InvecchiatIGP: Oasi degli Angeli - Kurni 1997


di Roberto Giuliani

Se c’è un vino che per longevità può competere con i più blasonati vini al mondo, questo è sicuramente il Kurni di Marco Casolanetti ed Eleonora Rossi in quel di Cupra Marittima (AP). 


La ragione? Molto semplice (si fa per dire), quando negli anni ’90 in Toscana stavano spopolando i supertuscans, era già evidente che il mondo del vino stava cambiando radicalmente, spuntavano iniziative e idee del tutto nuove rispetto a ciò a cui eravamo abituati. Così non deve stupirci se Marco ed Eleonora, visto il luogo incantato, i suoli poveri, le condizioni complesse ma estremamente stimolanti che avevano di fronte, decisero di pensarla in grande, di fare qualcosa che, almeno in quel territorio marchigiano, nessuno aveva mai fatto prima. Così il loro primo Montepulciano è nato in una vigna ad alberello, su suolo sabbioso e sassoso, con una fittezza d’impianto elevatissima e una resa di soli 20 quintali a ettaro. Infatti questa prima annata era di sole 2.500 bottiglie. Una chicca, un vino di 15 gradi alcolici in un’annata sì calda, ma certamente non come le successive 2003 0 2017 e quelle a cui ormai siamo abituati oggi, segno quindi di un metodo di lavoro in vigna e cantina che puntava a una concentrazione e potenza notevoli. 

Ma la cosa che davvero impressiona, oltre a un’intensità espressiva che ha pochi eguali, è le potenzialità di invecchiamento, davvero stupefacente. 

Stappata questa 1997, prima annata in assoluto, ne ho avuto piena conferma, mai e poi mai potresti pensare che ha 25 anni di vita, già dal colore ancora rubino cupo, appena segnato all’unghia da una sfumatura granata, ma soprattutto accostato al naso: laddove normalmente trovi una terziarietà spiccata (anche se hai davanti un Barolo Riserva), note di funghi secchi, goudron ecc., qui è ancora il frutto a dominare la scena alla grande, in confettura certo, ma per nulla surmaturo, è un vino assolutamente vivo e quasi fermo nel tempo, bisogna scavare a lungo per trovare tracce evolutive più decise, ma sono solo tracce, appunto, vincono le note di ginepro, spezie fini, cacao, sottobosco appena accennato e una finezza d’insieme davvero invidiabile. 


All’assaggio è perfettamente in linea, con una freschezza che non ha cedimenti e una succosità che avvolge i sensi, persistenza lunghissima e alcol perfettamente integrato. Forse oggi non è il vino che tutti cercherebbero a tavola, si va verso tipologie più leggiadre, meno intense, ma onestamente questo 25 anni li ha superati alla grande, non so quanti potranno vantare le stesse potenzialità. 

P.S. Mentre scrivevo, è arrivata una grandinata violenta, con chicchi grossi come noci e un vento prossimo alla burrasca, la temperatura è scesa di almeno 15 gradi, sembra inverno…

Cantina Giagnacovo - Orovignale 2019


di Roberto Giuliani

Ancora oggi dei vini del Molise non si sa quanto si dovrebbe sapere. 


L’Orovignale, moscato bianco della Cantina Giagnacovo di San Biase (CB), è un coup de coeur, profuma di arancia gialla, mandarino, salvia e pesca. Il sorso è delizioso, fresco, con note di miele e frutta candita, beva irresistibile.


Fattoria Varramista - Varramista 2016


di Roberto Giuliani

La Fattoria Varramista (a proposito, per coloro che non lo sanno, l’accento va sulla seconda sillaba, non sulla terza) si colloca in un ambiente isolato, fuori dal mondo, se non vai a visitarla non ti rendi conto di come possa esistere una simile meraviglia a pochi chilometri dal Comune di Montopoli in Val d’Arno e dall’industriale Pontedera, nella provincia di Pisa. Mentre con la macchina ti stai avvicinando alla meta, non c’è nulla intorno che possa farti anche lontanamente sospettare che tanta bellezza sia possibile in una zona così diversa e tutt’altro che attraente. Eppure è così, un luogo fatato, con una villa stupenda e alberi secolari, aria pulita, un giardino tenuto alla perfezione, fiori e insetti a volontà, respiri natura e ti rigeneri. 


Qui, poco più di 8 mesi fa, ho avuto il piacere di partecipare a una splendida verticale in presenza di Francesca Frediani, enologa che ormai ha un ruolo in azienda ad ampio spettro, dal marketing all’accoglienza, e Federico Staderini, enologo di fama stratosferica e strameritata, che ha avuto il merito di avere indicato il syrah come vitigno d’elezione in una terra le cui caratteristiche non erano affini a molte varietà di vite. Parliamo degli anni ’90, quando Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto, decise di utilizzare la villa come residenza stabile e riconvertire i vigneti a una viticoltura sostenibile e di qualità. 


Il Varramista, nato come blend di syrah, sangiovese e merlot, dalla vendemmia 2003 è diventato monovarietale, ovvero una volta che il vigneto ha raggiunto l’età giusta per non avere più bisogno di supporto. C’è da dire che questo vino tira fuori il meglio di sé con gli anni, quella verticale lo ha ampiamente dimostrato. 


La 2016 è da poco in commercio, pertanto è solo all’inizio di un lungo cammino, ciò nonostante è in grado di esprimere già una personalità affascinante, regalando profumi di prugne mature, mirtilli, gelsi neri, arricchite da sensazioni di tabacco, pepe, spezie orientali e macchia mediterranea. 


Tutti aspetti che ritroviamo all’assaggio, dove la freschezza fa da sostegno fondamentale a un frutto intenso, intarsiato dalle spezie fini, qui il pepe è ancora più evidente, il sorso si dilata e acquista profondità, il filo sapido nel finale decisamente lungo completa un quadro di indubbio valore. 

