Il Giardino delle Esperidi e Alla Borsa: quando la ristorazione di qualità vale il viaggio!


di Carlo Macchi

Qualche giorno fa, girando per degustazioni tra Soave, Bardolino e Custoza ho confessato a me stesso, nonostante l’età sia quella che è, di amare perdutamente due signore. Prima che parta un’irrefrenabile voglia di gossip, preciso che il mio non è solo un amore platonico ma, addirittura, gastronomico-platonico, una delle forme più tranquille e soddisfacenti per persone della mia età. Le due signore da me amate rispondono al nome di Susanna e Nadia e voglio subito chiarire che di loro amo non solo quello che propongono nei loro rispettivi locali ma, che le amo più adesso, dopo praticamente due anni di lockdown, di prima. Sapete perché? Perché nonostante la ristorazione di qualità sia stata mazzolata brutalmente le ho trovate ancor più motivate e nei loro piatti ho ammirato non solo la qualità di prima ma addirittura un qualcosa in più, un valore aggiunto che mi porta ora a dichiarare, urbi et orbi, il mio amore.

Susanna Tezzon a dx

Dai nomi passiamo ai cognomi e ai locali. Susanna è Susanna Tezzon ed è l’anima de Il Giardino delle Esperidi a Bardolino. Tra pizzerie e locali da turisti il suo ristorante è l’unico porto sicuro all’interno di questo bellissimo borgo. 
In tempi di lockdown Susanna e le sue amiche colleghe hanno deciso di utilizzare il bellissimo terrazzo sopra al locale per farne un piccolo (ma neanche tanto) orto. Dire orto è restrittivo perché oltre a molte verdure (coltivate dentro a piccole piscine di gomma colme di terra fertile) in questo piccolo eden troviamo frutti, spezie, erbe officinali e piante di fiori. È un luogo dove puoi entrare solo se Susanna vuole e per fortuna ha voluto farci il dono di servirci due piatti contornati dalle sue piante. 


Il piatto di cui voglio parlare è di una semplicità assoluta: potrei pomposamente chiamarlo “assieme vegetale di multicolori aromi e gusti miscelati con briosa maestria” ma forse è meglio se lo chiama semplicemente “insalata”. Un insieme di erbe di stagione, insalatine, fiori e frutti, che mi ha letteralmente messo ko dal piacere. Infatti, ogni piccolo boccone era un insieme di sapori e gusti diversi che cambiavano e si moltiplicavano mentre si muovevano nel palato. Era come avere in bocca un caleidoscopio del gusto di cui non potevi sapere la “prossima mossa”. Vi garantisco, una delle cose più complesse e saporite mai mangiata in vita mia ed era “solo” un’insalatina. 
La cena poi ha avuto molti altri piatti e molti vini, perché da Susanna, oltre che mangiare bene si bevono grandi vini italiani ma soprattutto esteri (Champagne in primis) proposti a prezzi irrisori, ma il resto dovrete scoprirlo da soli.


Da Bardolino a Valeggio: Valeggio vuol dire tortellino e
Alla Borsa, praticamente da sempre, si mangiano i migliori tortellini di Valeggio e probabilmente del mondo. Una specie di ombelico del mondo del tortellino che il post-covid ha reso ancor più piacevole da visitare. Alla Borsa si amano i toni soffusi sia nelle bianche ed eleganti sale interne che nella colorata “terrazza a piano terra”, d’estate preferita da molti. Nadia Pasquali, figlia d’arte (i genitori sono sempre presenti ma è lei il fulcro di tutto) propone una serie di piatti che un essere umano non può non provare, ma naturalmente il meglio del meglio è il tris di tortellini e cioè il classico di carne, il tortello di zucca e i tortelli verdi di ricotta e spinaci.

Nadia Pasquali

La prima cosa che colpisce in questo godurioso trittico è lo spessore della pasta: quasi inesistente ma concreto, saporito e giustamente cedevole al palato, esalta i gusti del ripieno e i condimenti (di solito burro, ma potete osare con il leggero ragù che vi proporranno). Anche i ripieni delle tre specialità sono gustosi giochi d’equilibrio, dove il dolce della zucca è bilanciato perfettamente, l’impasto del tortellino è soffuso ma intenso e ricotta e spinaci si rincorrono e si fondono. Qui, come dalla Susanna, si arriva ad una goduria e soddisfazione praticamente infinita. Voi direte che a far tortellini son buoni tutti e prima che Dio scenda in terra per punirvi di per punirvi di questa bestemmia vi salvo io, affermando che la base di tutto il lavoro di Nadia (lo dice lei, quindi sono sicuro) è una grande e raffinata artigianalità, che porta a produrre, giorno dopo giorno, una qualità alta e costante. 


Potrei parlare di molti altri ottimi piatti, della carta dei vini semplice ma completa, della bravura “dell’artigiana Nadia” nell’essere ovunque, presente e attenta ai desideri dei clienti, ma voglio fermarmi per non violare la “la par condicio di questo articolo” parlando di più di uno dei mie amori platonico-gastronomici, entrambi con un carattere di ferro e una voglia di continuare a stupire gli altri e loro stesse.


