InvecchiatIGP: Fattoria Corzano e Paterno - Il Corzano 1993


di Carlo Macchi

Questa bottiglia, trovata in cantina con l’etichetta ridotta in queste condizioni, è stato un modo sia per ritornare indietro negli anni sia per confermare una mia teoria sul periodo dal 1991 al 1996, da me chiamato “dell’ultima piccola glaciazione”. 


Ma andiamo con ordine. La Fattoria di Corzano e Paterno, che si trova nel comune di San Casciano Val di Pesa, è famosa oramai da anni sia per il vino che per i formaggi che produce. Nei primi anni ’90 muoveva i primi passi in entrambi i settori e quello del vino era completamente in mano all’ora giovanissimo Aljoscha Goldschmidt. 
Erano anni difficili per il Chianti Classico, figuratevi per chi non poteva fregiarsi della parola “Classico”: infatti Corzano e Paterno, pur essendo nel comune di San Casciano Val di Pesa che fa parte del Chianti Classico si trova sulle colline ad ovest della valle del fiume Pesa e così i suoi vigneti sono nel territorio del Chianti. Allora (e oggi non è molto diverso), anche se imbottigliavi dell’ottimo Chianti, se non avevi un Supertuscan nel mondo del vino di qualità non ti si filava nessuno. Così arrivarono le vigne di cabernet sauvignon e merlot, che ancora oggi concorrono, assieme al sangiovese, a creare Il Corzano (ultima annata in vendita il 2017). 


Come ho accennato sopra, dopo la grande annata 1990 ci furono 5/6 vendemmie che definire fresche è un eufemismo e forse sono state le ultime annate veramente "non calde" degli ultimi 30 anni. Il mio amico Ernesto Gentili sta giustamente ragionando sullo “spostamento del nord”, cioè sulle caratteristiche climatiche che servono, ieri e oggi, per avere grandi vini longevi: questo vino è veramente esplicativo, è un qualcosa da tenere in considerazione per capire come è cambiata e sta cambiando la faccia dei grandi vini negli ultimi 30 anni. 
Nel 1993 si andava inutilmente a ricercare rotondità, magari spacciata in bottiglia da un uso maccheronico del legno, mentre oggi si ricerca quella freschezza ( non parlo solo di acidità, ma di pH bassi) che allora abbondava. Una freschezza che ha permesso a questo uvaggio di sangiovese, cabernet sauvignon e merlot (non chiedetemi le percentuali) di lasciarmi a bocca aperta per finezza e profondità gustativa e per armonica complessità olfattiva. 


Un vino che dopo quasi 30 anni mostra ancora non solo freschezza ma una tannicità adesso vellutata pur ben presente. Sicuramente al naso il cabernet sauvignon fa la parte del leone con note balsamiche, mentre il sangiovese mostra la sua vena austera. Perfetta, adesso, la gestione del legno. 


Per capire meglio il vino ho lasciato la bottiglia ammezzata per quasi due giorni ma il vino è solo migliorato, presentando al naso note di spezie che mancavano al primo appello e in bocca una linearità austera ma meno tagliente e decisa. 
La frase “oggi vini così non si fanno più” deve essere vista alla lettera e cioè che con le attuali condizioni climatiche vini con questo pH, questa freschezza, questa verticale bonomia, è praticamente impossibile ripeterli. Per fortuna ho scoperto che ne ho altre due bottiglie in cantina.

Villa Bucci - Rosso Piceno DOC “Villa Bucci” 20158


di Carlo Macchi

Dici Bucci e pensi a un grande Verdicchio, ma Ampelio è bravissimo anche con i rossi. 


Il Villa Bucci 2018, blend di montepulciano e sangiovese lo dimostra. Porpora, naso con tanta frutta rossa e un accenno di carruba e cassis. Bocca piena ma con garbo, grazie a tannini già dolci ma incisivi. Fresca la chiusura.