E siamo solo ai primi passi…

Fabrizio Bindocci confermato alla guida del Consorzio del vino Brunello di Montalcino

Fabrizio Bindocci confermato presidente del Consorzio del vino Brunello di Montalcino. Nominato oggi all’unanimità dal nuovo consiglio di amministrazione dell’ente consortile, Bindocci (Il Poggione) resterà in carica per il prossimo triennio. Nel corso del cda sono stati eletti anche i tre vicepresidenti: Giacomo Bartolommei (Caprili), Riccardo Talenti (Talenti) ed Enrico Viglierchio (Banfi). 


Tra gli obiettivi del prossimo mandato – ha affermato Fabrizio Bindocci – vi è certamente la volontà di consolidare un brand, quello del Brunello, sempre più riconosciuto su scala globale. I margini di miglioramento ci sono, ci attende un altro triennio intenso sul fronte della promozione e della valorizzazione dell’intera piramide qualitativa espressa da Montalcino. Siamo convinti che un Consorzio che rappresenta oltre il 98% della produzione possa fare ancora molto per alzare l’asticella del valore delle proprie produzioni affinando i target di mercato e promuovendo Montalcino quale hub culturale dell’enoturismo internazionale”. 

Fabrizio Bindocci, al suo terzo mandato di cui il secondo consecutivo, dal 1999 è l’amministratore delegato dell’azienda Il Poggione (per cui lavora dal 1976), una delle tenute storiche di Montalcino. Già vicepresidente del Consorzio tra il 1998 e il 2000 durante il primo mandato di Filippo Fanti, ha ricoperto per la prima volta la carica di presidente dal 2012 al 2016. 

Il Consorzio del vino Brunello di Montalcino riunisce oggi 214 soci, per una tutela che si estende su un vigneto di oltre 4.300 ettari nel comprensorio del comune di Montalcino (2.100 gli ettari a Brunello, contingentati dal 1997), in favore di quattro Dop del territorio (Brunello di Montalcino, Rosso di Montalcino, Moscadello e Sant’Antimo).

InvecchiatIGP: Domodimonti – Marche IGT “Passione e Visione” 2010


di Andrea Petrini

E’ abbastanza noto il mio scarso entusiasmo verso i vitigni alloctoni piantati in Italia soprattutto se il vino che ne deriva, come spesso accade, non è all’altezza delle previsioni del produttore che spesso si lascia infinocchiare dall’agronomo o dall’enologo di turno che lo spinge verso questa direzione. 


Immaginerete, pertanto, quando di fronte a me è capitata, durante una cena stampa presso l’Enoteca La Torre di Roma, una bottiglia di petit verdot piantato sulle colline di Offida. In questo bellissimo areale marchigiano nei primi anni 2000, i coniugi Francesco e Marisa Bellini s’innamorano di queste terre in una delle loro tante trasferte in Italia dal Canada, dove vivono. Le loro famiglie affondano le radici in questa terra e la tentazione di creare un luogo che potesse valorizzarla nella sua vocazione più importante, avendo cura della loro memoria, si è trasformata in un investimento di assoluta importanza 


Volevamo produrre un vino che avremmo bevuto con la nostra famiglia e condiviso con gli amici, volevamo produrlo nelle Marche dove siamo nati. Ci sarebbe piaciuto avere una cantina che rispettasse la sua terra e quindi anche le nostre radici. È scavata nella collina per non deturpare le linee del paesaggio e ho puntato da subito sul biologico e sul fotovoltaico. Quando un giorno mi sono ritrovato a produrre un numero di bottiglie troppo più grande rispetto a quelle che potevamo bere, esattamente in quel momento, è nata l’azienda agricola Domodimonti”. 


Per rendere reale questo progetto di vita, nel 2003, si piantano soprattutto a vitigni autoctoni come Passerina, Pecorino e Montepulciano, accompagnati da due internazionali di grande potenziale come Merlot e Petit Verdot. Non solo. Viene creata una bellissima cantina interrata con una bottaia che conta circa 140 barrique e 19 tonneaux che alla vista dei visitatori sembra essere un vero e proprio anfiteatro naturale in cui far riposare, ammirandone l’affinamento, il frutto del loro lavoro. Domodimonti, oggi, produce sette etichette: uno spumante charmat, due bianchi e quattro rossi tra cui un petit verdot in purezza chiamato Passione e Visione di cui ho potuto apprezzare l’annata 2010. 


Appena messo il naso nel bicchiere ho capito subito che un altro mio piccolo grande pregiudizio sui vitigni alloctoni in Italia doveva essere (parzialmente) modificato in quanto il vino, che mi aspettavo baroccheggiante e abbastanza seduto, si è rivelato fin da subito integro e assolutamente elegante con aromi ancora perfettamente centrati su prugna, ribes nero, pennellate floreale e spezie dolci. In bocca dichiara equilibrio: la freschezza, ancora evidente, spinge ritorni fruttati e di humus mentre la morbidezza del vino ben si fonde con un accordo tannico perfettamente fuso con l’età. 

Passione e Visione, nomen omen per un petit verdot marchigiano assolutamente carismatico ed inaspettato. Venite a degustare le nuove annate con  me?

La Cantina di Remo - Tintilia del Molise “Uvanera” 2017


di Andrea Petrini

Una delle perle del Molise, che esiste eccome, è la Tintilia che Roberto De Stefano produce da un piccolissimo vigneto vicino Campobasso. 