Due locali diversi, più a tinte forti il Giardino delle Esperidi, più puntato su tonalità pastello la Borsa. Due cucine diverse, la prima rivolta a piatti anche innovativi e particolari, l’altra figlia di una tradizione di altissimo profilo. Due donne diverse ma dotate di una forza e di una bravura da standing ovation.

Avanti, prenotate, che aspettate? Non sono geloso!

Lo Champagne Sovietico ovvero genesi e caratteristiche del Sovetskoe šampanskoye

Negli anni '30, una catastrofica carestia attraversò l'Unione Sovietica. Il caos derivante alla collettivizzazione delle terre, combinato ai cattivi raccolti dell’epoca e alle brutali politiche socio-economiche introdotte da Stalin, devastò le regioni di coltivazione del grano del Paese. 
Milioni di persone morirono di fame e i cadaveri si accumularono lungo i binari e le strade, riempiendo l'aria con l'odore aspro della decomposizione. Orde di contadini affamati vagavano per la campagne alla disperata ricerca di lavoro e di qualsiasi cosa lontanamente commestibile: pannocchie, ghiande, erba, gatti, cani e, orribilmente, anche l'un l'altro.

Credit: noi comunisti

Solo tre anni dopo, mentre le necessità di base erano ancora scarse, il Cremlino rivolse la sua attenzione ad un'altra "carenza": la mancanza di Champagne. Nel 1936, il governo sovietico, per ovviare a questo "problema", approvò una risoluzione per aumentare drasticamente la produzione di spumante locale, stabilendo un ambizioso obiettivo di produrre milioni di bottiglie negli anni seguenti. L'idea di creare un'industria di bollicine comunista - un'impresa estremamente singolare, dato il contesto - venne in mente a Joseph Stalin, nato nella Repubblica di Georgia, sede della più antica cultura vinicola del mondo. Stalin, al tempo, proclamò che lo champagne sovietico era "un importante segno di benessere, della bella vita" che il socialismo avrebbe messo a disposizione di tutti, molto lontano dalla semplice promessa di Lenin di "pane e pace".


La spinta a stappare un mare di champagne arrivò solo un anno, nel 1935, a seguito dell’abolizione delle tessere di razionamento. Nel disperato tentativo di dimostrare che l'Unione Sovietica avesse più da offrire della privazione e della persecuzione, il governo lanciò uno sforzo importante per produrre in serie e democratizzare champagne ed altri prodotti di fascia alta. "L'idea era di rendere disponibili cose come champagne, cioccolato e caviale a un prezzo piuttosto basso in modo da poter dire che il nuovo lavoratore sovietico viveva come gli aristocratici nel vecchio mondo", spiega Jukka Gronow, autrice di Caviar with Champagne: Il lusso comune e gli ideali della buona vita nella Russia di Stalin.


Ma prima che il proletariato potesse stappare queste prestigiose bottiglie, i viticoltori avevano la necessità di coltivare l’uva e produrre il vino base a basso costo. 
Come risolvere il problema? La risposta arrivò dall'enologo Anton Frolov-Bagreyev, che ovviò al più lungo e complesso metodo champenoise attraverso l’introduzione di serbatoi pressurizzati (metodo charmat) che avevano la funzione di condensare il processo di maturazione di tre anni in un mese permettendo di produrre lotti da 5.000 a 10.000 litri alla volta.

Anton Frolov-Bagreyev

Inoltre, per trasformare in realtà la scintillante retorica di Stalin, il governo sovietico, attraverso una serie di leggi, ordinò immediatamente la costruzione di nuovi vigneti, fabbriche e magazzini, nonché il reclutamento e la formazione di migliaia di nuovi lavoratori. Obiettivo ufficiale? Arrivare alle produzione di 12 milioni di bottiglie entro il 1942


Le cose, purtroppo, non andarono come Stalin sperava. Lo stato dei vigneti dell’epoca, abbandonati o distrutti a favore di altre colture, resero impossibile raggiungere gli obiettivi di produzione. "Le proiezioni non sono mai state realistiche, ma se le fabbriche non le rispettavano, le persone che ci lavoravano o le gestivano potevano essere etichettate come nemiche del popolo e cancellate", spiega Darra Goldstein, studiosa del cibo e autrice del prossimo libro di cucina Oltre il vento del nord: la Russia in ricette e tradizioni. 
Quando la cantina Abrau-Durso, sulla costa russa del Mar Nero, non fu all'altezza delle aspettative, il quotidiano sovietico Izobilie mise in dubbio la lealtà del direttore e suggerì che la cantina "fosse liberata dai nemici di classe".


La produzione di champagne sovietico, comunque, andò avanti dando evidentemente la priorità alla quantità rispetto alla qualità. I pochi vignaioli dell’epoca eliminarono dai loro vigneti acri di uve autoctone sostituendole con varietà durevoli e ad alto rendimento come aligoté e chardonnay. Grandi fabbriche centralizzate trasformavano l'uva da tutta la regione e inviavano la miscela di vino sfuso a enormi impianti di produzione che sfornavano migliaia di bottiglie all'ora usando il metodo chiamato “Frolov-Bagreyev”. Era nato lo Sovetskoye Shampanskoye, uno spumante dolce e sciropposo perché si usavano grandi quantità di zucchero per mascherare l’acidità del vino base e la sua scarsa qualità. Alla fine del decennio, lo Sovetskoye Shampanskoye era ampiamente disponibile a Mosca e in altre grandi città, offerto alla spina nei negozi. Più tardi, negli anni '50, fu venduto anche al bicchiere allo stadio Lenin. "Nonostante il gusto e il fatto che rimase troppo costoso per il consumo quotidiano, divenne un simbolo di tutte le celebrazioni sovietiche", continua Gronow. "Era la “Coca-Cola dell’Unione”, lo bevevi ed era come fare la bella vita".