“Il cuore del vino”, un libro per capire di più sul vino naturale e la biodinamica


di Carlo Macchi

Al termine della lettura del complesso e profondo libro di Piero Riccardi “Il cuore del vino”, da non seguace dei vini naturali, ho provato due cose: rispetto e ammirazione. 


Rispetto perché una posizione così chiara e ben motivata non può che meritare profondo rispetto. Ammirazione perché il percorso personale che ha portato Piero Riccardi dalla cinematografia alla produzione di vini naturali a Olevano Romano non solo è stato una crescita e un arricchimento continuo, ma si è basato su importanti radici culturali che riescono a rendere i suoi ragionamenti a favore del vino naturale e biodinamico, anche quelli che stento maggiormente a avallare, molto più ariosi, profondi e comprensibili. 
In realtà questo non è un libro sul vino naturale e/o biodinamico, o meglio non è solo e soltanto un libro su queste tipologie di vino ma è molte cose. 

Piero Riccardi

E’ un motivato e inattaccabile atto di accusa contro l’agricoltura industriale moderna, fatto da uno che di agricoltura se ne intende e ha girato diverse inchieste sul tema, anche per trasmissioni importanti come Report. Non si può negare (anche se per il vino credo, per esperienza diretta, che la cosa si declini in maniera diversa) che l’agricoltura intensiva, industriale renda gli agricoltori schiavi di un sistema e di una catena economica che gli lascia solo le briciole, mentre il consumatore (bella la definizione di questa parola come “termine vorace”) è costretto a utilizzare prodotti sempre meno nutrienti, sempre più pieni di sostanze che hanno ben poco a che vedere con l’alimentazione e sempre più difficili da digerire. In questo contesto non si può non essere d’accordo (io per primo) sulle sue considerazioni riguardo ad un termine con cui spesso ci sciacquiamo la bocca, “sostenibilità”. 


Ma è anche un percorso sul concetto di natura, attraverso il pensiero filosofico antico e moderno che, partendo dall’antica Grecia porta il lettore a inquadrare il momento in cui è avvenuto il distacco definitivo dell’uomo dalla natura che lo circonda e la prevaricazione del primo sulla seconda: e quel momento, riassumendo, si identifica con il periodo della rivoluzione scientifica e con due pensatori e filosofi che la rappresentano: Cartesio e Bacone. 

Ed è anche la storia della sua vita, fatta con flashback vividi, sofferti in qualche caso, sognanti e allegri in altri, della sua gioventù passata tra l’amore del cinema e del jazz, a girare l’Italia e il mondo, in particolare l’India. Ma il bello di questo libro, dove si sta nettamente dalla parte della biodinamica e si demonizza più volte la viticoltura della fresa in vigna e del lievito selezionato in cantina, è che in realtà non vuole imporre un credo ma solo aprire un ragionamento che ha solide basi filosofiche e culturali. Del resto è lui il primo ad aprire la porta alla discussione dicendo che i vini naturali non devono avere la volatile alta o puzzare, quelli sono solo vini sbagliati. 

credit: vinnatur.org

Leggendo mi sono soffermato spesso a riflettere su alcuni concetti e su quello che implicavano, sul senso volutamente oscuro di certe frasi. Del resto l’oracolo di Delfi “non afferma né nega, accenna” e lo scrittore, anche per bocca di alcuni pensatori della Grecia antica (Eraclito e Teofrasto, per fare due nomi) propone scenari, enigmi e dubbi che non devono essere risolti ma sicuramente affrontati. Le certezze invece sono sul fronte della disgregazione agricola e sociale portata dall’agricoltura industriale e qui si fa forte anche delle parole non certo visionarie di un certo Karl Marx. Ad un certo punto tra i tanti temi da sondare, mi è venuta in mente una domanda forse sciocca, cioè perché in un libro che ha comunque la campagna, la vigna e la natura al suo centro non vi sia una sola foto e la spiegazione che mi sono dato è che forse Piero rifugge la fissità dell’attimo, privilegiando lo svolgersi e il dipanarsi del tempo del tempo e quindi una foto rappresenterebbe l’esatto opposto di quello che l’autore vuole dire. 