Il suo Uvanera è un rosso luminoso, vibrante, dinamico e dalla beva compulsiva grazie ad un tannino sinuoso corroborato da saporita sapidità. Poche migliaia di bottiglie prodotte.

https://tintiliauvanera.it/

G.D. Vajra: scopriamo le nuove annate dei loro vini


di Andrea Petrini

Produciamo Barolo ma non solo, perché amiamo tutti i vini della nostra terra. Crediamo nella Bellezza, nel lavoro fatto bene, nella cura dei dettagli, nell’osservazione curiosa e nella creatività che rispetta la tradizione. Siamo un’azienda familiare e artigianale. Ci accompagna una squadra giovane, entusiasta ed appassionata quanto noi. Seguiamo direttamente i nostri vigneti, perché riteniamo che sia alla base della qualità senza compromessi, ma soprattutto perché amiamo questa terra. Tutti i vini che produciamo sono ispirati alla finezza e all’eleganza. Hanno un senso del luogo e parlano dei vigneti, delle varietà e dell’annata di cui sono frutto. Armonia e personalità sono indissolubilmente uniti, così che ogni bottiglia possa essere godibile da giovane e trarre giovamento dall’affinamento.”

Questo è quello che Aldo e Milena Vaira e i loro figli Giuseppe, Francesca e Isidoro, tendono a ripetere continuamente durante gli eventi vitivinicoli a cui partecipano oppure, ancora meglio, quando li si va a trovare in cantina a Barolo, nel loro amato Piemonte, in quella parte di territorio dove l’occhio sconfina tra le meraviglie delle Langhe: La Morra, i castelli di Grinzane Cavour, Castiglione Falletto, Serralunga d’Alba e poi Monforte e Novello, fino ad attraversare la pianura e raggiungere le Alpi. 

La famiglia al completo

Questo territorio, unico al mondo, è testimone di una bellissima storia di famiglia che parte ufficialmente nei primissimi anni ‘70 quando Aldo Vaira costituisce l’azienda G.D. Vajra il cui acronimo, che precede l’antico modo di scrivere il cognome di famiglia (con la “j”), non è altro che il ringraziamento di Aldo a suo padre Giuseppe Domenico che firmò gli atti costitutivi dell’impresa famigliare visto che suo figlio, all’epoca, era ancora minorenne e con un passato da “ribelle”. Infatti, a soli 15 anni, nel 1968, Aldo fece parte delle contestazioni studentesche che portarono in piazza migliaia di giovani torinesi e il papà, per tenerlo lontano dai guai, lo spedì rapidamente in campagna dai nonni per fargli trascorrere l’estate in tranquillità. Non fu una vera punizione per Aldo, anzi, perché il tempo passato a contatto con la Natura non fece altro che acuire la sua volontà di gestire e coltivare un giorno quella Terra che sentiva propria, con la quale aveva una ancestrale affinità elettiva. 

Da bambini si sogna: chi di fare il medico, chi il falegname… il mio sogno era di fare l’agricoltore.” 


La passione per il suo lavoro e per la Natura è talmente forte che il giovane Aldo, nel 1971, aderisce a Suolo e Salute, diventando un pioniere dell’agricoltura biologica in Piemonte. Gli anni successivi, anche grazie all’incontro con sua moglie Milena, sono importantissimi per l’identità aziendale visto che sono dedicati alle selezioni private di biotipi (selezioni massali) di Nebbiolo e Dolcetto, alla scommessa del Freisa, alla scommessa circa la coltivazione dei primi ceppi di Riesling Renano in Piemonte (1985) perché, come ribadisce lo stesso Aldo, “mi sorprendeva accorgermi come un bianco tedesco e un rosso piemontese potessero, in fondo, quasi cercarsi fino ad assomigliarsi nel trascorrere del tempo”. E poi il Bricco delle Viole, la scommessa dell’altitudine, una bellissima vigna di nebbiolo del 1949 che ha insegnato alla famiglia Vaira l’arte della pazienza e ha guidato naturalmente il loro stile. 

Francesca Vaira, volto di G.D. Vajra nel mondo e responsabile dell’accoglienza aziendale, ha presentato poco tempo fa alla stampa romana le ultime uscite dei vini prodotti dalla sua famiglia. 

Di seguito, in sintesi, le mie note degustazione: 

Spumante Extra Brut Rosé “N.S. Della Neve”: questo vino, che prende il nome dalla piccola cappella che si trova alle pendici del vigneto, dedicato alla “Nostra Signora della Neve”, è un metodo classico (50% nebbiolo e 50% pinot nero) che la famiglia ha creato in onore di Thomas Jefferson che nel 1797, come ambasciatore in Francia, descrive il nebbiolo come “quasi amabile come il morbido Madeira, secco al palato come il Bordeaux e vivace come lo Champagne”. I Vaira, da innamorati della tipologia, hanno così prodotto questo interessantissimo spumante rosato delicato nei profumi di piccoli frutti rossi ma affilato come una lama di coltello che sprofonda in una mineralità bianca che richiama il terreno calcareo dove sono piantate le viti. Davvero una bella sorpresa! 


Langhe Doc Riesling “Pétracine” 2021: da vigne piantate nel 1985 piantata da Aldo Vaira a Fossati, nel comune di Barolo, e a Bricco Bertone, nel comune di Sinio, ad un'altitudine tra i 420 e i 480 metri sul mare, nasce questo vino, al momento della degustazione appena imbottigliato, che nonostante la gioventù fa presagire una complessità olfattiva giocata su sensazione di agrumi e fiori di sambuco. Al sorso è teso, sapido, rigoroso ma ancora leggermente contratto nella spinta finale. Ancora un po’ di riposo in cantina e lo vedremo al massimo della forma.