Oggi, grazie anche ritorno della nostalgia sovietica nella Russia moderna, la domanda di Sovetskoye Shampanskoye è di nuovo in aumento ed ora il vino è prodotto da società private e spesso lo si può trovare all’interno dei tanti ristoranti che evocano le vecchie mense comuniste. Se passate per Mosca, e se lo trovare, fatemi sapere com’è. Io, probabilmente, una idea me la sono già fatta...

InvecchiatIGP: Antolini - Valpolicella Classico 2007


di Roberto Giuliani

Non è un Amarone, non è un Valpolicella Classico Superiore Ripasso, non è neanche un Valpolicella Classico Superiore. Quello nel calice è un “semplice” Valpolicella Classico 2007 (Classico perché le uve provengono dagli appezzamenti di Marano e Negrar), chiuso con tappo sintetico e destinato solitamente al consumo entro 2-3 anni. Probabilmente Pier Paolo e Stefano Antolini non sanno fino a che punto possa tenere un vino del genere, a meno che non abbiano avuto il pensiero di conservarne in cantina un certo numero di bottiglie per pura curiosità. Io l’ho fatto e ora posso dire che ci fa una gran bella figura, con i suoi 12,5 gradi alcolici e un uvaggio classicissimo di corvina, corvinone e rondinella, dimostrando che quando si raccolgono buone uve e non si fanno errori in cantina, le sorprese possono essere decisamente piacevoli.


Ora è ovvio che non mi trovo davanti un vino dove la freschezza di frutto può essere quella di quando è stato messo in vendita, ma a 14 anni dalla vendemmia non possiamo pretendere miracoli; eppure non solo non è morto ma quel frutto ha mantenuto integrità, non c’è ossidazione bensì una naturale maturità, evidenziata nella confettura di ciliegie e amarene, nelle sfumature di tabacco e fiori appassiti, nel timbro terroso e di sottobosco.


Al gusto conserva ancora una buona vena acida, la frutta composita è accompagnata da piacevoli espressioni speziate di pepe e cardamomo, è diventato un Valpolicella adulto, più profondo e complesso, con una dolcezza di frutto davvero piacevole. Una inattesa sorpresa.

Francesco Guccione - Vino Bianco "T"


di Roberto Giuliani

Legno grande e acciaio, 100% Trebbiano (presente in Contrada Cerasa a Monreale dal 1400) ha il potere di farsi bere tutto senza alcuna conseguenza. 


Tiglio, gelsomino, ginestra, pesca, susina, albicocca, buonissimo ma anche digeribilissimo, tanto da non essermi accorto di averlo terminato a fine pasto.

A Cervara di Roma con il Montepulciano d'Abruzzo DOC Riserva "28 Quintali" di Lampato che...pesa troppo!


di Roberto Giuliani

Ormai è sempre più frequente dovere fare i conti con estati torride, punte di caldo estreme che ti tolgono le forze e ti spingerebbero a stare chiuso in casa con l’aria condizionata a palla. Io dal lontano 2003, quando non ne posso più di sudare e squagliarmi sul pavimento, scelgo una meta “alta” non lontanissima per riprendermi da cotanto calore. Proprio pochi giorni fa, quando la temperatura indicava 37 gradi alle 11 del mattino, ho deciso con mia moglie di intraprendere quel viaggio; la meta scelta, già conosciuta ma da tempo non più visitata, era Cervara di Roma, che a dispetto della distanza è in provincia di… Roma. E già, sono ben 71,5 km partendo dalla Stazione Termini, ma da casa mia a Fiano Romano sono ancora di più, 86,3 km! Ma pur di trovare sollievo da ‘sta calura non ci abbiamo pensato due volte, Cervara è a quota 1.053 metri, è il più alto comune della provincia e il secondo del Lazio dopo Filettino, un pochino meglio si starà…

Cervara di Roma - Foto: Siviaggia.it

E in effetti, mentre alle 12,15 passeggiavamo per le stradine di questo bellissimo borgo, la temperatura era al di sotto dei 30 gradi, speravamo ancora meno, ma il venticello e un’aria decisamente più pulita hanno contribuito a non farcela percepire in peggio. Ovviamente Cervara non è solo fresco, ma è anche un bellissimo borgo collocato all’ingresso del Parco Naturale Regionale dei Monti Simbruini, la più grande area protetta della regione; così bello da essere stato ritratto da numerosi artisti nel corso dei secoli, compreso quel Samuel Morse che inventò il famoso codice.