Ma, mi ripeto, il bello è che quello che dice nasce da una solida base culturale, messa in mostra senza sfrontatezza ma con semplicità: per esempio, oltre ai mille rimandi precisi e godibili, si capisce che ha veramente letto Steiner e soprattutto ci ha ragionato sopra. E questo è un libro che non potrà non farvi ragionare, da qualsiasi parte lo prendiate e qualsiasi idea abbiate sul vino naturale. 

Piero Riccardi, Il Cuore del vino, Iacobelli Editore, 14.90€

InvecchiatIGP: Fèlsina - Fontalloro 1995


di Roberto Giuliani

Non c’è giorno che non nascano nuovi vini e nuove realtà produttive, chi si affaccia al mondo enologico oggi non è così scontato che conosca vini come il Fontalloro. Basta girare i social per rendersene conto, le bottiglie che hanno fatto storia negli anni ’90 oggi sono meno ricercate, c’è più attenzione verso il nuovo, verso la corrente più in voga al momento, cosa tutto sommato normale. 


Quello che però ai meno esperti sfugge è che, guardando al passato, si possono scoprire vini capaci di resistere al tempo in modo straordinario, alla loro uscita meno “pronti”, ma con una materia prima di elevatissima qualità, alla quale il lungo affinamento dà spesso giustizia. Oggi il mercato chiede tutto e subito, così possiamo trovare Barolo, Brunello, Taurasi, Sagrantino bevibilissimi, ma siamo sicuri che abbiano le stesse potenzialità dei loro precursori?


Oltre al diverso modo di lavorare in vigna e in cantina, per ottenere vini più pronti e godibili, c’è anche un clima che è radicalmente cambiato, sempre più instabile e con punte di caldo un tempo impensabili, che nel vino significano gradazioni alcoliche elevate e acidità più moderate. Con queste caratteristiche un vino può evolvere bene per 20-30 anni o più? Ne dubito.


Certamente il Fontalloro ’95 ci è riuscito, 26 anni abbondanti raggiunti in grande spolvero, un “sangioveto” in purezza proveniente dai poderi di Poggio al Sole e Arcidossino di una storica cantina di Castelnuovo Berardenga (quindi nel territorio del Chianti Classico), maturato in barrique per una ventina di mesi e affinato in bottiglia per un anno.



Le uve provengono dalla partita catastale n.1334, foglio n.111, particelle n.41,57, su una superficie totale di 6,18 ettari.
L’annata 1995 ha avuto un andamento climatico piuttosto irregolare, con temperature estive basse e piogge frequenti che hanno provocato un ritardo nella maturazione di una decina di giorni. L’acidità naturale si è manifestata più elevata del normale favorendo un ottimo sviluppo del patrimonio aromatico. La raccolta delle uve è stata eseguita a metà ottobre. La gradazione alcolica è risultata di poco superiore ai 13 °C (13,04), l’estratto di 26,01 g/l e l’acidità totale di 5,55 g/l.


Aprire questa bottiglia (la prima annata del Fontalloro risale al 1983) è stato per me come ritornare al periodo in cui nasceva la mia “consapevolezza” nei confronti del vino, perché la passione c’era già ma fino ad allora avevo bevuto con gusto e curiosità senza avere ancora gli strumenti per comprendere fino in fondo la complessità dei vini.

Giuseppe Mazzocolin

Ricordo di avere ascoltato in più occasioni Giuseppe Mazzocolin, uomo di straordinaria cultura, genero del fondatore di Fèlsina Domenico Poggiali; il suo linguaggio e la sua sensibilità nel raccontare il territorio chiantigiano, la storia, i suoli, il lavoro di ricerca, hanno contribuito a farmi innamorare del vino e ad accostarmi ad esso in una forma del tutto nuova, che ha sicuramente tracciato il mio futuro.