Dolcetto d’Alba OC “Coste & Fossati” 2020: Aldo Vajra, che ha sempre creduto nelle potenzialità di questo vitigno, in tempi non sospetti si è posto il problema di capire come poteva produrre un Dolcetto che evolvesse nel tempo con freschezza ed intensità. La risposta l’ha data conservando vecchi ceppi di dolcetto nei celebri vigneti di “Coste e Fossati” solitamente dedicati al nebbiolo da Barolo. Il risultato, anche in questa annata, è un vino ricco di frutta rossa, profondo e dotato di eccezionale bevibilità. Ad avercene di Dolcetto così! 


Langhe DOC Nebbiolo “Claré J.C.” 2020: il vino non è altro che una interpretazione dei giorni dimenticati del nebbiolo, quando veniva gustato nella sua veste più leggera e fresca. La vinificazione segue un vecchio protocollo del 1606 creato G.B. Croce, gioielliere di Casa Savoia, che prevede che il vino venga imbottigliato a fermentazione non del tutto completata in modo da mantenere un una bella energia e vinosità. Il risultato nel bicchiere? Un vino assolutamente goloso, invitante, da bere d’estate leggermente fresco e, a mio parere, adatto per un pubblico giovane al quale cominciare ad insegnare a bere bene.


Langhe DOC Nebbiolo 2020: come ama specificare Francesca, questo è il nebbiolo che i Vaira producono in modo che si possa percepire l’espressione più pura e trasparente di questo vitigno tanto adorato da suo papà. Per raggiungere questo obiettivo la macerazione dell’uva è lunga ed estremamente delicata, per preservare tutta l’innocenza varietale di un vino che sa di rosa, viola, petunia e ciliegia appena matura. Bocca energica e piacevolissima grazie alle giuste proporzioni di tutto. Un grande nebbiolo “base”! 


Barolo DOCG “Bricco delle Viole” 2018: questo grande nebbiolo in purezza nasce dalla vigna più alta e più vicina alle Alpi del comune di Barolo. Si sviluppa sul versante ovest di Barolo tra i 400 - 480 metri sopra il livello del mare. Il suo nome deriva dalle viole che qui sbocciano ogni primavera grazie alla splendida esposizione a sud. 


La 2018, ancora giovanissima e in divenire, regala oggi un nebbiolo di elegantissima espressione varietale con un profilo inizialmente balsamico per poi virare sui classici profumi di rosa, violetta, glicine, lampone e leggero sottobosco. Al gusto conquista per sapidità e freschezza, tutto scorre assolutamente lindo, senza increspature, in un finale assolutamente dinamico e saporito. 

"Il Bricco delle Viole è sinonimo di grazia e di eleganza. È il vino che, con la sua natura, ha guidato lo stile della nostra azienda e ci ha educati alla pazienza." - Aldo Vaira

InvecchiatIGP: Ronco del Gelso- Isonzo del Friuli Doc Chardonnay “Rive Alte” 2004


di Lorenzo Colombo

Il vino che andiamo ad assaggiare per la rubrica InvecchiatIGP non esiste più. 
O, per meglio dire, è stato sostituito - perlomeno nel nome - dallo Chardonnay Siet Vignis, nome riferito alle sette vigne -per una superficie totale inferiore ai tre ettari- dalle quali provengono le uve. Il vecchio nome “Rive Alte” (non più utilizzato) è una specie di cru aziendale dove i terreni sono molto magri ed il suolo è di natura calcarea, ricco di ghiaia. 

L’azienda 

La data di nascita di Ronco del Gelso è 1988, anno in cui uscirono dalla cantina fondata da Giorgio Badin le prime 3.000 bottiglie. Da allora di strada ne è stata fatta tanta e le bottiglie attualmente prodotte sono 150mila. L’azienda è situata a Cormons e dispone di 25 ettari a vigneto situati nel territorio della Doc Isonzo del Friuli, denominazione riportata sull’etichetta di tutti i vini prodotti. 

Il vino 

Le uve provengono da sette piccole vigne allevate a Guyot con densità d’impianto di 6.000 ceppi/ettaro, i vigneti sono inerbiti a filari alterni. Dopo la fermentazione alcolica il vino s’affina in botti di rovere da 25 ettolitri per dodici mesi sulle fecce fini. 


Ciò che colpisce, già alla vista è il colore è giallo tendente all’oro antico, luminoso, non si direbbe che questo vino abbia diciotto anni.
Intenso al naso dove si colgono note tostate, vanigliate balsamiche unite ad ancora presenti sentori di frutto giallo maturo, pesca gialla, mela matura ed un accenno di bacche di ginepro.


Strutturato con accenni tostati e di legno, sapido, frutto giallo maturo, erbe aromatiche, accenni d’arancio maturo, ancora bella la sua vena acida e buona la sua persistenza.


Un vino ancora in forma smagliante, ora che ha raggiunto la maggiore età.

Agricola Garella - Trun Vino Rosso


di Lorenzo Colombo

Di questo vino sappiamo unicamente che viene prodotto a Masserano, da vigne d’almeno 70 anni d’età, situate tra i 330 ed i 430 metri d’altitudine su suoli ricchi di minerali con uva croatina dai fratelli Daniele e Cristiano Garella.


Le bottiglie prodotte sono pochissime, la nostra portava il numero di lotto 001/2017. A noi è piaciuto molto, provatelo anche Voi.

Amorim, quando il tappo non sa di tappo!


di Lorenzo Colombo

Affrontare il discorso sulla tappatura dei vini è un’impresa irta di difficoltà e spesso soggetta a diverse interpretazioni con fautori di una tipologia di chiusure rispetto ad altre. In pratica difficilmente se ne esce, soprattutto quando le convinzioni di una parte o dell’altra, non sono supportate da dati scientifici.
Il problema maggiore non è però dovuto ai vini che sono nettamente tappati, in quel caso si cambia bottiglia ed il problema è risolto. Molto più subdolo è invece quando nel vino si trovano deviazioni che rendono il vino poco gradevole e che il consumatore medio difficilmente ascrive a problemi di tappo (in verità non sempre la colpa del difetto è dovuta alla chiusura), in questo caso si tende a collocare quel vino tra quelli da non più acquistare. 