Parco Regionale Monti Simbruini

Passeggiando tra le stradine del paese ci si trova spesso di fronte a dipinti, oltre ad ampie vedute panoramiche, certo bisogna avere una buona muscolatura perché dall’area di parcheggio ci sono da fare numerose rampe di scale e anche tra un vicolo e l’altro è frequente trovare altri gradini da fare. Poco prima di arrivare in cima dove risiede la Rocca, c’è la chiesa principale, Maria Santissima della Visitazione, dove gran parte dei 450 paesani va in preghiera.


Per pranzare si può andare al ristorante Ferrari, proprio nel centro del paese, oppure a circa 4 chilometri c’è la Locanda di Fonte Martino, che è quella che abbiamo scelto noi, anche perché volevamo stare in un ambiente immerso nel bosco. 
La scelta è stata ottima, il posto è veramente un’oasi di tranquillità, con una bella terrazza con tavoli ben distanziati e intorno tutto bosco. Fra l’altro non mi aspettavo una più che buona carta dei vini, tenendo conto che l’ambiente è quello tipico di una trattoria. 


Il proprietario ci tiene alla qualità, le materie prime sono ottime e cucinate molto bene, tra antipasti, primi e secondi ho trovato un’ottima misura, mai un piatto pesante, oleoso, ogni portata si è rivelata equilibrata e digeribile. La tagliata di manzo è uno spettacolo, alta e tenerissima, vale la pena andarci solo per questo, anche perché qui si fa tutto con la brace vera, lo dimostrano i peperoni buonissimi che abbiamo preso per contorno.


Nella scelta dei vini non potevo che orientarmi verso quelli più vicini al territorio, perché anche se siamo in provincia di Roma qui si respira aria d’Abruzzo; così, da una buona sequenza di Montepulciano ho scelto la Riserva 28 Quintali 2013 di Lampato, in edizione limitata. In breve, l’azienda nasce nel 2009 nel comune di Castellana di Pianella (PE) dalla coppia nella vita Morena Lamonaca e Tommaso Patricelli (dai loro cognomi il nome Lampato), ambedue già proprietari di una propria azienda agricola, le cui uve venivano conferite alla Cantina Tollo.


A dirla tutta Tommaso prima delle uve trattava le prugne, era uno dei principali produttori del centro Italia e serviva la grande distribuzione. Poi le cose sono cambiate, fuori e dentro, Tommaso si è trovato di fronte a un bivio e ha scelto di abbandonare il mercato ortofrutticolo e puntare alla produzione d’uva. Nel 2009, con Morena, ha finalmente fatto il salto definitivo con un’azienda nuova in grado di seguire l’intera filiera produttiva, non solo, l’impostazione è andata subito in direzione del biologico e dell’autonomia energetica, coprendo il tetto aziendale con pannelli fotovoltaici.


Il 28 Quintali è un Montepulciano d’Abruzzo Riserva, classe 2013, diciotto mesi in barrique e oltre un anno di affinamento in bottiglia. Alla Locanda l’ho pagato 35 euro (il ricarico mi sembra più che corretto), ma sul sito aziendale viene proposto a 18 euro, davvero un prezzo eccellente. Ha profumi intensi di marasca, prugna, mora di rovo, ciliegia in confettura, cacao, tabacco, liquirizia, mosto, leggera vaniglia.


Bocca con giusta freschezza e un’alcolicità importante ma ben coperta da una struttura energica, ancora qualche venatura boisé ma non disturba, c’è tanto materiale espressivo che bilancia bene anche nel lungo finale. Un ottimo vino insomma, ma con una pecca, veramente sempre meno giustificabile: la bottiglia pesa troppo! 1208 grammi sono davvero fuori misura, perché usare una bottiglia del genere? Da un’azienda che lavora in biologico e ha un occhio per l’ambiente una scelta del genere non me l’aspetto proprio! 
Cari Tommaso e Morena, non è più tempo di bottiglie pesanti per simboleggiare la grandezza di un vino, quello che conta è cosa c’è dentro e, tutt’al più si può giocare con la scelta del formato e con un’etichetta accattivante, il resto è davvero di troppo.

InvecchiatIGP: La Scolca, Gavi dei Gavi Etichetta Nera 2013


di Andrea Petrini

Mio cugino Vittorio Soldati fa, nientemeno, il Gavi della Scolca, forse il migliore di tutti i Cortese... Sorprendente e unico, ormai, il suo vino.. sebbene diffuso nei locali di lusso, non cede al confronto coi più collaudati bianchi di Francia... L’importante è il vino e finora non se ne può dire che bene. Mario Soldati, Vino al vino, 1969

Questa citazione, legata ad uno dei più grandi scrittori e registi italiani, un innamorato delle colline del Gavi, che descriveva come di un verde rilassante e composte da un mosaico complesso di suoli, talvolta bianchi, talvolta rossi, segna in maniera indelebile il rapporto storico tra la famiglia Soldati e questo fazzoletto di territorio, ricompreso in 11 comuni della provincia di Alessandria, visto che la tenuta è stata acquistata nel 1919 dal bisnonno di Giorgio Soldati, padre di Chiara Soldati, con l’intento di valorizzare un territorio dalle grandi potenzialità tanto che all’azienda venne dato un nome simbolico: La Scolca. Il nome dell’appezzamento, infatti, deriva dall’antico toponimo “Sfurca” ovvero “Guardare lontano” ed in questo caso il riferimento è sia esplicito, ovvero diretto alla cascina che vi sorgeva, in passato usata come postazione di vedetta, sia implicito e legato fortemente al carattere deciso dei proprietari che, convinti nelle potenzialità del vitigno cortese, hanno piantato ai primi del ‘900, in un areale fortemente segnato dalla coltivazione di vigneti a bacca rossa, un’uva a bacca bianca che oggi, dopo cento anni, è diventata simbolo di un territorio e, soprattutto, di un’azienda conosciuta in tutto il mondo.