Ma entriamo nel vivo della degustazione: già il colore non passa inosservato, un granato ancora vivo e privo di cedimenti ai bordi; è sufficiente ossigenarlo per qualche minuto per notare come i sentori più evoluti, emersi al primo approccio, siano poco a poco sfumati, lasciando spazio a note di ciliegia nera e prugna mature, sottobosco, eucalipto, felce, tabacco, cuoio, humus, sandalo, terra umida, leggero caffè, liquirizia.


All’assaggio è diritto, sostenuto da un’acidità ancora vitale, sapido e profondo nel suo incedere, complesso e soprattutto avvincente, progressivo, lunghissimo, un piacere per i sensi e un commovente richiamo a tutto il fascino di un grande sangiovese.

I Tirreni - Bolgheri Rosso Beccaia 2018


di Roberto Giuliani

Bravi Samuele Falciani e Tommaso Rindi che hanno espresso il meglio del terroir bolgherese con questo rosso dal frutto pieno e avvolgente, calibrato nell’uso del legno, succoso. 


Il tannino è perfetto e acidità che ben si equilibra con la morbidezza data da mora, mirtillo, prugna e ribes nero maturi.

Pagani De Marchi - Costa Toscana IGT Principe Guerriero Anfora 2019


di Roberto Giuliani

Una rivoluzione in casa Pagani De Marchi in quel di Casale Marittimo? Può darsi. Fatto sta che il Principe Guerriero, nato nel 2001 come sangiovese in purezza fermentato in barriques con i lieviti indigeni e maturato in tonneaux, cambia veste.

credit: winedering.com

Con l’annata 2019 questo è l’uvaggio: 60% merlot e 40% cabernet sauvignon, ma anche la vinificazione e la maturazione cambiano: dopo la diraspa-pigiatura, il mosto ottenuto viene trasferito in anfora di terracotta cruda da 8 e 10 Hl, dove rimane a macerare per un mese a contatto con le bucce, con periodiche follature. Successivamente matura nelle stesse anfore per un anno.


Dietro a questa scelta c’è lo zampino di Matteo, figlio di Pia Pagani, che sta concentrando l’attenzione su un più ristretto numero di vini e cercando di dare ancora maggiore risalto al forte legame con la cultura etrusca. Che l’anfora sia tornata in auge in Italia già da qualche decennio è un fatto assodato, dal Friuli-Venezia Giulia alla Sicilia sono sempre più numerosi i produttori che si cimentano con questo contenitore, finendo spesso per innamorarsene. 
Meglio se chi fa una scelta di questo tipo ci crede fino in fondo, piuttosto che farsi trascinare nel vortice delle mode, ma allo scrivente interessa principalmente cosa ne ottiene, ovvero se i vini che in anfora dimorano ne traggono qualche beneficio, se vengono meglio valorizzati, se il racconto che esprimono una volta versati nel calice è convincente. Ogni contenitore, se usato bene e con le uve giuste, può dare ottimi risultati. In questo caso mi sembra che la strada sia stata individuata e non sia frutto di improvvisazione, piuttosto di una sperimentazione attenta e consapevole. Del resto immagino che Matteo sia stato supportato da Attilio Pagli e Stefano Moscatelli, che seguono l’azienda sin dagli inizi.


Dunque eccolo qua, nel calice, rubino profondo: intanto diciamo subito che il bouquet è pulitissimo, senza sbavature (e di vini in anfora piuttosto rustici ne ho assaggiati parecchi), domina la componente fruttata, ma con una inusitata e vivace freschezza olfattiva; un’altra cosa che mi sembra caratterizzare questo vino è la perfetta fusione dei sentori, non c’è qualcosa che emerge in modo netto ma un amalgama perfetto, dove il ribes nero, la mora, la prugna, giocano sullo stesso piano, in sintonia. L’impressione è di un vino agli albori di un lungo percorso, la ridotta percezione speziata è anche indice di come il legno ne sia spesso autore, laddove si usa un contenitore più neutro ecco che il bouquet ci riporta al varietale, ma non mancano sfumature di grafite e cacao, qualche venatura di vaniglia.

