienza per inquadrare meglio una degustazione che ha messo in campo quasi tutte le annate importanti (non ho detto migliori, sarebbe stato troppo facile) degli ultimi 15/20 anni. Quello che ne è uscito è un preciso filo conduttore (di cui parleremo diffusamente per il Club Winesurf tra qualche giorno) che dal 2020 del Latour a Civitella, attraversando gli altri bianchi aziendali (cioè l’Orvieto Tragugnano e il Poggio della Costa) ci porta fino a questo 2005 che, tra l’altro è sicuramente il bianco italiano dotato di tappo stelvin più vecchio che io abbia bevuto. Ultima annotazione prima di entrare nel bicchiere su una meravigliosa frase di Giuseppe “L’uva si ricorda sempre dell’annata e se ne ricorda meglio dopo anni”.


E la 2005 è stata un’annata che a me e a Giuseppe è sempre piaciuta molto. Punta più sull’equilibrio che sulla potenza, è certamente una vendemmia considerata allora inferiore a molte. Una “piccola differenza” sulla valutazione della vendemmia: Giuseppe parlava dei bianchi mentre io, come penso la stragrande maggioranza di chi ci legge pensa, anche senza volerlo, alle vendemmie dal punto di vista dei vini rossi. Una pecca a cui dovremmo metter mano. 

Sergio Mottura

Ma alla fine questo 2005 è nel bicchiere: il colore è giovanile, un paglierino intenso e brillante. Per Il naso occorre usare una parola non di moda: minerale. Infatti la pietra focaia è ben presente sin da subito, accanto a fiori di campo e ad erbe officinali. Naso austero e quasi ritroso, ma che in pochi minuti ti conquista. Però è la bocca ad essere incredibile: intanto l’eleganza e la “rettitudine gustativa” dei vini di Mottura qui si esalta. Il vino ha croccante freschezza (frase rubata a Giuseppe), finezza e una struttura che lo porta ad una lunghezza gustativa incredibile, senza cedere di un millimetro. L’uva del 2005 si è ricordata benissimo delle sue caratteristiche e adesso le esalta, dopo 17 anni, periodo importante anche per la stragrande maggioranza dei vini rossi, italiani e non. 


Questo non è stato solo un assaggio di un grande vino, è stato un insegnamento per me e per tutti quelli che stentano a credere alla possibilità di fare grandi bianchi da invecchiamento in ogni parte d’Italia.

Mosconi - Veneto IGT Passito Bianco 2006


di Carlo Macchi

Nel mondo dei passiti, ormai ridotto a un piccolo pollaio, un vino del genere è un vero gallo nel pollaio. Da garganega 100% è buono al 200%.


Concentrazione e complessità di frutto incredibile al naso, con una suadente ma maschia e infinita dolcezza in bocca. Un vino quasi inarrivabile, chapeau!

Da Carlo ad Orvieto è un indirizzo sicuro per chi vuole mangiare bene in Umbria!


di Carlo Macchi

La via centrale di Orvieto e purtroppo simile a quella di tanti altri centri che vivono di turismo e di vino: ristoranti, trattorie, enoteche, vendita di prodotti tipici, bar si dividono gli spazi principali. 

Abbastanza spesso i prodotti tipici che vengono venduti, non solo a Orvieto ma “dalle Alpi alle Piramidi e dal Manzanarre al Reno” non sempre sono tipici e soprattutto non sono di alta qualità. Questo ragionamento, per traslato, arriva alla ristorazione e quindi bisogna selezionare con attenzione i luoghi con “cucina tipica” dove ci fermiamo. 


Da Carlo non è proprio nel corso di Orvieto ma in una stradina laterale che “filtra” molto la clientela e ti porta in una piazzetta abbastanza ombreggiata che sembra fatta apposta per mettere dei tavolini all’aperto e mangiare in tranquillità. Naturalmente ci sono anche gli spazi interni, due piccole ma accoglienti salette con dei simpatici e colorati quadri alle pareti. L’apparecchiatura è corretta e dignitosa, consona ad un locale dove non si spendono certo cifre astronomiche ma che ci tiene a mantenere lo standard ad un buon livello. 
Lo standard e tutto il resto lo garantisce Carlo, proprietario e deus ex machina del locale, un giovane che unisce la simpatia al mestiere, con quel tocco di “sana irriverenza” che crea subito un buon feeling. 


Il buon feeling viene immediatamente rafforzato da degli antipasti semplici ma sostanziosi, come la bruschetta con la purea di fave e finocchietto o quella classica col pomodoro. Fin dall’inizio si capisce che il locale e di cucina tipica umbra, ma il livello qualitativo è sicuramente alto. La conferma sono gli umbricelli (una specie di pici più corti e di forma irregolare) con il tartufo nero e soprattutto il piatto che fa da cartina tornasole della qualità in ogni locale del mondo: le polpette. 

Umbricelli

Da Carlo si mangiano con una densa e saporita salsa di pomodoro ma soprattutto la carne e gli altri componenti non sono il risultato di un “assemblaggio” di rimanenze da frigo, bensì un’esaltazione della carne fresca e di un equilibrato uso di spezie non invadenti. Anche i fagioli cannellini con il tartufo nero sono buoni aldilà dell’ottimo tartufo e finiamo prima dei dolci perché le porzioni sono indubbiamente abbondanti. 