Per cercare di chiarirci un poco le idee, noi di Garantito IGP siamo stati invitati, lo scorso 22 aprile, a visitare la filiale italiana del Gruppo Amorim, un’azienda che, con le sue 22 filiali sparse in diversi paesi produttori di vino, copre il 40% del mercato mondiale del sughero ed il 28% delle tappature per vino. 


La Amorim Cork Italia ha sede a Conegliano, lo stabilimento è stato aperto nel 1999 ed alla sua conduzione è stato chiamato Carlos Velosos dos Santos – recentemente eletto personaggio dell’anno 2022 da parte dell’Associazione Donne del Vino- il quale ne ha fatto una filiale modello, tanto da risultare la prima tra le 22 filiali mondiali in quanto a risultati. L’impianto di Conegliano occupa 70 dipendenti e gestisce le lavorazioni finali sui tappi, provenienti dalla sede madre, in Portogallo, e nello scorso anno ha commercializzato 665 milioni di chiusure per un fatturato di oltre 70 milioni d’ euro. L’ampia gamma di tappi prodotti va a coprire le specifiche esigenze di ogni tipologia di vino e le esigenze del singolo produttore, la lavorazione raggiunge infatti delle vette sartoriali, preparando tappi su misura per ciascun cliente, anche in quantitativi estremamente ridotti. 
Su richiesta il sughero viene marchiato con il nome del produttore e con l’annata del vino, utilizzando diverse tecniche che vanno dall’uso d’inchiostri alimentari, alla marchiatura a fuoco, oppure tramite laser. 


Notevole importanza viene data alla sostenibilità ed al benessere dei dipendenti, nulla viene sprecato ed anche i tappi ormai usati tornano a nuova vita sotto forma d’oggetti d’arredamento. La Amorim dispone di un reparto di ricerca e sviluppo sempre alla ricerca di soluzioni volte ad eliminare ogni interferenza data dal tappo al vino e negli ultimi anni ha messo a punto alcune soluzioni che ci sono state illustrate durante la nostra visita. 


La tecnologia Naturity®, brevettata nel 2017 e applicata nel processo produttivo dopo una prima selezione manuale dei tappi, permette l’eliminazione del TCA (ne viene garantito un livello inferiore ad 1 ng/litro, ben al di sotto della soglia di riconoscibilità) e di altri 150 composti volatili nei tappi di sughero monopezzo.
Il processo si basa su un mix tra pressione e temperatura, ovvero, lavorando a basse pressioni si riduce la temperatura di volatizzazione del TCA e di altri componenti in modo da non danneggiare i tappi con temperature elevate.
La durata di questo processo, che si svolge in appositi tank contenenti circa 20.000 tappi è di circa 5/6 ore. 


Un ulteriore tecnologia, applicabile sia ai tappi di sughero monopezzo che a quelli da spumante prende il nome di ND-Tech, il processo prevede il controllo per singolo pezzo tramite gas-cromatografia e garantisce un livello di TCA riscontrabile ancora inferiore, ovvero 0,5 ng/litro e nel flusso di produzione questa analisi è inserita dopo una seconda selezione visiva dei tappi. L’azienda dispone di dieci linee di controllo ND-Tech di prima generazione e sei di seconda generazione per un potenziale di lavorazione di 80milioni di tappi/anno (il controllo di un singolo tappo richiede 15 secondi), ed ha richiesto un investimento di 12 milioni di euro. 


Amorim è talmente sicura dell’assenza dei tappi sottoposti ai due processi che garantisce il rimborso delle bottiglie a fronte di un valore di TCA superiore a quanto dichiarato. Il problema dato dal TCA è riscontrabile anche nei tappi prodotti con microagglomerato e qui entra in gioco la tecnologia Xpür, un sistema che si basa sulla CO2 supercritica, questa tecnologia ha richiesto un investimento di 15 milioni d’euro e la costruzione di specifici reattori.
Applicato da gennaio 2021, il processo ha una durata di un’ora ed opera ad una pressione di 72 bar e con una temperatura di 31° C. 


Attualmente sono tre i reattori in funzione, con una capacità di 300 milioni di pezzi/anno ed altri tre reattori sono in costruzione.
Il sistema è in grado di garantire un valore di TCA nei microgranuli inferiore a 0,3 ng/litro. Questa tecnologia è inoltre prevista anche nella versione Xpür Qork nella quale, il collante per i microgranuli è d’origine vegetale. 
La quarta tecnologia che ci è stata presentata riguarda la sanificazione e la rimozione di TCA dalle rondelle di sughero monopezzo per tappi spumante e tappi microgranulari birondellati e prende il nome di Cork Nova, opera tramite un sistema di flussi d’aria ad 80° C. ed in un’ora è in grado di trattare da 60ad 80mila rondelle. Ogni rondella viene poi singolarmente controllata ai raggi X per verificarne la presenza di frammenti lignei. 


E’ stata un’esperienza assai interessante, che si è conclusa con una degustazione di due tipologie di vino con chiusure diverse in modo da farci percepire praticamente le differenze organolettiche dei vini dovute ai differenti tappi utilizzati.