La Cantina

L’assaggio rivela una materia importante, c’è struttura e incisività, slancio e dinamicità, nulla che sia fuori dal contesto, il linguaggio è diretto e chiaro, la trama profonda e suggestiva. Un Principe Guerriero in tutti i sensi, giovane e aitante, che nella maturità si rivelerà in tutto il suo già preannunciato splendore.

InvecchiatIGP: Colle Santa Mustiola – Poggio Ai Chiari 2004


Se parliamo di sangiovese toscano inevitabilmente la nostra mente enoica si dirige verso importanti e storiche denominazioni come il Chianti Classico, il Brunello di Montalcino, il Nobile di Montepulciano proseguendo il suo viaggio verso la zona del Chianti, con le sue mille sfaccettature, e il Morellino di Scansano.


Nessuno, o quasi, indicherebbe la terra dove gli Etruschi, abili viticoltori, raggiunsero i propri splendori fondando “Clevsin”, l’attuale Chiusi, una zona altamente vocata per la coltivazione del sangiovese che grazie a Fabio Cenni, attuale proprietario e fondatore di Santa Mustiola, sta acquisendo nuova luce ritrovando, per certi versi, i fasti di un passato troppo lontano.

Fabio Cenni e sua moglie - credit: Corriere Fiorentino

Cenni, animato dalla volontà di valorizzare sia il patrimonio vitivinicolo esistente in zona sia la vecchia azienda familiare fondata da suo nonno all’inizio del secolo scorso, duranti i primi anni ’80 decide di dedicarsi a tempo pieno all’attività di vignaiolo andando subito a recuperare e studiare il materiale viticolo presente in azienda riproducendo le piante migliori di sangiovese che erano presenti nei vecchi vigneti. La ricerca agronomica portata avanti con fatica in quegli anni, e le relative prove enologiche, hanno fatto dato i loro frutti nel 1992 quando Fabio Cenni impiantò nuovi vigneti salvaguardando 28 cloni di sangiovese, l’unica varietà piantata in azienda, di cui cinque anche a piede franco. Oggi gli ettari vitati sono circa cinque e le vigne si trovano piantate terreni pleocenici con depositi alluvionali ad un’altitudine di 320 metri s.l.m. incastonati tra Chiusi e i “Chiari, ovvero gli specchi d’acqua dei laghi di Chiusi, Montepulciano e Trasimeno.


Proprio da questi specchi d’acqua, in omaggio al connubio tra territorio e produzione vinicola, che Cenni fa nascere il Poggio Ai Chiari, il primo vino prodotto in azienda del quale, ultimamente, ho degustato l’annata 2004.


Il colore del Poggio Ai Chiari, se questo può avere una valenza qualitativa, non è affatto di vino di 22 anni di età, è ancora rosso rubino e, ciò che per me è importante, è ancora luminoso così come smaglianti e complessi sono i profumi che fuoriescono dal bicchiere. Il sipario olfattivo, diretto, preciso e che grida sangiovese, è disposto su note di pot-pourri, ciliegie in confettura, melograno, tabacco da pipa, legno di cedro, rabarbaro, ginepro e idee salmastre.

La cantina

All’assaggio di conferme un vino ancora assolutamente integro e dinamico che rivela una silhouette di pregiata fattura dove un abbrivo succulento e quasi mediterraneo condivide la scena con tannini assolutamente maturi incalzati da vibrante freschezza. Netta, inoltre, la percezione sapida che amplifica il ricordo dell’assaggio che rimane impresso nella memoria gustativa per minuti.

La nuova etichetta del vino

Nota tecnica: il vino viene vinificato attraverso l’uso di lieviti spontanei ed affina 66 mesi in barrique di rovere francese e parte in botti di rovere di slovenia da 20/30 hl. Successivo affinamento in bottiglia per minimo 24 mesi prima dell'immissione in commercio.

www.poggioaichiari.it

Cantine di Nessuno – Etna Rosso DOC “Nuddu” 2017


Blend di nerello mascalese e nerello cappuccio coltivati nella zona sud-est dell’Etna, tra Fleri e Trecastagni. 