Polpette 

I vini sono quelli locali, quindi soprattutto Orvieto DOC, anche perché la moglie di Carlo è una valente produttrice. Il prezzo, comprensivo di tre portate e del contorno (escluso il vino) non supererà i 35/40 euro, quindi più che corretto, specie per la qualità mostrata nei piatti e nella scelta delle materie prime. 


Alla fine non mi sono potuto esimere da fare una foto con Carlo, sotto la scritta da Carlo: un trittico "carlesco" che non offusca minimamente quello meraviglioso della facciata della Cattedrale di Orvieto, distante poche centinaia di metri da questa ottima trattoria.

Bere e mangiare bene a Roma? Facile, da Quartino a Piazza Vittorio!


L’Esquilino è uno dei rioni del centro storico di Roma, a pochi passi dalla Stazione Termini, è ormai da anni il cuore multietnico della Capitale, un melting pot di culture e tradizioni che rende questo quartiere, dal punto di vista enogastronomico, un luogo dove sperimentare le migliori cucine etniche della città. 

Cuore pulsante dell’Esquilino è sicuramente piazza Vittorio Emanuele II, costruita nel 1870 e dedicata al primo re d'Italia, al centro della quale l’architetto Carlo Tenerari creò un giardino, ornato con viali di ghiaia, piante di vario genere – come magnolie, palme, cedri del Libano, platani – e un laghetto con al centro un’opera statuaria di Mario Rutelli, proveniente dalla Fontana delle Naidi di Piazza della Repubblica. Difronte al laghetto, un importante rudere romano, i Trofei di Mario, lasciati proprio lì dove erano collocati originariamente. 

Lo Staff di Quartino con al centro Marco Wu. Credit: Radio Food

Piazza Vittorio, e le vie adiacenti, è anche il luogo dove da anni la comunità cinese di Roma ha instaurato il suo quartier generale economico grazie alla creazione, a partire dagli anni ’80, di tanti negozi, ristoranti ed attività commerciali che negli ultimi tempi hanno innalzato, fortunatamente, l’asticella della qualità cercando di valorizzare l’offerta enogastronomica del quartiere che oggi, più che mai, ha bisogno di essere rilanciato. Ad aiutare l’Esquilino a centrare questo obiettivo sfidante, ci stanno pensando Marco e Giacomo Wu che da circa un anno hanno aperto sotto i portici di Piazza Vittorio un bellissimo locale chiamato Quartino, una enoteca di circa 80 metri quadri che punta su una selezione di grandi etichette italiane e francesi a cui si affianca una cucina moderna con interessanti risvolti fusion. 

I portici di Piazza Vittorio - Credit: Romeing

A gestire e soddisfare i fabbisogni edonistici di una variegata ed attenta clientela, come detto, ci sono i I fratelli Wu, impegnati da tempo con i genitori (giunti in Italia nel lontano 1976) nell’esportazione di grandi vini in Cina e nella distribuzione all’ingrosso di prodotti per i ristoranti cinesi in Italia. Marco e Giacomo, spinti dalla loro passione per l’enogastronomia, hanno colto al balzo l’opportunità per proporre una realtà che potesse conquistare gli appassionati grazie ad un’offerta di vini con pochi eguali: “La nostra cantina, situata al piano sottostante, può vantare quasi 2.000 etichette: vini italiani ed esteri, francesi in particolare (Borgogna, Bordeaux e Champagne), bottiglie di Maison rinomate, ma anche di piccole realtà produttive. C’è spazio anche per i vini biologici nella nostra cantina in costante evoluzione, grazie ad un lavoro di ricerca frutto della preziosa collaborazione della sommelier Jacqueline Margaret Capuzzi” sottolinea Marco. 


La filosofia di Quartino è semplice ma efficace: rendere accessibile ogni prodotto a tutti, anche quelli di fascia alta, soprattutto grazie alla mescita di bottiglie come il Conterno Monfortino, il Sassicaia, il Tignanello e il Brunello di Montalcino Poggio di Sotto, e di champagne come il Louis Roederer, il Pol Roger, il Moet Hennessy, il Dom Perignon e il Krug che variano ogni due settimane. Un locale “democratico” con vini per tutte le tasche con la possibilità di avere gli stessi costi sia che si consumino in enoteca siano che siano da asporto. 


Nel menu, che cambia spesso, trovano spazio non solo proposte semplici come le bruschette, ma piatti come la tartare di filetto di manzo aromatizzata con il cognac, fondo a base di acciughe e prezzemolo e capperi di Pantelleria, le fettuccine al ragù d’anatra con sbriciolata di noci e mirtillo e i tonnarelli con guanciale e cipolla caramellata. Da non dimenticare anche la proposta di carne (costata di manzo, costolette di agnello) e di pesce (frittura, polpo arrosto con purea di patate), la selezione di ostriche, i dumpling con salsa ai funghi, il bao con pulled pork e i taglieri di salumi e formaggi che spesso provengono dai migliori artigiani della Toscana.



Oltre alla proposta dei vini e degli champagne anche una drink List con otto grandi classici della miscelazione e altri cocktail realizzati personalmente da Marco, da tempo appassionato di Mixology. Quartino, enoteca con cucina, situato in Piazza Vittorio Emanuele II, 103, è aperto tutti i giorni (chiuso la domenica) dalle 10 della mattina, con caffetteria e selezione di tè, fino all’1 della notte.