Per avvalorare quanto scritto sopra oggi, per la rubrica InvecchiatIGP, voglio parlare dei vini più iconico e rappresentativo de La Scolca ovvero del loro Gavi dei Gavi, un cortese in purezza che l’azienda produce ben prima del riconoscimento della DOC (1974) e che rappresenta un vero e proprio marchio registrato in Europa dal 1969 e negli Stati Uniti dal 1971, meglio conosciuto come “Black Label”.
Questo Gavi dei Gavi Etichetta Nera 2013, millesimo considerato tra i più tardivi degli ultimi decenni causa inverno prolungato fino ad aprile, già dal colore, come potete vedere in foto, ha nuances cromatiche giallo paglierino tanto che alla cieca, come accaduto al sottoscritto, avrei scommesso casa che fosse l’ultima o la penultima annata messa in commercio. 


E’ al naso che il vino stupisce ed esalta il territorio e la denominazione con quella espressività mista a complessità tanto cara a Mario Soldati. Aromaticamente, infatti, ritrovo un austero rigore minerale (selce e pietra focaia) accanto a stratificazioni di anice, agrume candito, cera, mirabella, fiori gialli declinanti. 


Al sorso stupisce ulteriormente perché, accanto ad una apparente sottigliezza strutturale, è determinato, freschissimo e dura lungo nel ricordo di esaltante sapidità che riporta al vicino mare ligure.

Conti degli Azzoni – Marche IGT Rosso “Passatempo” 2015


di Andrea Petrini

Il solo pensiero del Montepulciano in purezza marchigiano affinato in barrique per almeno 18 fa presagire lo stereotipo del vino anni ‘90 buono per qualche americano in vena di barbecue. 


Col Passatempo 2015 siamo invece lontani da quei ricordi, è un pugno di ferro ma in guanti di velluto e a noi questa cosa fa impazzire dalla gioia!

Alla scoperta del Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore con sei grandi vini del territorio!


di Andrea Petrini

Con Marche Tasting, ovvero la serie di incontri on-line sui vini marchigiani organizzati dall’Istituto Marchigiano di Tutela Vini, abbiamo bissato l’incontro con il Verdicchio dei Castelli di Jesi attraverso la degustazione, stavolta, della tipologia Classico Superiore. Prima di entrare nel merito dei vini degustati, bisogna fare un passo indietro per spiegare bene quando un Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC può essere definito nella tipologia Classico Superiore.
Se leggiamo con attenzione il disciplinare di produzione, questo indica che un Verdicchio dei Castelli di Jesi può fregiarsi della menzione “Classico” se è prodotto nella zona originaria più antica di produzione che potete verificare nella cartina che segue.


La menzione "Superiore", invece, che potrebbe essere mal interpretata dai neofiti. Infatti, non sta ad indicare un vino qualitativamente migliore, ovvero superiore rispetto agli altri ma, come vale per ogni denominazione di origine italiana, rappresenta solo un riferimento ad un maggiore contenuto in alcol (in questo caso il disciplinare prevede un 11,50% di alcol min.) rispetto a quanto richiesto dal disciplinare del vino “base” che in questo caso è il Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC (10,50% alcol min.).

Sei, come al solito, i vini degustati in diretta zoom con i produttori presenti tra cui, questa volta, anche Ampelio Bucci che ci ha onorato della sua presenza.

Moncaro - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Verde Ca’ Ruptae” 2020 (100% verdicchio): da tre storici vigneti nell’area classica di produzione del Verdicchio nei comuni di Montecarotto, Serra de’ Conti e Castelplanio nasce questo vino dal profilo sensoriale ancora giovanissimo. Olfattivamente sa di mela verde, clorofilla, sbuffi vegetali e mandorla. Al gusto è coerente anche se la gioventù lo rende ancora leggermente fuori fuoco. Da aspettare.


Villa Bucci - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore 2019
(100% verdicchio): dopo aver ascoltato per qualche minuto la lectio magistralis di Ampelio Bucci sul suo Verdicchio, credetemi, è stato abbastanza difficile ritornare su questo Classico Superiore in modo da valutarlo oggettivamente e non col cuore. Questo vino, ancora con i suoi riflessi verdolini, fa emergere sensazioni di pesca, prugna gialla, biancospino, sambuco e, ormai, l’onnipresente mandorla tipica del vitigno. La vivace freschezza è assolutamente in sintonia con le morbidezze del vino che si concede anche una stuzzicante sapidità che accompagna i gradevoli ritorni di erbe aromatiche nel lungo finale.