Giovanni Bulgari ci apre le porte di Podernuovo a Palazzone


di Stefano Tesi

Ci sono casi in cui essere geograficamente "fuori da tutto" o quasi (nel senso di denominazioni di origine e non) può costituire un vantaggio e dare la libertà di fare scelte altrove impensabili o impraticabili. Se poi questa eccentricità si pone pure all'incrocio, anzi a cavallo tra regioni storicamente e culturalmente diverse, è anche meglio. Il caso di Podernuovo a Palazzone, la cantina che Giovanni Bulgari (ha lavorato a lungo come gemmologo nell'azienda di famiglia, prima di dedicarsi al vino) possiede tra Cetona e San Casciano dei Bagni, è proprio questo: estremo sud della provincia di Siena, con l'Umbria a meno di un km in linea d'aria e il Lazio a meno di otto. Alcuni dei salotti buoni del vino italiano, da Montalcino a Montefalco, dal Chianti alla Valdorcia, sono a un'ora d'auto: "se sia una distanza grande o piccola, e quindi danno o un'opportunità, è una valutazione soggettiva", dicono. 


Quel che è certo è che, in zona, Podernuovo è una realtà pressochè unica. La comprò nel 2004 Paolo Bulgari, il padre di Giovanni, facendo reinnestare le vecchie vigne abbandonate degli anni '70 con Sangiovese, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Merlot e Petit Verdot. 
Oggi l'azienda ricadrebbe in zona Chianti Colli Senesi, che però ma non mai stata rivendicato, nè pare se ne abbia intenzione. L'abbondanza di mezzi, inutile nascondersi dietro a un dito, qui è evidente. 


Al centro dei 50 ettari della proprietà, di cui 26 vitati (cinque, con Chardonnay e Grechetto, sono sul lago di Corbara, in comune di Orvieto), sta la grande cantina progettata e realizzata nel 2012 dallo studio Alvisi-Kirimoto, un'enorme struttura in cemento, legno, acciaio e vetro ("gli stessi materiali usati per la produzione del vino", fanno notare) immersa quasi completamente nella collina e mimetizzata nel paesaggio, con una centrale geotermica e pannelli solari che garantiscono, giorni di vendemmia esclusi, la quasi totale autonomia energetica. Ci sono uno chef interno, visite guidate (possibili solo su prenotazione), e una struttura ad hoc per questo tipo di accoglienza. Un resort è in arrivo. Ed è in corso la conversione biologica. 

Tutto lineare, dunque? No. 

Intanto le etichette sono solo quattro: Nicoleo (vino da tavola, Grechetto e Chardonnay al 50%), Therra (Igt Toscana, Merlot, Cabernet Sauvignon e Sangiovese in parti uguali), Sotirio (Igt Toscana, cru aziendale, Sangiovese 100%) e Argirio (Igt Toscana, Cabernet Franc 100%). E le bottiglie prodotte sono poche (tra 80 e 100mila l'anno) a fronte a un potenziale triplo. 

Le ragioni sono molte. 

La principale è che l'azienda, prima di espandere il volume produttivo, vuole portare a termine il complesso lavoro di riassetto stilistico cominciato con la dipartita di Riccardo Cotarella, enologo a Podernuovo dal 2004 al 2009, e che dovrebbe concludersi quest'anno con l'ingresso permanente di Jacopo Felici. L'obbiettivo dichiarato è riallineare i vini al mercato e dotarli di una identità più distinta, per farne un punto di riferimento qualitativo dell'area. I segnali si vedono a occhio nudo (in cantina la barriccaia è quasi vuota, mentre cresce il numero dei legni grandi) e cominciano a sentirsi anche nel bicchiere. 

Giovanni Bulgari

La seconda è che Giovanni Bulgari preferisce procedere nel rinnovamento con cautela e prudenza, passo dopo passo, valorizzando il vino senza salti troppo bruschi. E' in questo senso che si può parlare di wines in progress. E l'assaggio dei quattro vini attualmente in commercio lo dimostra, col contributo di un campione di G33 2018, un rosso ancora inedito a base di Sangiovese, Cabernet Sauvignon e Merlot. L'impressione generale è che la stoffa ci sia e che la strada sia quella giusta: va ora intrapresa con la massima decisione, mettendo a punto un modello di sobrietà compatibile da un lato con le particolari caratteristiche del terroir, dall'altro con la richiesta del mercato. 

Nicoleo 2020

Prodotto in circa 20mila bottiglie con uve Grechetto e Chardonnay al 50% provenienti dai vigneti sul lago di Corbara. E' fatto in acciaio e per il 30% in barrique nuove, con un successivo passaggio in cemento (che fanno tutti i vini aziendali). 
All'occhio è di un colore dorato pieno e vivio, con riflessi verdastri. Al naso, piuttosto intenso, la nota floreale è secondaria rispetto a quella varietale del Grechetto. L'olfatto poi si allungain una coda fine, elegante, con un accenno di sabbia e di sassi. Al palato è sapido e diretto, molto piacevole, con un ritorno di legno piuttosto marcato, ma non invasivo, che fa del campione forse il più definito del lotto. 



Therra 2019

E' il rosso "base" dell'azienda, prodotto in circa 40mila bottiglie da uve di Sangiovese al 60%, Merlot e Cabernet Sauvignon al 20%. E' fatto in acciao e poi in botte da 30 qli. 
Di colore rubino carico con qualche riflesso violaceo, al naso è concentrato, pieno, ricco di profumi di frutti rossi maturi, con le note speziate e calde che si ritrovano anche in bocca, dove il vino si fa penetrante e un po' ruvido, con tannini in evidenza. A mio modesto parere, è un vino a cui dare almeno un altro anno di vita per goderselo appieno. 



Argirio 2017

E' prodotto dal 2009 con il 100% di Cabernet Franc proveniente da terreni argillosi, lavorato in botti tronco coniche e poi in barrique, con passaggio finale in cemento. 
Di colore rubino-granato molto scuro e carico, al naso è di grande intensità olfattiva, caldo, con profumi espliciti di frutti rossi ipermaturi, di confettura e ciliegia sotto spirito. Legno e note varietali in grande evidenza. Quest'impressione si prolunga in bocca: è un vino importante, di struttura importante, tannico, molto coerente al proprio stile e, pertanto, anche un po' ingombrante. Pure questo è da aspettare (e non è un difetto!). 