La versione base del rosso di questa piccola cantina etnea si fa apprezzare per l’aderenza territoriale di questo vino che sa di cenere e bacche scure mature. Sorso teso, pulito, sapido e di bella progressione.

Tenuta I Fauri, tutto il bello delle Colline Teatine!


“Nasciamo contadini e lo siamo ancora, nulla è cambiato rispetto alle nostre origini, soprattutto il nostro vino, da sempre immediato e conviviale perché ci poniamo l’obiettivo di allietare il più possibile le tavole degli italiani”.

Esordisce così, mentre mi aspetta presso Baldovino, il suo agriturismo, Valentina Di Camillo che, assieme a suo fratello Luigi, gestiscono da qualche anno Tenuta I Fauri, l’azienda vitivinicola di famiglia portata avanti da loro padre Domenico, vignaiolo schietto, estroverso e con un amore decisamente importante per la sua terra: le colline teatine.

Luigi e Valentina

Quella che vi racconto oggi è una storia tutta abruzzese che prende vita all’interno di un territorio, quello della provincia di Chieti, racchiuso tra le vette delle Maiella e il mare Adriatico dove la famiglia Di Camillo, in zona chiamati i Baldovino, per tantissimi anni ha portato avanti un modello agricolo basato sulla coltivazione delle uve da destinare esclusivamente al conferimento presso la più vicina cantina sociale. Al massimo, ogni tanto, si tentava la vinificazione per vendere qualche cisterna qua e là.


La crisi del modello cooperativo, lo scandalo del metanolo ed altre vicissitudini personali misero fortemente in crisi Domenico Di Camillo che, vista l’esigenza, iniziò ad imbottigliare il proprio vino anche se, racconta Valentina, al tempo non era molto convinto. Erano i primi anni 2000, bisognava dare una svolta all’azienda vinicola, il mercato stava cambiando, c’era bisogno di qualità e comunicazione, c’era la necessità di prendere al volo certi treni che altrimenti non sarebbe più ripassati. Luigi e Valentina, nonostante papà e mamma avessero per loro altri progetti di vita, capiscono che quello era il momento giusto per fare la loro parte e, dopo gli studi in enologia, cominciano a lavorare con il padre per portare avanti e non interrompere il mestiere di famiglia, quello che hanno sempre ascoltato e visto fare.


Oggi, Tenuta I Fauri, è una vera e propria squadra composta da Luigi, responsabile di cantina, Valentina, anima rock della comunicazione e del commerciale mentre a papà Domenico spetta la supervisione dei vigneti che, attualmente, si estendono per circa 35 ettari suddivisi in 12 parcelle sparse nei Comuni di Ari, Villamagna, Miglianico, Bucchianico, Chieti e Francavilla al Mare.


Le vigne, condotte secondo metodo biologici certificati (2021), hanno una altezza che varia tra i 150 e i 250 metri s.l.m. e sono allevate sia a filare che a tendone. I vitigni coltivati, ovvero trebbiano, pecorino, passerina, montepulciano, sono per lo più autoctoni anche se c’è qualche parcella di chardonnay e pinot nero che vengono usati per produrre le due tipologie di spumante.


Per quanto riguarda la cantina, Tenuta I Fauri può contare su due strutture: ad Ari, c’è la cantina di vinificazione ed affinamento composta sia da moderni tini d’acciaio che da vecchie vasche di cemento recentemente rimodernate. A Chieti, invece, si svolgono le operazioni di imbottigliamento e stoccaggio del vino prodotto. Quando le chiedo del perché non si usano legni in cantina, Valentina mi risponde così:”Una volta non si avevano i soldi per comprare le botti e oggi, che potremmo permettercele, abbiamo deciso di continuare a non utilizzarle perché a noi interessa fare il vino come si faceva in passato ovvero senza troppe sovrastrutture!”.


Ci mettiamo seduti intorno ad un tavolo e Valentina inizia ad aprire le sue bottiglie iniziando, ovviamente, dai vini bianchi che nasconderanno più di qualche sorpresa.