Lucchetti - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Vigna Vittoria” 2018
(100% verdicchio): prodotto dai vecchi vigneti di proprietà (età media 30 anni) è un vino che rispecchia assolutamente la vivacità e l’estro di Paolo Lucchetti che cerca nei suoi vini autenticità e beva senza compromessi. Questo Verdicchio sa di gelsomino, camomilla, rosa gialla, mandarino e pesca con riferimenti minerali quasi salmastri. Bocca dinamica, tesa, segnata da un gioco di equilibri ben riuscito.


Socci - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Bianca” 2018
(100% verdicchio): questa piccola azienda, situata nel cuore delle Marche, a Castelplanio, ha come unico vitigno di riferimento il verdicchio e come unico vino prodotto il Verdicchio dei Castelli di Jesi che in questa versione è stato prodotto attraverso la tecnologia VINOOXJGEN, un sistema di vinificazione che impedisce il contatto del vino con l’ossigeno perché privato di ogni tipo di travaso. Il mosto, infatti, diventa vino e compie l’intera vinificazione all’interno di uno specifico recipiente fino ad andare in bottiglia. A prescindere dalla sua metodologia di produzione il vino risulta aromaticamente compatto nel suo guscio di frutta dove ritrovo il kiwi, la pesca bianca, il lampone acerbo e la mela a cui, col tempo e l’ossigenazione, si accompagnano richiami floreali di sambuco e melissa. Al palato è piacevolmente agrumato e con garbato finale di mandorla verde.


Marotti Campi - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Volo D’Autunno” 2019
(100% verdicchio): questo vino, prodotto da questa storica cantina di Morro d’Alba, è una interpretazione originale del Verdicchio dei Castelli di Jesi in quanto questo vino, dopo la vinificazione, affina per circa 6 mesi a contatto sulle sue bucce. Il risultato, ovviamente, è un Verdicchio di grande struttura e portata dimensionale, dove il cedro, l’albicocca matura, il melone, gli sbuffi salmastri e le erbe mediterranee sono assolutamente amalgamati lasciando spazio alle caratteristiche varietali del vitigno senza che queste siano offuscate dal processo di vinificazione. Al sorso è denso, di struttura ma al tempo stesso piacevolissimo e affatto pesante. Termina lunghissimo su ritorni di frutta matura e salgemma.


Stefano Antonucci - Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore “Stefano Antonucci” 2018 (100% verdicchio): Stefano Antonucci, self –made man del vino, da sempre produce vini che, in qualche modo, riflettono il suo carattere eclettico e carismatico e questo Verdicchio, che porta tra l’altro il suo nome, non può essere da meno. Col suo affinamento di 12 mesi in barrique è un vino carezzevole, morbido e setoso nelle sue sensazioni olfattive di ginestra, erba limoncella, mandorla fresca, a cui seguono sensazioni di cedro, arancia amara e spezie gialle orientali. Il sorso è levigato, equilibrato e sorretto da spinta sapida. Chiude con esemplare tipicità gustativa di mandorla tostata.



InvecchiatIGP: Bosio - Franciacorta Extra Brut Millesimato 2008 “Boschedòr”


di Lorenzo Colombo

Per il nostro primo articolo della nuova rubrica InvecchiatIGP andiamo a degustare un Franciacorta Millesimato, il Boschedòr di Bosio. Non è tanto il periodo di sosta sui lieviti in bottiglia il motivo di questa scelta, ma piuttosto il tempo trascorso dalla sua sboccatura, ben nove anni.


Questo a riprova, ancora una volta, che il luogo comune, purtroppo ancora imperante, che dopo la sua sboccatura un vino spumante ha solitamente vita breve è per l’appunto solamente un “luogo comune”, a patto che, naturalmente, si sia di fronte ad un prodotto d’indubbia qualità. Ed è questo il caso del nostro vino.

L’azienda

Fondata negli anni novanta l’azienda di Cesare e Laura Bosio si trova a Corte Franca dove dispone di trenta ettari, venti dei quali di vigneti, condotti in regime biologico, situati in collina con diverse esposizioni Oltre a Chardonnay e Pinot nero, utilizzati per i vini a Docg, vi si allevano anche Merlot, Cabernet sauvignon, Cabernet franc e Barbera, con un’elevata densità d’impianto (6.300 ceppi/ettaro)


La produzione annuale è di circa 120.000 bottiglie suddivise tra nove diversi Franciacorta e tre Curtefranca.

Il Boschedòr

Pinot nero e Chardonnay in parti uguali (la resa in vigna è di 45 ettolitri/ettaro) vanno a comporre questo vino, la fermentazione si svolge in vasche d’acciaio, una volta imbottigliato rimane sui lievi per almeno 30 mesi. La produzione attuale è di 7.000 bottiglie. Il vino che andiamo ad assaggiare è dell’annata 2008, con sboccatura a luglio 2012, ipotizzando la formazione della cuvée e la messa in bottiglia tra marzo ed aprile 2019 questo vino ha avuto un affinamento d’oltre tre anni in bottiglia.


Nel bicchiere si presenta con un’abbondante spuma ed un perlage fine e persistente composto da numerosissime bollicine, il colore è giallo-dorato scarico, luminoso.