Sotirio 2017

E' un vino speciale, il top della gamma aziendale, prodotto in memoria del bisnonno Sotirio Bulgari, fondatore della dinastia. E prodotto con uve 100% Sangiovese provenienti esclusivamente dalla vigna detta "del Moro" (insomma è un cru) e lavorate in botti da 10 quintali. 
Di un colore rubino pieno e robusto, all'olfatto si rivela subito di grande eleganza, con un marchio varietale che si apre a ventaglio in un bei sentori di ciliegia, vibrante e avvolgente. L'annata difficile, calda e siccitosa, emerge maggiormente in bocca, rivelando con una nota un po' asciugante che tende a sopraffare la tendenziale gentilezza. Ma forse, ancora una volta, è solo una questione di tempo. 



G33 2018

Vino non ancora in commercio, fatto per ora in sole 800 bottiglie con uguali percentuali di Sangiovese, Merlo e Petit Verdot. 
Ha un bel colore rubino intenso e caldo. Al naso mantiene ancora qualche sentore di legno ma è composto, compatto ed elegante, venato di speziature e di frutto maturo. Come i campioni precedenti in bocca è ben più acerbo, concentrato e ridondante che al naso. Da aspettare, con molta curiosità, più a lungo degli altri. 

In conclusione: siamo appunto in itinere..

Sarà un piacere, per tirare le somme, fare la verticale di vecchie annate che ci è stata promessa e sulla quale certamente vi sarà riferito su queste pagine. Credo riserverà qualche sorpresa

InvecchiatIGP: Podere Alberese - Sangiovese 100 2012


di Stefano Tesi

Si può discutere a lungo, in dottrina, se un IGT Toscana Rosso di dieci anni possa essere definito vecchio o invecchiato. Quel che è certo che, per una tipologia così ampia, dieci anni possono essere un'età critica, come purtroppo molti assaggi dimostrano. Potrebbe esserlo ancora di più per un vino fatto in una zona che di vigne ne ha poche e dove i vignaioli sembrano quasi mosche bianche, come le Crete Senesi: in pratica casa mia o quasi. 


Invece questo Sangiovese 100% anno 2012 del Podere Alberese, piccola azienda biologica a gestione familiare - sei ettari e mezzo in proprietà con Sangiovese, Fogliatonda, Canaiolo, Trebbiano, Malvasia e 700 piante di olivo sui rilievi a cavallo tra Asciano, Rapolano e Trequanda - ha dalla sua frecce a sufficienza per incuriosire parecchio. Innanzitutto, cosa piuttosto strana, è l'ultima annata in commercio (la 2015 lo sarà solo tra un po'): "Fa quattro anni di legno (un unico tonneau di rovere di Slavonia da 500 litri, ndr) e poi ha bisogno di tanto vetro", spiega con naturalezza la titolare Lucia Bozzano. Ovviamente viene prodotto solo nelle annate ritenute qualitativamente all'altezza, perciò non sempre. 

Podere Alberese

Si può dunque dire, almeno ai sensi di questa rubrica, che è un "invecchiato"? Forse no, o magari sì. Ma è interessante proprio per questo. L'uva, Sangiovese Grosso, viene da un'area ristretta di un vigneto di quasi cinquant'anni a 450 metri sul livello del mare, con rese da 30 quintali per ettaro. Viene diraspata senza pigiatura e lasciata a fermentare spontaneamente, con macerazione sulle bucce per tre o quattro settimane. Produzione: appena 590 bottiglie numerate e 35 magnum. Quando giorni fa l'ho assaggiato ero assai curioso e non sapevo che aspettarmi. Il risultato è confortante. 


Il colore è un bel rubino pieno e caldo, ma non troppo carico. In apertura il naso è un po' chiuso, quasi compatto, ma respirando si apre in un bel frutto maturo, quasi dolce e poi, a ventaglio in ondate di pot pourri, fieno asciutto e pepe, con lievi accenni di cuoio e di foglie. In bocca è ben vivo e ancora bello "tirato", come si dice, di struttura importante ma non invasiva, niente affatto ridondante, con un alcool evidente ma attenuato dal nerbo di un sorso solido. Insomma un vino che definire "impettito" è probabilmente poco ortodosso, ma realistico. 

In vendita diretta costa 35 euro.

Cerulli Spinozzi - Cerasuolo d’Abruzzo Superiore "Cortàlto" 2020


di Stefano Tesi

Si avvicina l’estate e con essa la voglia di bere cose fresche, magari anche non evanescenti e pure abbinate a qualche piatto più impegnativo. 


Ecco la soluzione: un bel Cerasuolo d’Abruzzo come questo, dal naso intenso ma non sfarfalleggiante e un bel corpo, solido e lungo, che rilancia il gusto della melagrana spremuta.

InvecchiatIGP: I Capitani - Fiano di Avellino "Gaudium" 2010


di Luciano Pignataro

Siamo a Torre Le Nocelle, l’azienda di Ciriaco Cefalo, dodici ettari comprati dal nonno cento anni fa è stata completamente ripresa nella seconda metà degli anni ‘90 ed è una delle cantine più belle da visitare perché è, insieme, museo contadino e agriturismo, giù le vigne e gli ulivi, di fronte Taurasi con praticamente tutta l’area della docg. Ma non basta, Ciriaco, ingegnere cultore delle tradizioni di famiglia e del territorio è anche produttore di olio da ravece e ogliarola lavorate al suo frantoio mentre la moglie Assunta cura l’ospitalità: sì, al momento I Capitani è una delle poche aziende vitivinicole e olivicole campane che lavora anche come agriturismo completo. Anzi, Wine resort si dice adesso. 