Tenuta I Fauri – Colline Teatine IGT “Passerina” 2020 (100% passerina): la rusticità contadina, quella bella, dei Di Camillo comincia subito ad intravedersi con questa passerina in purezza che olfattivamente si fa apprezzare per i suoi richiami che rimandano alla terra, al fieno, alla camomilla romana fino ad arrivare al melone bianco invernale e agli agrumi. Al palato è di grande bell’equilibrio e freschezza e, con solo 12,5 gradi, è un vino che si lascia bere senza pensieri tanto che la bottiglia finisce in un amen.


Tenuta I Fauri – Abruzzo DOC “Pecorino” 2020
(100% pecorino): altro vitigno simbolo del territorio interpretato magistralmente con un profilo aromatico caratterizzato da percezioni di agrumi, mela smith, erbe aromatiche e idee salmastre. In bocca è scattante, dotato di affilata freschezza. Altro vino gastronomico da aprire a tavola quotidianamente senza sensi di colpa!



Tenuta I Fauri – Abruzzo DOC “Pecorino” 2014 (100% pecorino): se il “manico” del vignaiolo si vede nelle annate difficili come questa, allora posso dire che i Di Camillo sono ampiamente promossi perché tutto mi aspettavo meno che questo pecorino vivo, intrigante nel suo bouquet di frutta a polpa gialla, mimosa, agrumi canditi, rifiniture balsamiche e salmastre. Al sorso è ancora pieno, fresco, non cede di un millimetro soprattutto nel finale elegante e ben sintonizzato al naso.

Il colore del 2014!

Tenuta I Fauri – Abruzzo DOC “Pecorino” 2017 (100% pecorino): L’annata calda e siccitosa, così come accaduto al precedente vino, è stata interpretata al meglio regalando un pecorino in purezza succoso e “pacioccone” grazie ai richiami aromatici che vanno dalla pesca nettarina al bergamotto fino ad arrivare al miele e alle spezie dolci orientali. Palato di grande equilibrio tra sostanza alcolica e sferzante freschezza. Non ha grande persistenza ma ad avercene di bianchi del 2017 ancora così!


Tenuta I Fauri - Trebbiano di Abruzzo DOC “Baldovino” 2020 (100% trebbiano): si fa apprezzare per un profilo aromatico molto personale dove ritrovo sentori di buccia d’uva, felce, mela limoncella, maggiorana corredati da un velo di agrume e cenni di nocciola. Al gusto è ricco, bilanciato, ha chiosa fruttata e succosa che esalta la bevibilità di un vino contadino fino al midollo.


Tenuta I Fauri - Cerasuolo d’Abruzzo DOC “Baldovino” 2019 (100% montepulciano): vino di grande piacevolezza che profuma di fragoline di bosco, ribes, melagrana e tenui soffi floreali e minerali. Al palato si esprime con freschezza, sapidità misurata e relativa facilità di approccio. Una lieve presa tannica dà volume e concretezza ad un finale generosamente fruttato.


Tenuta I Fauri - Montepulciano d’Abruzzo DOC “Baldovino” 2019 (100% montepulciano): arredo olfattivo che regala note di prugne della California, more, talco, pepe nero e lieve liquirizia. Sorso vigoroso, vivace, con trama tannica abbastanza scalpitante e persistenza piacevole e succosa che sfuma in sentori di frutta di bosco.


Tenuta I Fauri – Montepulciano d’Abruzzo DOC “Ottobre Rosso” 2018 (100% montepulciano): interessantissimo al naso dove sprigiona sensazioni di confettura di ciliegie, rabarbaro, ginepro, fiori rossi, chiodi di garofano e grafite. Al gusto è pieno, avvolgente, con ottimo equilibrio tra le parti, offre percezioni stuzzicanti ed una trama tannica gradevole e levigata che favorisce la beva di questo montepulciano in purezza che sa fornire un tocco “easy” ad un vitigno non semplice da domare.