Intenso ed ampio al naso dove si colgono sentori di lieviti, brioche, pane tostato, frutto giallo, mela, pera, note d’agrumi.
Cremoso e sapido, quasi salino, fresco, con spiccata vena acido-sapida, frutto giallo, canditi, agrumi maturi ed accenni tostati è quanto si coglie alla bocca, lunga la sua persistenza. Col tempo ha acquistato complessità senza perdere in freschezza.

Casata Mergé – Igp Lazio Bianco “Venere” 2019


di Lorenzo Colombo

Malvasia puntinata e Trebbiano provenienti da vigneti situati a Monte Porzio Catone per questo vino giocato su sentori di fiori e frutta gialla matura, morbido e succoso al palato, con note d’arancio maturo e con un accenno di mineralità all’olfatto. 


Un vino non cerebrale, ma lineare e decisamente godibile.

Il Pinot Nero dell'Alto Adige: la nostra TOP 10


di Lorenzo Colombo

Abbiamo partecipato come commissari a diverse edizioni del Concorso Nazionale del Pinot Nero, se non andiamo errati a ben nove edizioni, non vi partecipiamo più da tre anni, ovvero da quando l’attuale regolamento del concorso prevedere che i commissari sino unicamente tecnici, ovvero enologi e enotecnici. Seppur Concorso “Nazionale” la maggior parte dei vini in competizione proviene dall’Alto Adige e nelle 20 edizione del Concorso quasi sempre i vini premiati appartengono a questa regione.


Nei prossimi giorni pubblicheremo un articolo relativo alle Giornate Altoatesine del Pinot Nero che si sono svolte dal 12 al 14 giugno ad Egna e Montagna e scriveremo anche in merito ai vini premiati nell’edizione 2021 del Concorso, ora invece andiamo a soffermarci sui vini dell’edizione 2020 del Concorso, ovvero quelli relativi alla vendemmia 2017.


Causa pandemia lo scorso anno le Giornate del Pinot Nero non si sono tenute, così non c’è stata la possibilità di assistere alla premiazione dei vini vincitori della scorsa edizione del Concorso e di poterli degustare. 
Gli organizzatori hanno così pensato di inserire la degustazione dei “Top of Pinot Noir 2017” all’interno dell’edizione attuale delle Giornate del Pinot Nero e così domenica mattina, 13 giugno, nella sala culturale J. Fischer di Montagna, alla presenza di quasi tutti i produttori dei vini premiati abbiamo potuto partecipare a questa degustazione.


Sentendo la descrizione dell’andamento climatico dell’annata 2017, che ha creato notevoli problemi in campagna, e di conseguenza anche in cantina, non ci saremmo aspettati una simile qualità da parte dei vini assaggiati, tutti molto buoni con punte d’eccellenza (secondo noi) per almeno un paio di campioni. 
Ecco la nostra personale classifica (tra parentesi la classifica ufficiale del concorso con la relativa posizione ottenuta). C’è da dire che noi abbiamo assaggiato i vini un anno dopo la commissione giudicante e, al di là della nostra opinione personale, in questo lasso di tempo i vini sono certamente cambiati.

Castelfeder - Pinot Nero Riserva "Burgum Novum" (7° - 87,5/100): granato non molto intenso, luminoso. Intenso al naso, balsamico, spezie dolci, elegante, fresco, pulito. Fresco, delicato, succoso, elegante, mediamente strutturato, bel frutto, ciliegia, lunga la persistenza. Vino di finezza, non di potenza. 93-94

Kellerei Terlan - Pinot Noir Riserva "Monticol" (2° - 89,1/100): granato di media intensità con ricordi color rubino. Intenso al naso, speziato, note balsamiche, frutto rosso, pulito. Fresco e fruttato, speziatura delicata, elegante, bella vena acida, buon frutto, lunga la persistenza. 93


Kellerei Andrian - Blauburgunder Riserva "Anrar" (3° - 88,5/100): granato-rubino di media intensità. Buona intensità olfattiva, note floreali, fresco, frutta fresca, leggeri accenni speziati, elegante. Fresco e fruttato, media struttura, leggeri accenni speziati, buona persistenza su accenni di radici. Vino più d'eleganza che non di potenza. 90

K. Martini & Sohn – Blauburgunder "Palladium" (9° - 86,5/100): granato di media intensità. Note balsamiche e vanigliate, legno dolce, spezie dolci, buon frutto speziato. Fresco, fruttato, leggera nota piccante (pepato), discreta struttura, buona persistenza su sentori di bastoncino di liquirizia. 88-89

Kellerei Tramin - Pinot Nero "Maglen" (8° - 86,7/100): granato con riflessi color rubino di discreta intensità. Mediamente intenso al naso, legno percepibile, note balsamiche, speziato. Buona struttura, frutto scuro, speziatura dolce, bella vena acida, lunga la persistenza. 88-89

Weingut Tiefenbrunner Schlosskellerei Turmnof - Blauburgunder Riserva "Linticlarus" (3° - 88,5/100): rubino-granato di discreta intensità. Intenso al naso, speziato, frutto rosso maturo, pulito, buona eleganza. Fresco, di buona struttura, leggeri accenni piccanti, speziato, bella vena acida, chiude con buona persistenza su leggeri sentori di bastoncino di liquirizia. 88-89