L’azienda ha sempre prodotto vini eccellenti, poco conosciuta dagli stessi addetti ai lavori, costituisce una piccola e interessante chicca del variegato mondo irpino per la radicata tipicità del proprio Taurasi. Siamo in zona di rosso, appunto, ma quando nella nostra cantina di campagna scoviamo per caso questa bottiglia di Fiano di Avellino decidiamo che è il momento di stapparla. Intendiamoci, dodici anni non sono nulla per questo vitigno a bacca bianca, ormai è acclarato definitivamente. Siamo però curiosi lo stesso di provarlo proprio perché la cantina è a vocazione rossista di nascita. Il protocollo di produzione è quello comune a tutto l’areale, fermentazione e affinamento in acciaio e vetro.
 

Proprio per questo il Fiano non finisce mai di stupire: in questo caso abbiamo infatti una spettacolare evoluzione olfattiva che ci porta sentori di frutta matura e note fumé, anche miele di castagno e pasticceria. 


Un naso suadente, quasi dolce che però ha come contraltare una bocca pulita, secca, ancora vigorosa grazie alla freschezza che regge la beva, una chiusura lunga e precisa. Insomma, la bottiglia, considerato il costo, costituisce uno dei piccoli grandi affari che ancora l’appassionato curioso che gira fuori dai percorsi usuali può fare girando per il Sud. Ce l osiamo goduti fino in fondo, fino all’ultima goccia.

Cantine dell'Angelo - Coda di Volpe "Del Nonno" 2020


di Luciano Pignataro

Non ricorderò il Vinitaly solo perchè mi sono beccato il Covid. Ma soprattutto per questo fantastico, unico, buonissimo, stupefacente bianco di Cantine dell'Angelo. 


Fresco, complesso. Il vino del Vinitaly 2022, appunto.

Pio Cesare e i due grandi Barbaresco 2018


di Luciano Pignataro

Sappiamo dei Barolo Boys ma dei Barbaresco Boys nessuna traccia. Forse il motivo è che questo vino alla fine è sempre restato fedele a se stesso, sicuramente low profile rispetto alle polemiche e agli scontri degli anni passati, e anche rispetto ad un certo rampantismo commerciale.


Pio Cesare (cognome e nome per la precisione e non viceversa come si potrebbe pensare) ha proseguito dritto per la sua strada ormai da cinque generazioni dalla fine dell’800 dimostrando che spesso la modernità non vuol dire accelerare o stupire, ma avere la capacità di creare classici che resistono alle modo e si impongono per l’assoluta superiorità dei contenuti, nel caso del vino delle interpretazioni precedenti. Dopo la morte di Pio Boffa avvenuta lo scorso anno, adesso al timone dell’azienda c’è, appunto, la quinta generazione costituita dalla figlia Federica e dal nipote Cesare Benvenuto Pio.
In questa scaletta di nomi e cognomi che ritornano e rimbalzano da una generazione all’altra c’è l’essenza della filosofia di questa azienda che per molte generazioni fuori dal Piemonte è stata a lungo l’unico riferimento di zona.
Durante una degustazione all’Hotel de La Ville a Roma abbiamo avuto modo di provare il rosato Rosy, la Barbera d’Alba, i due Barolo e i due Barbaresco oltre al finale, un Barolo Ormato 2012 in perfetta forma. Non vi farò tutte le schede, preferisco concentrarmi proprio sui due Barbaresco di solito sempre in secondo piano quando si parla di Pio Cesare. 

Barbaresco DOCG 2018

Non chiamiamolo vino base per favore, perché è il risultato di una vendemmia nelle vigne Il Bricco di Treiso, Bongiovanni e San Stefanetto a Treiso e a San Bocco Seno D’Elvio di Rocche di Massalupo. Al suo risultato gioca la lunga esperienza secolare con le caratteristiche pedoclimatiche del territorio. La vinificazione avviene in acciaio, successivamente il vino riposa e si eleva in botti grandi tradizionali. L’integrazione tra il frutto e il legno nè semplicemente perfetta, elegante il colore che lascia vedere il fondo del bicchiere, complesso l’aspetto olfattivo con rimandi di frutta, agrumato, spezie, china, nota di cenere appena accennata, lunghissimo al naso. Al palato domina la freschezza che rilancia i sentori annunciati dai profumi e che rivelano un vino in perfetto equilibrio, in una velocità di crociere destinata a durare molti anni. Il finale è straordinariamente pulito, preciso, non stucchevole. Buonissimo. Sui 55 euro sul web. 



Barbaresco DOCG "Il Bricco 2018"

Le uve vengono dall’omonimo vigneto, prima acquisizione della cantina di Alba in zona di Barbaresco a Treiso, con un clima più fresco dovuto ad una altitudine maggiore. La prima edizione è del 1990 ed è ottenuto da una selezione di uve. Rispetto al precedente, è leggermente più concentrato già al colore mentre al naso e al palato gioca un ruolo preponderante la frutta rossa croccante. Ha sicuramente una spinta in più rispetto al precedente ma, a nostro modesto avviso, pari complessità. Leggermente più scattante e fresco, con una beva più veloce. Una chicca per appassionati che troviamo sul web a circa 70 euro. 


C’è continuità fra le due etichette, come pure dobbiamo dire che la filosofia aziendale mantiene lo stesso passo tradizionale, classico preferiamo, anche quando si passa ai Barolo. Ma di questo parleremo in altra occasione, per adesso ci godiamo questi due straordinari Barbaresco, acuta ed elegante interpretazione del Nebbiolo a Treiso e dintorni.