InvecchiatIGP: Torres - DO Catalunya Tempranillo “Coronas” 2000


di Lorenzo Colombo

L’azienda Miguel Torres si trova a Vilafranca del Penedès, in Catalogna, attiva sin dal XVII secolo dispone attualmente di oltre 1.300 ettari di vigneti nelle più importanti denominazioni del paese, ma anche fuori dalla Spagna ha possedimenti e tenute, in Cile dove la Torres si trova sin dal 1979, ed in California nella contea di Sonoma. Coronas è il marchio più antico dell’azienda, registrato sin dal 1907, viene utilizzato per l’unico vino prodotto sotto la DO Catalunya e nel Gran Coronas, quest’ultimo commercializzato sotto la DO Penedès.


Il vitigno

Il Tempranillo è uno tra i più diffusi vitigni al mondo; secondo i dati forniti dall’OIV (Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino) e relativi al 2017, la sua superficie vitata ammontava a 231.000 ettari, posizionandolo al terzo posto, dopo Cabernet sauvignon e Merlot, nella classifica dei vitigni (da vino) più coltivati. A dispetto della sua grande estensione vitata e a differenza di Cabernet sauvignon e Merlot, il Tempranillo non è però un vitigno internazionale, limitando la sua presenza in un numero piuttosto ristretto di paesi, 17 sempre secondo l’OIV, mentre troviamo il Cabernet sauvignon in 29 diversi paesi ed il Merlot in ben 37.


Inoltre la maggior parte dei vigneti di Tempranillo si trovano in pochissimi paesi, la stragrande maggioranza del vitigno si trova infatti in Spagna (193.597 ettari), 17.014 ettari sono situati in Portogallo dov’è conosciuto col nome di Tinta Roriz e 6.140 Argentina (dati ricavati da Which Winegrape Varieties are Grown Where? e relativi al 2016.
Si può quindi affermare che il Tempranillo sia un vitigno prettamente spagnolo, o comunque iberico.


Le regioni dov’è maggiormente presente sono Castilla-La Mancha (68.370 ha), Castilla y León (34.700 ha), La Rioja (31.659 ha), Extremadura (20.948 ha), País Vasco (11.500 ha), etc. Anche in Spagna il vitigno assume diversi nomi, dipendentemente dalla regione in cui è coltivato, così nella Ribera del Duero viene chiamato Tinto Fino e in Catalogna Ull de Llebre.

Il vino

Il “Coronas”, come scritto all’inizio, è l’unico vino prodotto sotto la DO Catalunya, è composto da 86% Tempranillo e 14% Cabernet sauvignon, la vinificazione si svolge in vasche d’acciaio, mentre l’affinamento per nove mesi in barriques di rovere americano, questo almeno per il vino da noi assaggiato, per i vini delle annate più recenti vengono utilizzate sia barriques americane che francesi e l’affinamento viene prolungato a dodici mesi.


Vent’anni sono tanti per un vino, soprattutto se non è stato concepito per durare così a lungo, questo si nota già dal suo colore, granato-mattonato, intenso e compatto.
Mediamente intenso al naso, ampio ed elegante, vi si colgono tutti i sentori terziari dovuti al trascorrere del tempo, sottobosco, humus, terreno umido, cuoio, spezie, cannella e chiodi di garofano, ma anche note di cioccolato al latte e nocciolato.


La sua struttura appare un poco esile, il tannino morbido, buona la sua vena acida, un ricordo di prugna secca, armonico ed equilibrato nel suo complesso.
Un vino ancora assai piacevole e che ci ha pienamente soddisfatti, anche se pensiamo che abbia potuto dare il meglio di se qualche anno addietro.

Tenute Rubino - Brindisi Rosso DO Susumaniello “Oltremè” 2018


di Lorenzo Colombo

Questo vino succoso, di medio corpo, dalla piacevolissima beva e con un delizioso ed amaricante fin di bocca veniva sino al 2017 commercializzato come Igt Salento.


Le uve provengono da un vigneto messo a dimora su suolo sabbioso in Contrada Jaddico pochi chilometri a nord di Brindisi, vinificazione ed affinamento si svolgono in vasche d’acciaio.