Kellerei Bozen Gen. Landw. Ges. – Blauburgunder "Thalman" (9° - 86,5/100): granato di media intensità. Buona intensità olfattiva, note balsamiche e vanigliate, legno dolce. Fresco, bel frutto, note vanigliate, buona eleganza, succoso, lunga la persistenza. 88-89

Elena Walch - Pinot Nero "Ludwig" (1° - 90,3/100): rubino-granato luminoso di discreta intensità. Intenso al naso, balsamico, frutto rosso speziato, leggere note floreali, pulito, di buona eleganza. Fresco e succoso, bel frutto, accenni speziati, chiude con buona persistenza leggermente amaricante. 87



Malojer-Gummerhof - Blauburgunder Riserva (5° - 88,4/100): granato non molto intenso, luminoso. Buona intensità olfattiva, note balsamiche e vanigliate, bel frutto rosso, pulito, leggeri accenni floreali. Fresco e succoso, mediamente strutturato, succoso, buona la persistenza, chiude con leggeri sentori di radici. 87

Weingut Ignaz Niedrist - Blauburgunder "Vom Kalk" (6° - 88,2/100): granato di discreta intensità con ricordi color rubino. Buona intensità olfattiva, speziato, frutto scuro. Buona struttura, legno ancora in evidenza, leggere note tostate-affumicate, chiude leggermente amarognolo. 84-85

InvecchiatIGP: Barone Ricasoli, Toscana IGT Chardonnay "Torricella" 2008


di Stefano Tesi

La domanda è tanto legittima quanto prevedibile: campanili a parte, c’era bisogno di andare in Toscana, anzi in una zona di rossi per eccellenza come il Chianti Classico, per trovare un grande e vecchio vino bianco?


La risposta è, al tempo stesso, sì e no.

Ma se alla fine ha prevalso il sì, il motivo è semplice: trovare un bianco con alle spalle una storia (storia, non storytelling) così antica da essere affascinante è quasi impossibile, in Italia. Perché se noi oggi ci limiteremo a parlare – e garantisco che non è poco - del Torricella 2008 del Barone Ricasoli, è bene sapere che un vino con questo nome e della stessa tipologia fa tuttora bella mostra di sé nelle cantine baronali dal 1927. Mica noccioline. E che, come ci conferma Francesco Ricasoli, la sequenza delle annate ancora esistenti è la seguente: 1927, 1934, 1941, 1942, 1943, 1945, 1949, 1950, 1952, 1955, 1957, 1960, 1981, 1994, 1995, 1996, 1997, 1998, 1999, 2000, 2002, 2003, 2004, 2005, 2006, 2007, 2008, 2009, 2010 e via fino ad oggi. Scusate la sfilza, ma serviva a rendere l’idea.


Altro particolare: quando, nel 1953, si tenne proprio a Brolio il 7° Congresso Internazionale della vite e del Vino, tra i vini in degustazione c’erano il “Brolio Bianco” 1895, 1925 e 1927. Il che fa in effetti presumere una certa vocazione della storica azienda a produrre bianchi da invecchiamento.


Detto questo, bisogna anche ammettere che Torricella è il nome storico, ma che le vite del vino sono due: quella fino al 1983, quando lo si faceva con Malvasia Bianca e Trebbiano, e quella dal 1993 in poi, quando il nome resta ma cambiano l’ubicazione della vigna e la varietà: solo Chardonnay, per dar vita a un bianco strutturato e fatto interamente in barrique francesi, come di moda all’epoca. Già nel 2003 di passa però all’acciaio combinato alla barrique, con un trend di progressiva diminuzione dell’uso del legno che dura ancora oggi. Dal 2009 al 2018 entra in scena un anche un po’ di Sauvignon, prima di un ritorno nel 2019 al 100% di Chardonnay. Ma se il Torricella 2008, di cui parliamo oggi, è un vino fatalmente sorprendente, non è solo per la sua storia.


Il colore è un oro molto intenso e brillante, mentre all’impatto l’olfatto è esplosivo, cangiante, complesso: “uno champagne senza bollicine”, come ci siamo trovati a commentare in diretta col produttore. Via via che il tempo passa e che il vino leggermente si scalda i sentori si susseguono e si evolvono in progressione: miele di acacia, rosa sfiorita, rosmarino e macchia, ombre salmastre, un accenno di resina, poi menta e una sorta di put-pourri di odori dell’orto, sassi bagnati e pietra focaia. In bocca il sorso ha una grande ricchezza, profondità e la lunghezza, il vino è asciutto e sapido, elegante nella sua potenza, con retrogusti che tornano a ondate e richiamano i toffees e la nocciola.

Ne ho nascosta una bottiglia nella mia riserva personale e programmato l’apertura nel 2031.

Vallepicciola - Cabernet Franc "Mordese" 2017

di Stefano Tesi

Adoro ricredermi in meglio. Di questo Cabernet Franc fatto in Chianti Classico, vinificato in acciaio e poi messo in legno nuovo da 225 lt, mi era già piaciuto il 2016, ma il 2017 anche di più: il caldo dell’annata non ha nuociuto al frutto, maturo ma vivo, mentre in bocca la struttura non nuoce all’eleganza.